philosophy and social criticism

Insieme ma soli. Dialogo con Robert Putnam

"bowling"

di Walter Mariotti

C’è anche un’altra America. Un’America diversa dalla vulgata giornalistico-mediatica sui cui il mondo costruisce i suoi fantasmi. Un’america lontana dai cliché delle statistiche a uso e consumo dei sondaggisti bipolari. C’è un’America che gli esperti non sanno leggere negli esiti dei ballottaggi, nella deflezione dei consumi, nelle fluttuazioni degli indici di Wall Street. Un’America lontana anni luce tanto dallo stereotipo dell’elefante conservatore quanto dell’asinello progressista. C’è un’America che sembrava ritrovarsi in John F. Kerry e che invece ha sostenuto George W. Bush.

Ma è un’America che né Bush né Kerry conoscono. Un paese straordinario, impensato, irriducibile ai logori stereotipi di poliziotto del mondo, modello di democrazia liberale o leader del capitalismo liberista e libertario.

Better together è il grido di quest’America. Un grido che non è un jingle né uno slogan ma un fatto, un dato, una realtà. Better togheter, meglio insieme. Ovvero la riscoperta dell’idea di comunità sull’altra sponda dell’Atlantico. L’irruzione, nella società più capitalista e individualista, di un altro tipo d’individuo e di un diverso concetto di capitale, “l’individuo plurale”, il “capitale sociale”.

Better together è anche l’ultimo libro di Robert Putnam, ordinario di Scienza della politica a Harvard, fondatore dei Saguro seminar, un programma dedicato a sviluppare l’impegno civile negli Stati Uniti, autore di una dozzina di titoli dall’analisi comparativa delle élites alla cooperazione internazionale, dalla sopravvivenza delle tradizioni civiche italiane alla disaffezione per la democrazia, dal collasso delle istituzioni sociali al missing capital. Quel capitale sociale scomparso, appunto, che l’America individualista, prima e più di altre insospettabili nazioni, rievoca gridando Better toghether, meglio insieme.

“La nozione di capitale fisico”, precisa Putnam “si riferisce agli strumenti materiali che aumentano la produttività (di qualunque cosa si tratti, da un cacciavite a un motore). Parecchie decine d’anni or sono, gli economisti ci hanno insegnato a pensare alle abilità e all’istruzione come ad un’altra forma di capitale che può anch’essa aumentare la produttività – il capitale umano. Più recentemente, gli scienziati sociali in molti paesi hanno osservato che esiste anche un capitale sociale, ovvero che le reti sociali (e le regole connesse di reciprocità e fiducia) possono anch’esse avere forti effetti sulla produttività, in senso ampio, e hanno usato il termine capitale sociale per riferirsi a tali effetti”.

L’idea centrale di Putnam, che la avvalora con un’incredibile quantità di storie, è in realtà molto semplice. Quasi banale, anzi per un audience europea e italiana: “Le reti sociali hanno un valore. Hanno un valore per le persone che fanno parte delle reti – è ad esempio dimostrato che il “far rete” è una buona strategia per fare carriera. Fitte reti sociali nei quartieri – grigliate in compagnia o associazioni di vicinato o altro – possono essere un deterrente per la criminalità, recando vantaggio anche a quei vicini che non partecipano alle grigliate o non fanno parte delle associazioni”.

Lontano dalla metafisica sociale di Mounier, dal teismo di Lévinas e anche dalla politica come religione civile di La Pira, Putnam rifugge il comunitarismo individuale di Bordieu per tornare ai modelli dei padri fondatori del suo paese, soprattutto al comunitarismo di Thomas Jefferson che tanto aveva affascinato Alexis de Tocqueville. Ma anche, e forse suo malgrado, Putnam fa riecheggiare gli strali antieconomicisti che Ezra Pound lanciava alla sua nazione, infetta dal virus della banca d’Inghilterra, il profitto sradicato dal rapporto tra natura e individui, tra frutti della terra e società.

