philosophy and social criticism

Il romanzo dello sciame

Damiano Palano

«Morte ai vecchi», il libro scritto a quatto mani con Massimiliano Geraci, non può essere considerato forse il «primo romanzo» di Franco Berardi Bifo. Ma senza dubbio questa singolare distopia, che immagina un futuro non poi così lontano dal nostro presente,condensa molte delle riflessioni dedicate da Bifo alla «mutazione» contemporanea. E proprio per questo il vero protagonista del romanzo diventa uno sciame omicida di ragazzini, perennemente intrappolati in un onnipresente alveare digitale.

Fantasmi erotici

Al fortunato amante di piccole curiosità letterarie che si trovi a frugare tra i polverosi scaffali di qualche rigattiere, potrebbe forse capitare di imbattersi nel nome di Loris Aletti, misterioso autore di alcuni romanzetti erotici pubblicati al principio degli anni Settanta, che ben pochi oggi ricordano. Ospitate nella collana «I libri della notte» dall’editrice milanese Kermesse, le opere di Aletti sono infatti le sbiadite testimonianze di un genere dimenticato della letteratura di consumo, che fiorì improvvisamente sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso e che tramontò altrettanto rapidamente solo pochi anni dopo – quando la diffusione della pornografia di fatto chiuse ogni spazio di mercato a una produzione che allora si definiva «erotica» – senza lasciare traccia nelle biblioteche, nei repertori bibliografici e forse anche nella memoria collettiva. Nella manciata di libri che Aletti pubblicò fra il 1970 e il 1973, e che forse solo pochi mesi dopo la loro uscita precipitarono nell’oblio, si possono ricordare La crociera delle ninfette, In fondo al vortice, Viaggio intorno al sesso, Prendimi con dolcezza, Dalla Spagna con furore[1]. Ma il frutto migliore – o comunque più genuino – della vena di Aletti è probabilmente rappresentato da Orgia nell’aula magna, d’altronde il primo tra i romanzi pubblicati dall’autore presso l’editrice Kermesse. In questo caso, lo scenario in cui il giovane scrittore collocava l’abituale carosello di avventure erotiche era infatti offerto da un’università occupata, e, per quanto incastonate in uno svolgimento piuttosto prevedibile, le singole scene restituivano almeno qualcosa delle assemblee studentesche che avevano travolto l’Italia del Sessantotto. Proprio nelle prime pagine del romanzo, in una imprecisata città universitaria, gli studenti entravano infatti in agitazione, e un’affollata assemblea decretava lo stato di occupazione:

«Occupazione: questa era la parola che passava di bozza in bocca, eccitando gli animi di tutti. Alcuni studenti, seduti sul davanzale delle finestre, urlavano a gran voce gli ultimi sviluppi della situazione ai loro compagni di sotto aumentando così l’enorme confusione che già regnava per tutta la facoltà. Occupazione! Da quando gli studenti avevano cominciato ad agitarsi, nell’ambiente non si era parlato d’altro. Già da tempo vari professori, temendo il peggio, avevano cominciato una campagna di calunnie e di minacce, sostenuti da sparuti gruppetti di studenti ruffiani e secchioni, contrari a queste nuove idee che si facevano largo tra i loro compagni.

– Ci siamo arrivati finalmente!… – diceva con le braccia alzate, un giovane barbuto, con un grosso medaglione al collo che andava in giro dando pesanti pacche sulle spalle dei compagni, saltellando intorno come un canguretto capellone… Alcuni altri, invece, sembravano non voler perdere tempo in effusioni e, certi dell’esito dell’assemblea, si davano da fare riempiendo cartelli e muri con un profetico “la facoltà è occupata”»[2].

L’occupazione dell’università era naturalmente il pretesto per mettere in scena un intero catalogo di accoppiamenti, ma l’autore, forse con un certo compiacimento autobiografico, non esitava ad arricchire di dettagli il quadro, ben più di quanto consentissero i canoni di un genere di solito non troppo esigente in fatto di realismo. Aletti si soffermava così, seppur solo fugacemente, sui lavori delle assemblee, sulle aule fumose dall’aria irrespirabile, sulla composizione di documenti e manifesti, su studenti impegnati con lampostil e Olivetti lettera 22, sull’oscurantismo del rettore «D’Aback» e sulle contestazioni al terribile «Bimarchi», sulle avventure del professore progressista «Teodoro Ardighini», sull’intrusione di un fotografo «spia», sulle scritte che, quasi da ogni parete, avvertivano minacciosamente «professori e borghesi» che alla resa dei conti mancavano solo «pochi mesi». Tra i numerosi episodi vagamente boccacceschi, non mancavano inoltre lo scherzo a un poliziotto infiltrato, che, denudato con un imbroglio, si trovava esposto al pubblico ludibrio, o l’episodio in cui il rettore veniva scacciato dal suo studio da una ragazzina impertinente, che gli dava del «tu» con «sprezzante naturalezza» e lo invitava energicamente ad andarsene:

«Questa volta il Rettore non riuscì a nascondere il suo imbarazzo. Di fronte a quella ragazzina, che gli parlava con quelle sue cosce sfrontatamente in mostra, capì, che in quegli anni molte cose erano cambiate. Avrebbe voluto fare la voce grossa, arrabbiarsi, cacciare fuori con le sue mani quella sfrontata ma si sentì improvvisamente vecchio, molto vecchio. Preferiva lasciare ad altri il compito di risolvere la questione»[3].

E la questione – prevedibilmente – era destinata a risolversi qualche giorno dopo. Perché il romanzo di Aletti, non senza un filo di malinconica ironia, si chiudeva con l’inevitabile sgombero e il ritorno all’«ordine», dinanzi al quale nulla potevano le improvvisate barricate degli occupanti:

«Con le prime luci dell’alba, mentre l’università e l’intero quartiere dormiva, i poliziotti ed i carabinieri, sfondavano il portone, dilagando per le aule alla caccia dello studente. Ne trovarono qualche decina. Ammassati nei cellulari, come bestie in celle frigorifero, scortati da uomini armati di tutto punto, quei giovani videro, dal finestrino della loro prigione ambulante le strade, le case, i rari passanti di quella loro città, che assisteva indifferente a quanto stava accadendo. L’occupazione era finita! Ritornava finalmente a regnare l’ordine!»[4]

Gerontomachia

Benché le biografie che compaiono sulla quarta di copertina dei suoi libri non lo ricordino, dietro lo pseudonimo Loris Aletti si nascondeva in realtà Franco Berardi, l’intellettuale e «agitatore culturale» bolognese, fondatore di «A/traverso» e Radio Alice, oltre che protagonista del movimento del Settantasette, il quale, poco più che ventenne, si prestò ad arricchire con una manciata di titoli il catalogo dei «Libri della notte». Anche per questo Morte ai vecchi, il libro scritto a quatto mani con Massimiliano Geraci e da poco pubblicato da Baldini & Castoldi, non può essere davvero considerato – come si legge invece nella presentazione del volume – il «primo romanzo» di Bifo, benché le ambizioni siano in questo caso probabilmente più elevate di quelle che nutrirono quelle lontane operine giovanili. Ma forse, con un pizzico di ironia, si può persino trovare un filo sottile che lega le pagine ingiallite di Orgia nell’aula magna a quelle recentissime di Morte ai vecchi. E non tanto perché nel nuovo romanzo di Berardi e Geraci non manchi qualche scena di sesso, persino molto più esplicita di quanto l’erotismo dei «Libri della notte» potesse permettersi, ma perché in entrambi i casi a dominare il quadro è lo scontro tra il mondo dei «giovani» e quello dei «vecchi». Con la differenza – non da poco – che quarant’anni fa le pagine di Berardi restituivano la prepotente brutalità dei giovani contestatori e lo straripante entusiasmo della «rivoluzione sessuale», di fronte a cui il rettore – simbolo di un’intera classe dirigente – era destinato a sentirsi «improvvisamente vecchio, molto vecchio». Mentre oggi Berardi e Geraci si trovano piuttosto a dar voce a un mondo di «vecchi» persino disarmati dinanzi alla «mutazione» delle nuove generazioni.