Sarebbe inutile, però, negare che Better togheter è il riflesso buonista delle ultime due elezioni, la risposta politicamente corretta e ottimista ai Neocons, alla nuova destra confermata al potere. L’analisi dell’underground di un rinato partito conservatore che sembra affermarsi per il motivo più semplice, la ragion d’essere stessa della politica: perché capace di rispondere alle domande cruciali della società americana e della nostra epoca. Problemi quotidiani che la cultura dominante, generalmente orientata in senso liberal, aveva sottovalutato. E che il partito democratico, internazionalista, colto e almeno in teoria welfare oriented addirittura rinunciato ad affrontare. Domande, però, che davanti alle contraddizioni dell’epoca e del Paese, ormai non più imputabili alla reganomics né alle Twin Towers, riemergono tragicamente: come conciliare convivenza sociale e solidarietà con materialismo e individualismo nell’ottica di un’economia di mercato? Su quali principi fondare le istituzioni sociali e la loro legittimità una volta abolito il primato della religione?

Come metabolizzare il relativismo culturale, la rivoluzione sessuale, il politically correct senza rinunciare all’intelligenza e rifiutando il nichilismo snob dei circoli radical chic? Per capire la rinascita dell’idea comunitaria in America non basta analizzare la società con le lenti liberal o il paradigma postfordista: occorre (soprattutto) tener presente l’etica del lavoro calvinista, che negli Usa si sposa da sempre al fondamentalismo religioso, e il cronico complesso della mancanza della storia. Un mix che nel privato prende la forma di un nuovo culto familiare, nel pubblico della spasmodica ricerca di celebrità (dal basket all’esercito al cinema), nell’economia accresce il divario tra stipendi medi ed elevati. Il boom di Wall Street tra il 1982 e il 1999, quando il Dow Jones Industrial Average si impenna del 1300 per cento, spinge infine il patrimonio dell’1% delle famiglie americane ai vertici della scala sociale, legando l’aumento della ricchezza al possesso di azioni. Una concomitanza di favoritismi economici e culturali che incoraggia ulteriormente l’ascesa delle grandi famiglie statunitensi in politica. Il discredito morale del presidente Clinton al suo primo mandato, che raggiungerà il culmine con l’impeachment del 1998-1999, consente l’emergere di questa cultura politica neorepubblicana, centrata su valori religiosi e interessi azionari, più forte nel sud evangelico e fondamentalista, e istalla il reborn George W. Bush alla Casa Bianca. Aprendo a un nuovo senso di capitale sociale, ovvero di comunità, missione individuale e ruolo nazionale.

“I sostenitori dell’interpretazione del capitale sociale”, dice Putnam, “hanno parlato dell’esistenza di forti correlazioni, in vari paesi, tra vivaci reti sociali e importanti risultati sul piano sociale, quali più bassi tassi di criminalità, maggior benessere infantile, migliore salute pubblica, un’amministrazione più efficiente, riduzione della corruzione politica e dell’evasione fiscale, migliori prestazioni dell’economia di mercato, e così via. Per esempio, diversi sofisticati studi econometrici, effettuati di recente in Italia, hanno mostrato che, tenendo sotto controllo tutti gli altri fattori che si potrebbero ipotizzare come rilevanti, i luoghi caratterizzati da un elevato capitale sociale hanno anche mercati del capitale e del lavoro più efficienti, proprio come predice la teoria. E come io sottolineerò in breve, studi in vari paesi dell’OCSE suggeriscono che il capitale sociale è un importante fattore dei risultati ottenuti sul piano educativo”.

Certo, Putnam sa bene che non tutte le “esternalità del capitale sociale sono positive”. Alcune reti sono state usate per finanziare e servire da tramite al terrorismo, vedi Al Quaeda. Ma aggiunge che sono i criminologi ad aver mostrato come il tasso di criminalità in una vicinato si abbassa se i vicini si conoscono bene, un beneficio che investe favorevolmente anche i residenti che non hanno legami con le attività del vicinato. “Proprio come il capitale fisico (strumenti) e quello umano (l’educazione), dunque, il capitale sociale arriva in forme differenti – un club di scacchi, un’organizzazione civica, un’associazione sportiva, un sindacato, il Ku klux klan. Quest’ultimo esempio, secondo Putnam, dimostra che il capitale sociale può essere utilizzato anche verso scopi moralmente ripugnanti, proprio come una scoperta biochimica può  essere usata per un’arma del bioterrorismo o per una medicina salvavita. Il capitale sociale può essere uno strumento potente, ma se è usato bene o male è un altro problema”.

Fondamentale, così, è distinguere tra differenti tipi di capitale sociale. “Quello della “coesione interna” (bonding social capital), costituito dai legami tra persone che sono simili per etnia, età, classe sociale, ecc., e il capitale sociale “che getta ponti” (bridging social capital), costituito dai legami che passano attraverso varie linee di diversità sociale. Il punto cruciale però è evidente: “le reti sociali possono essere un bene di grande valore, sia per gli individui che per le comunità.

Apparentemente, le tesi di Better togheter sono in contrasto con quelle del penultimo libro di Putnam, Bowling alone, in cui l’americano sosteneva “che molte forme di legami con la famiglia e gli amici, le associazioni civiche, i partiti politici, i sindacati, i gruppi religiosi, e così via sono in declino negli Stati Uniti già da 30-40 anni”. Giocare a bowling da soli, del resto, è una metafora nata dall’osservazione che fra il 1980 e il 1993 il totale dei giocatori di bowling in America era cresciuto del 10%, ma il numero di quelli che lo facevano all’interno di leghe organizzate si era ridotto del 40%. Segno evidente del fenomeno studiato da uno dei maestri di Putnam, Coleman, la crisi delle reti sociali e delle norme di reciprocità e fiducia sociali. La contraddizione, in realtà, è solo apparente: “Il capitale sociale”, spiega Putnam “non è sincronizzato con un singolo metronomo globale. E qualunque siano le tendenze, è bene prestare attenzione alle reti sociali e alle regole di reciprocità e fiducia, poiché esse sono intimamente collegate alle cose di cui ci preoccupiamo, compresa la coesione sociale”. Anche perché il capitale sociale non è e non può essere “il sostituto di un’efficace politica pubblica”, quanto semmai “un suo prerequisito e, in parte, una sua conseguenza”.

Ecco perché per Putnam l’idea di capitale sociale è incompatibile con appartenenze ideologiche, perché non appartiene né alla destra né alla sinistra. Non solo: proprio come quello usato nelle scienze sociali, il capitale sociale “non rappresenta un’alternativa al conflitto sociale, ma un modo per rendere produttive le controversie”. Putnam si riferisce qui alle classiche categorie dell’interagire socio-economico, ai networks sociali, alle norme di reciprocità, all’assistenza mutua, alla fiducia reciproca. Il punto originale di quest’approccio è però che il social network non è mai introflesso, come una lobby: come quella ha un valore reale, concreto (vedi strategie di carriera), ma a differenza di quella vale e dà frutti sia per le persone che fanno parte della rete, sia per chi è estraneo.

Sinceramente, i punti più deboli dell’analisi di Putnam sono altri, alle estremità del suo discorso. Da un lato nell’individuazione delle cause del declino del capitale sociale, che Putnam vede nella solita televisione e nell’ormai usurata nuova società dei baby boomer. Dall’altro nei metodi proposti per la rinascita dello spirito comunitario, un’ingenua quanto improbabile «agenda per capitalisti sociali». Ora, che la tv imponga comportamenti isolazionisti e asociali è un dato scontato e in molti sensi superato dalla tecnologia, non solo dell’interattività ma anche di internet, che al contrario delle catastrofistiche analisi degli anni Novanta mostra sempre più di riprodurre nuove forme di socialità. Inoltre, che la generazione dei baby boomer abbia meno joining focus di quella, fortemente socializzante, uscita dalla Seconda guerra mondiale, che avrebbe vibrato di sentimenti di solidarietà, d’impegno civico e adesione a grandi ideali collettivi maturati nell’orrore del grande conflitto, è una visione quanto meno romantica se non del tutto bozzettistica. “Quello di capitale sociale è un concetto più ristretto e più chiaramente definito”, chiarisce Putnam, “che richiama l’attenzione su una componente cruciale della coesione sociale, nel senso di una società giusta, equa, tollerante e ben integrata. Naturalmente, altri fattori oltre al capitale sociale, sono rilevanti per la coesione sociale; ad esempio, un welfare efficiente e politiche antidiscriminatorie sono altrettanto importanti. Così, secondo me un capitale sociale ricco e del giusto tipo può esser considerato come un obiettivo politico intermedio che, se raggiunto, potrebbe aiutare governi e società a progredire verso il più ampio obiettivo della coesione sociale”.