Morte ai vecchi, oltre a essere una sorta di ‘distopia’, è infatti anche un piccolo condensato delle riflessioni che Berardi conduce da più di trent’anni sulle trasformazioni che le nuove tecnologie producono sulla nostra condizione. E per questo la vicenda – collocata in un futuro molto prossimo al nostro presente – raffigura innanzitutto la sostanziale incapacità di comunicare tra i «giovani» e i «vecchi». Un’incapacità di cui è consapevole soprattutto Isidoro Vitale, il protagonista principale, l’insegnante nato più o meno a metà del Novecento che, a causa del prolungamento della vita, non può andare in pensione benché abbia ormai superato la soglia dei settant’anni. E un’incapacità di cui Berardi e Geraci – in uno dei passaggi forse più riusciti dell’intero romanzo – chiariscono fin dalle prime pagine la gravità:

«L’intero corpo insegnante aveva capito benissimo che, al di là delle considerazioni di dettaglio, l’intera macchina era bloccata da un fondamentale difetto di comunicazione. Un difetto impossibile da correggere perché riguardava il formato di rice-trasmissione dei sistemi neurali. Torpidi cervelli aggrovigliati sui tempi lenti della trasmissione alfabetica non sono compatibili con apparati cognitivi iper-mobili, segmentati su configurazioni istantanee e vibratili. Quello dell’ultimo banco muove la testa da destra verso sinistra con sussulti velocissimi e non può soffermare lo sguardo sulla riga del libro per più di un secondo. Frazioni di attenzione si accendono nella brillantezza di uno sguardo, ma poi lo sguardo salpa verso altre direzioni, più in alto, più a sinistra, più in alto.

Isidoro Vitale insegnava da quarant’anni. “Se il mondo fosse giusto”, pensava, “sarei ormai in pensione da tempo”. Ma da quando si è stabilito che gli anziani non devono mai smettere di partecipare alla vita sociale e produttiva la pensione non esiste più.

 

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Grazie alle nuove terapie l’efficienza fisica è garantita a qualunque età, anche se la materia di cui è composto il cervello si trasforma in fanghiglia. Così Isidoro aveva dovuto arrendersi all’idea di continuare in eterno la sua commedia, svegliandosi ogni mattina per andare a parlare con dei tizi dei quali gli importava meno di niente. È faticoso e frustrante incontrare ogni giorno ragazzini ai quali non hai nulla da dire e in ogni caso non ti ascoltano: trasmissioni cerebrali sintonizzate su lunghezze d’onda incompatibili»[5].

Lo scontro fra «vecchi» e «giovani» non è d’altronde solo una metafora, perché in effetti la trama ruota – quasi come una storia gialla – attorno a episodi di «gerontomachia» che si diffondono in modo quasi epidemico in varie parti del mondo.

Naturalmente la violenza che spinge gruppi di giovanissimi a massacrare i vecchi, in una sorta di sabba sfrenato, ha una spiegazione di cui – per non togliere al lettore il gusto della scoperta – è giusto non svelare troppo. Ma al di là di questo, gli elementi che emergono con maggiore nitidezza attengono proprio alla raffigurazione dei due mondi contrapposti e incompatibili. I «vecchi» – che sono indiscutibilmente tratteggiati con maggiore convinzione – sono infatti nostalgici, depressi, ripiegati invariabilmente verso il loro passato. Lo è innanzitutto lo stesso Isidoro Vitale. Glielo rimprovera per esempio la vecchia amica Martina:

«Preferisci dirti che sei stanco, che non vuoi più futuro, che non vuoi più nulla, e invece una cosa la vorresti. Vorresti il passato, Isidoro mio, come me, come tutti quelli della nostra età, che ci siamo lasciati la vecchiaia alle spalle per approdare in questo limbo oltre la vecchiaia caduto fuori dal tempo dove niente ha più senso»[6].

E glielo ripete, certo con maggiore animosità, l’ex compagna Paula:

«Il tuo problema è che non sai far altro che pensare al passato. Chi si ostina a scavare nel passato va a finire che ci casca dentro e non può più venirne fuori neanche trascinandosi sui gomiti»[7].

Forse anche in virtù dell’incomunicabilità, il romanzo – che adotta in gran parte proprio la prospettiva dei «vecchi» – finisce col dare una rappresentazione piuttosto sbiadita dei «giovani», che in effetti rimangono piuttosto scialbi, se non addirittura evanescenti, quasi irriconoscibili l’uno dall’altro. Chiusi nelle loro stanze, costantemente connessi con compagni virtuali, incapaci di stabilire autentiche relazioni corporee con i propri simili, addirittura infastiditi dal loro corpo, ossessionati dall’urgenza di eliminare ogni traccia di deformità e formazioni pilifere dalla superficie cutanea, privi della facoltà di concentrarsi per più di qualche secondo su una singola attività, i ragazzini di Morte ai vecchi prendono improvvisamente vita quando si aggregano in un’orda che non ha nulla di umano, e che ricorda piuttosto uno sciame di api o uno stormo di uccelli, per dirigersi al massacro di qualche anziano malcapitato. Ed è in questo caso il giornalista Alex Turri – al quale spetterà peraltro il compito di scoprire il disegno che si nasconde dietro la «gerontomachia», oltre che forse il destino di intravedere nella tela tessuta da un misterioso ragno la grande metafora di un capitalismo voracemente proiettato verso la cattura dell’«anima» – a fissare la psicologia di questa sorta di sciame inumano:

«Quando il cervello è ridotto a una spugna da un ingorgo d’immagini senza né capo né coda, riesci a trovare un senso solo nella ripetizione compulsiva di stimoli iperveloci. Tutto è già accaduto nulla è più eccitante. Il futuro prende forma in uno stato nebbioso e tutto sarà vissuto senza stupore. Ecco allora le anime distaccate dal corpo volteggiare incoscienti e perfette nei movimenti, come se una coscienza superindividuale le guidasse da dentro. Non possono tollerare i corpi pelosi, marchiati dall’antivaiolo sul braccio come vacche al macello. Non possono tollerare la pesantezza. Hanno un particolare modo di essere nello spazio e nel tempo, hanno un loro ritmo, incomprensibile per noi esseri umani. E quel ritmo li prende con forza irresistibile e li porta ad altezze dalle quali è possibile vedere il dissolversi della materia, quella materia che un tempo si credeva eterna. Un ritmo che pervade il plasma galvanico dentro il quale nuotano, brodo d’informazioni che sollecita le loro antenne trascinandoli nell’inconsapevole danza…

È come il ricordo di un sogno che lascia tracce illeggibili, come qualcosa che so ma non riesco a pensare attraverso il linguaggio»[8].

 

Soggetti smarriti

Nel 1977, in un celebre articolo dedicato alla generazione dell’Anno Nove, Umberto Eco cercava di cogliere la portata delle innovazioni linguistiche e politiche rappresentate dalla bolognese Radio Alice, leggendo in particolare i materiali di Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakovskij: testi per una pratica di comunicazione sovversiva, un testo del Collettivo «A/traverso»[9]. Eco non resisteva alla tentazione di «vedere Radio Alice come l’ultimo capitolo della storia delle avanguardie, quello in cui si è trovato nuovi mezzi espressivi per realizzare ciò che non si trova più, in misura così ‘creativa’, nei libri di poesie o nei romanzi sperimentali»[10]. Ma Eco si spingeva anche oltre, sostenendo che – oltre a utilizzare «come proprio materiale di discorso la realtà dell’emarginazione giovanile, come Balestrini nei suoi romanzi usa i materiali magnotofonici prodotti dalla combattività operaia», e a «far parlare gli emarginati anche in prima persona, come autori dei discorsi trasmessi, o come protagonisti delle manifestazioni ludiche di piazza» – Radio Alice elaborava «una propria proposta ideologica per la nuova realtà della rivolta giovanile»[11]. «Non mi sento di dire» aggiungeva Eco, «se la ‘produca’ o la ‘rifletta’ di riporto: questa realtà è troppo complessa. Anzi, per non parlare impropriamente di movimento, autonomia, Sessantotto, parlerò di una generazione che nasce facendo piazza pulita di quel che era stato detto prima del Sessantotto (e durante): settantasette meno sessantotto fa nove, e quindi parliamo di generazione dell’Anno Nove»[12].

La lettura proposta da Eco era anche – in un periodo in cui l’emittente bolognese era accusata di avere organizzato e fomentato gli scontri di marzo – una significativa apertura di credito quantomeno a una parte del movimento (anche perché il semiologo non mancava di osservare: «dire che Radio Alice sia stata la causa di esplosioni di rabbia giovanile è come dire che il Festival di Sanremo è la causa della stupidità nazionale»[13]). Ma quell’apertura non doveva invece essere accolta positivamente da «A/traverso». «Non si può dire neppure che Radio Alice», si leggeva infatti poche settimane dopo sulle pagine del foglio bolognese, «sia mera registrazione di una voce che le è esterna, o mero riflesso di un processo che non la coinvolge». «Ad Eco» – aggiungeva «A/traverso» – «sfugge la realtà del soggetto come fondamento materiale del processo rivoluzionario e di tutte le pratiche che attraversano il processo: dalla pratica linguistica alla pratica di informazione, alla pratica teorica, alla pratica sessuale»[14]. In altri termini, Eco non cessava di collocare la sperimentazione di Radio Alice sul terreno ‘neutrale’ della «cultura», senza vedere che si trattava di un processo ‘politico’ di trasformazione materiale della realtà:

«Alice non produce la realtà, né ovviamente la complotta. Ma neppure Alice si limita a rifletterla. Alice è il prodotto di una realtà che è quella stessa che produce le scritte sul muro ed i centri giovanili, lo sciopero di reparto ed il processo di liberazione. E come ciascuna delle attività del soggetto di classe, non si limita ad essere determinata, ma a sua volta la determina. È per questo che al concetto di cultura preferisco quello materialistico di scrittura; perché indica ad un tempo la specificità di una pratica (che è segnata e che lascia segni) ma anche la capacità di attraversare materialmente tutto il territorio del comportamento del soggetto di classe. Ed il soggetto di classe non è né il sogno di una società nuova né il mero prodotto meccanico della storia della società vecchia. Esso è il processo di ricomposizione di tutte quelle figure sociali politiche, sessuali, culturali, che rifiutano il modo di produzione capitalistico, la trasformazione del tempo di vita in valore. Il soggetto di classe è dunque il soggetto della contraddizione, e si oppone a tutte quelle forze che vogliono riprodurre la realtà come è, senza trasformarla»[15].

L’articolata replica a Umberto Eco non era certo un intervento occasionale, ma nasceva da una riflessione approfondita sul ruolo della produzione letteraria, che Bifo aveva incominciato a svolgere già da diversi anni. Dopo la parentesi dei romanzi scritti con lo pseudonimo di Loris Aletti, e qualche anno dopo avere pubblicato presso le Edizioni della Libreria Feltrinelli Contro il lavoro[16], nel 1973 Franco Berardi scrisse infatti un denso contributo su Prassi e scrittura, ospitato in Cultura lavoro intellettuale e lotta di classe, un volume di giovani studiosi di letteratura che comprendeva anche Roberto Alonge, Paolo Bertetto e Roberto Tessari. Alla base della ricerca del gruppo stava la convinzione che la figura dell’intellettuale fosse ormai prossima alla scomparsa, e che soprattutto dovesse perdere le caratteristiche di autonomia e indipendenza di cui aveva potuto beneficiare fino a quel momento. La «proletarizzazione delle mansioni intellettuali» e «la sussunzione del lavoro di progettazione, del lavoro tecnico, all’interno del processo di valorizzazione», rendeva però la partecipazione al conflitto di classe da parte di tecnici, degli intellettuali e degli studenti molto più che un «fatto di pura e semplice scelta soggettiva, di adesione culturale e coscienziale»[17]. Con un’operazione che si richiamava esplicitamente all’operaismo degli anni Sessanta, alla «rivoluzione copernicana» di Mario Tronti, ma soprattutto agli scritti di Alberto Asor Rosa apparsi sui «Quaderni rossi» e su «classe operaia» (e alla base della critica svolta in Scrittori e popolo»), il gruppo di giovani ricercatori intendeva sviluppare l’idea del «punto di vista operaio» su un piano che andasse oltre la semplice critica del lavoro letterario. All’indomani del ciclo di mobilitazioni operaie e studentesche della fine degli anni Sessanta, «la assunzione del punto di vista operaio», scrivevano, «non è più un fatto interno ad uno svolgimento ideale», perché «la lotta di classe […] diventa anzi il soggetto della conoscenza, il punto di vista a partire da cui è possibile conoscere, proprio perché chi conosce (chi produce significati) è all’interno del processo della lotta, anzitutto per la sua collocazione oggettiva, poi per la sua scelta militante»[18]. In questo quadro, la domanda specifica che Berardi si poneva riguardava la possibilità stessa – tutt’altro che scontata – che la produzione di testi letterari potesse adeguarsi «alle modificazioni intervenute nel rapporto fra le classi comprendendo il punto di vista del soggetto pratico che modifica il mondo e quindi adeguando il soggetto stesso della produzione di testi ad esprimere il punto di vista del soggetto rivoluzionario»[19]. Assumere il punto di vista del soggetto conflittuale, scriveva cioè Berardi, equivaleva a «costituire il testo come espressione di una distruzione e non di una produzione, di una modificazione e non di una riproduzione, di una appropriazione e non di una ripetizione»[20]. E, soprattutto, in termini molto differenti da ciò che aveva proposto lo sperimentalismo degli anni Sessanta (e in particolare Tel Quel), equivaleva a sviluppare la tensione interna alla struttura formale del testo, «introdotta dalla contraddizione fra linguaggio codificato e pensiero», fino al punto della «rottura e violazione del linguaggio, della norma linguistica»:

«Il mondo irrompe allora nel testo, e riproduce un disordine entro l’ordine formale (che aveva permesso al linguaggio di funzionare come una macchina). Il pensiero riprende il suo movimento, in questa sua infrazione della struttura data, nella rottura dei modelli comunicativi, restituendo alla produttività testuale (storica, determinata, sostanziale) una priorità sulle condizioni di scambio del linguaggio (condizioni che sono la fissazione ipostatica di un movimento precedente, di una storia e di un pensiero, di una produttività precedenti). E questa irruzione nel mondo della norma linguistica è la rottura entro la quale – per l’attività determinata e soggettiva della scrittura sostanziale, e non formale – si costituisce lo spazio della poesia, ricerca di una struttura linguistica sostanziale che esprima il movimento, contro il linguaggio»[21].

Se Prassi e scrittura delineava un programma di lavoro, più che tesi già nettamente definite, un anno dopo quello stesso programma trovava uno svolgimento ulteriore in Scrittura e movimento, un testo nel quale Berardi tornava a ribadire – se possibile, con ancora maggior convinzione – l’ambizione che «la pratica politica della classe rivoluzionaria» diventasse «il soggetto stesso della pratica significante, teorica, letteraria, poetica e artistica»[22]. E in questo caso, se non mancava una critica anche verso il Gruppo 63, Berardi trovava però un esempio notevole della nuova scrittura in Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, un testo che – scriveva – «nasce dentro un momento della lotta di classe, e non come battaglia letteraria, come proposta di riforma dell’istituzione letteraria»[23]. Anche se il libro di Balestrini presentava forse dei limiti, agli occhi di Berardi esso rappresentava infatti la concreta esemplificazione di un mutamento nella struttura stessa del linguaggio e dunque nella scrittura:

«È la struttura stessa che deve essere mutata; questo è il punto. Appropriazione operaia della pratica di costruzione del testo vuol dire anzitutto distruzione della struttura data del linguaggio, che, dentro la sua eternità, vorrebbe rappresentare l’eternità dei rapporti che esprime. E vuol dire costruzione di un linguaggio che esprima il carattere collettivo del pensiero comunista, e il movimento continuo del rapporto parola/senso di una condizione in cui i rapporti di classe, i rapporti fra gli uomini, e fra gli uomini e le cose sono in continuo movimento, ed è quindi impossibile fissare il senso delle parole, in quanto non può essere fissato (senza mistificazione) il senso delle cose»[24].

Ancora di recente Berardi ha definito Vogliamo tutto come «l’opera certamente più importante della letteratura italiana degli anni Settanta», oltre che un formidabile «congegno poetico in cui ciò che conta non è il contenuto discorsivo ma l’emozione ritmica che promana dal flusso: ondate, ritorni, mulinelli, interruzioni, sobbalzi»[25]. Proprio seguendo la traccia indicata da Balestrini lo stesso Bifo pubblicò nel 1977 Chi ha ucciso Majakovskij, un testo ‘combinatorio’ che – come recitava il sottotitolo – si proponeva come un «romanzo rivoluzionario», diretto a restituire la dimensione esistenziale di quel «proletariato intellettuale» che sarebbe stato protagonista del movimento del Settantasette[26]. Fino all’uscita di Morte ai vecchi, le pagine di Chi ha ucciso Majakovskij sono rimaste per quasi quarant’anni – con l’eccezione dei romanzi erotici di Loris Aletti – le uniche significative incursioni di Berardi nel perimetro della narrativa. Per la verità quel «romanzo rivoluzionario» – che immaginava che Majakovskij fosse sopravvissuto al proprio suicidio, e che si spostava, combinando piani temporali diversi e alternando i punti di vista, nell’Italia degli anni Settanta e dei suoi conflitti – era però soprattutto il tentativo di dare una veste narrativa a quelle stesse convinzioni che Berardi aveva esposto in forma saggistica in Prassi e scrittura e in Scrittura e movimento. E dunque era il tentativo di esplicitare con ancora maggior forza quel legame che stringeva l’esperienza (sconfitta) dell’avanguardia sovietica alla «pratica della felicità» di quel soggetto giovanile che, in fondo, emergeva come autentico protagonista da Chi ha ucciso Majakovskij:

Il comportamento di migliaia e migliaia di giovani, che nel loro modo stesso di vita sono fuori dell’establishment, non indica, come vuole l’ideologia giovanilistica, un new way of life, la costruzione di scritture alternative pacificamente accampate alla società capitalista del lavoro e del non lavoro, della miseria e della fatica. È invece il comportamento spontaneo di un settore di proletariato che, vivendo collettivamente, costituendo strutture di difesa della propria autonomia, costruisce il terreno dell’appropriazione comunista del tempo e delle cose. La pratica della felicità è sovversiva. E la sua rappresentazione è istigazione a commettere reato, a sovvertire l’ordine di cose presente[27].

Forse a scrivere il Vogliamo tutto del Settantasette non fu Bifo, ma – qualche anno dopo – Enrico Palandri con il suo Boccalone[28], un testo in cui confluivano evidentemente i frutti di quell’«avanguardia di massa», come la definì Maurizio Calvesi[29], che aveva partorito «A/traverso», Radio Alice o un libro come Bologna marzo 1977… fatti nostri…[30]. In effetti lo stile di Palandri – irrispettoso verso qualsiasi punteggiatura e verso le regole della grammatica – intendeva riflettere proprio la destrutturazione dell’esperienza giovanile (nonostante rileggendo le sue pagine si possano forse rinvenire anche le prime tracce del «riflusso» e di quel ritorno al privato che, proprio dopo il 1977, iniziò a dissolvere alla base i presupposti della mobilitazione)[31]. Il lavoro di sperimentazione linguistica di Bifo si tradusse invece soprattutto nel «maodadaismo» di «A/traverso» e nei giochi linguistici – a metà tra la goliardia e l’eredità delle avanguardie novecentesche – di Radio Alice. Perché quelle sperimentazioni non si proponevano semplicemente di aggiornare e rivisitare, nel «laboratorio italiano» degli anni Settanta, il linguaggio delle avanguardie. Più radicalmente, ambivano a portare il «funzionamento trasversale della scrittura» all’interno di quella dinamica di «liberazione produttiva del lavoro» che veniva allora interpretata come la cifra del movimento esploso nel Settantasette. Così, se Balestrini aveva «portato la ristrutturazione nella poesia», Berardi, superando persino il maodadaismo di «A/traverso» e Radio Alice, riteneva che fosse indispensabile «portare la poesia nella ristrutturazione nella forma del sabotaggio», ossia che fosse necessario rompere «la funzione di controllo del linguaggio» e liberare, «nella forma della produzione senza lavoro», «la funzione produttiva del linguaggio come forma di intelligenza accumulata, come lavoro di codificazione accumulato»[32].

Quarant’anni dopo, in Morte ai vecchi, di quelle lontane elaborazioni – che intendevano la poesia come «paradigma di congegni linguistici capaci di creare un sistema di produzione senza lavoro», «come simulazione di sistemi produttivi possibili in cui la produzione del lavoro ad astrazione venga colta a livello del linguaggio», e in cui il linguaggio doveva funzionare «come luogo di sperimentazione di procedure produttive liberatorie»[33] – si possono trovare solo pallide reminiscenze. E forse non solo perché Morte ai vecchi probabilmente non si propone né come un manifesto politico-letterario, né come un esercizio di sperimentazione, bensì come un prodotto destinato prevalentemente all’intrattenimento. La motivazione è molto più semplice e risiede nel fatto che non esistono più, neppure lontanamente, quelle condizioni che, negli anni Settanta, avevano reso possibile pensare – se non sempre praticare concretamente – una scrittura che incarnasse direttamente il punto di vista del soggetto conflittuale, e che dunque – come scriveva allora Berardi – andasse a «costituire il testo come espressione di una distruzione e non di una produzione, di una modificazione e non di una riproduzione, di una appropriazione e non di una ripetizione». La scrittura non può che tornare a essere un esercizio stilistico più o meno efficace, ma comunque individuale, o al massimo frutto – come è nel caso di Morte ai vecchi – della collaborazione fra due intellettuali che si avventurano sul terreno della narrativa.