Putnam non si azzarda a esaminare le dinamiche interne che hanno portato alla sparizione della socialità, ovvero alla base della comunità. Fallendo, proprio come è stato osservato, la “tragica profondità di un Sennett o di un Lasch”, che invece individuano il nodo del problema nell’organizzazione del lavoro attuale, “nei tempi di lavoro e di pendolarismo quotidiano infame che uccidono la socialità, nelle pratiche di sistematica distruzione del territorio che essiccano la vita dei quartieri operai ed ex-operai, nell’aridità esistenziale e politica della democrazia del mercato, tra le bocciofile che chiudono e i pusher di quartiere che prosperano”.

In questa luce, non può che apparire inevitabilmente ingenua l’ultima parte del libro, che indica come «ricostruire il capitale sociale». Il rifermimento è alla fase iniziale dell’impegno civico, già esaminata nel suo studio sulle comunità italiane, la stagione del primo Novecento in cui il riformismo sociale dominava e condizionava la partecipaziuone alla vita associata, mettendoli al cenbtro dell’organizzazione del tempo della politica. Un nuovo ruolo delle fondazioni private, la ricerca delle parti comuni nelle storie individuale (che inizierebbe semplicemente sostituendo l’Io con il Noi), la valorizzazione delle diversità etniche emerse dopo l’11 settembre, la creazione di spazi sociali, di nuovi media locali, la distribuzione di tecnologia a basso prezzo, sono i punti che permettono a Putnam di tratteggiare un singolare un vero e proprio piano per making social capital work, che conclude il volume.  

Conoscere più vicini possibile, partecipare alle manifestazioni di culture diverse da quella di appartenenza, fare volontariato. Conclusioni che rischiano di banalizzare lo sforzo di Better togheter, stemperandolo in un viaggio scontato dagli esiti inadeguati e la diffidenza verso schematismi ideologici già definiti. Non è così. Se nel penultimo libro, Bowling alone, Putnam faceva il professore di scienze sociali, presentando un freddo panorama statistico di alcuni decenni di declino nella socialità e nella partecipazione civica negli Stati Uniti, e concludendo con l’ottimistica speranza che i riformatori avrebbero potuto inventare nuove forme di capitale sociale per rimpiazzare quelle morenti, in Better together non c’è teoria né speculazione ma solo indagine e notizie, fatti, realtà.

Non si insinua che il trend in America si è improvvisamente rovesciato, non si fanno vedere particolari evidenze di una generale risorgenza della connessione sociale o di coinvolgimento nella vita pubblica della comunità. Si nega decisamente, però, con fatti ed esempi precisi che un generale declino significhi un declino generale in ogni situazione. Lo dimostra la vita, le storie di comunità nascoste all’interno della vasta verità statistica dell’erosione dei legami sociali. Un’impressionante varietà d’esperienze, che lascia le fredde statistiche di Bowling aloneper il salotto di Catherine Flannery, storica residente di Roxbury, Massachussets, che ha visto il suo vicinato distruggersi e poi riunirsi. Oppure per la classe di Philadelphia, dove un corpo di volontari sta aiutando i bambini di seconda elementare a leggere. O ancora per una riunione dell’headquarter dell’United Parcel Service a Greensboro, in North Carolina, dove gli operai che trasportano i pacchi discutevano, per la prima volta nella loro storia, come aiutare i nuovi assunti sul lavoro.

Putnam non ha voluto scrivere un libro di teoria, per fare un test su un’ipotesi di sistema che potesse spiegare la creazione di capitale sociale. Al contrario, ha voluto illustrare alcuni modi in cui in diversi angoli della nostra società si stanno facendo progressi nella sfida perenne di ri-creare nuove forme di comunità, adattate alle condizioni e ai bisogni del nostro tempo.

[cite]

 

 

da Communitas, n 1 (2005)

 

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philosophy and social criticism

vol. 24, issue no. 24

may 2015

ISSN: 2037-0857

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