Morte ai vecchi si propone più che altro di dare una forma narrativa a quelle intuizioni sulle trasformazioni nella condizione contemporanea che Bifo ha avuto modo di esporre in molti suoi scritti recenti. E se certo Geraci – «esperto di cultura psichedelica e pop surrealism», come recita la quarta di copertina – deve aver contribuito in modo sostanziale alla scrittura del romanzo, non è però difficile riconoscere nelle pagine di Morte ai vecchi una matrice saggistica profondamente debitrice proprio del lavoro condotto da Berardi addirittura a partire dagli anni Ottanta[34]. In effetti, già nel Paradosso della libertà, un saggio apparso nel 1990, Berardi coglieva – con indiscutibile lungimiranza – le implicazioni che la diffusione delle nuove tecnologie avrebbe comportato, e si spingeva a preconizzare quali sarebbero state le conseguenze più radicali sulla condizione individuale, oltre che sul rapporto tra «giovani» e «vecchi»:

«Quando ogni gesto ed evento è registrato nella banca-dati del sistema telecomunicativo universale, sembra allora che il Vecchio non abbia più niente da dire al bambino, che ha visto tutto fin dal momento in cui, uscito dal ventre della natura, ha aperto gli occhi davanti allo schermo acceso. La libertà non sembra più appartenere alle possibilità dell’esperienza umana. Nell’universo delle simulazioni onnipervasive la verità non sembra più appartenere al campo delle possibilità conoscitive. La percezione del vissuto temporale – passato e futuro, memoria ed immaginazione – non sembra più appartenere all’esperienza concreta dell’individuo e del collettivo, ma alla semplice combinatoria senza profondità diacronica degli eventi-immagine predeterminabili. Naturalmente questa mutazione produce una crisi di rigetto nel cervello sociale; questa crisi si manifesta nella forma di epidemie di depressione, di panico, di angoscia[35].

Quelle intuizioni – formulate, è quasi superfluo ricordarlo, quando ancora i social network erano molto lontani dall’essere inventati, quando non era ancora comparsa la prima pagina web e quando internet era uno spazio abitato solo da sparuti iniziati – sono state in seguito riprese in testi come Mutazione e cyberpunk, Neuromagma, Exit, La fabbrica dell’infelicità, L’anima al lavoro e il più recente Heroes[36]: testi in cui è possibile anche ritrovare, con l’andare degli anni, un pessimismo sempre più cupo (che non ha peraltro impedito a Berardi di guardare sempre con grande simpatia e sostegno non episodico a qualsiasi movimento o evento politico che sembrasse scalfire la logica del «semiocapitalismo»). In questi testi Bifo ha precisato ulteriormente le proprie tesi e si è soffermato in particolare sulle implicazioni di un modello capitalistico che si regge soprattutto sulla «frattalizzazione» e sulla «cellularizzazione» del tempo di lavoro, ma anche sulla «iper-sessualizzazione» e sulla contemporanea «de-sensibilizzazione» delle nuove generazioni.

In Dopo il futuro, coglieva la testimonianza più evidente e drammatica di questa nuova condizione negli hikikomori giapponesi, quegli adolescenti che decidono di vivere per lunghi periodi di tempo in una situazione di permanente reclusione nello spazio della loro stanza, pur restando costantemente connessi col resto del mondo. E sempre in Giappone intravedeva un legame tra l’epidemia di suicidi giovanili che si registrò nel 1977 e il massacro di un gruppo di anziani e barboni, avvenuto nel 1983 a opera degli studenti di una scuola media di Yokohama[37]. Simili eventi – che si possono agevolmente riconoscere come fonti della costruzione letteraria di Morte ai vecchi – agli occhi di Berardi non sono fenomeni eccezionali, ma solo le manifestazioni più drammatiche di una condizione comune, destinata a produrre angoscia, ansia, depressione a livello di massa, oltre che a generare la diffusione epidemica di quei suicidi-omicidi di massa analizzati in modo piuttosto approfondito in Heroes. «Il semiocapitalismo», scrive Berardi in quest’ultimo libro, «si fonda sullo sfruttamento delle energie mentali: l’attenzione è sotto assedio, sia nello spazio della produzione che in quello del consumo», e questa iper-stimolazione dell’attenzione «implica un investimento costante di energia nervosa, […] molto più difficile da gestire e molto più imprevedibile di quanto lo fosse la forza muscolare che era al lavoro nella catena di montaggio industriale»[38]. In questo quadro, «il tempo di lavoro è frattalizzato, ridotto a frammenti minimi che possono essere riassemblati, e la frattalizzazione rende possibile per il capitale trovare continuamente le condizioni per il ridurre al minimo il salario»[39]. «L’organismo conscio e sensibile» viene dunque «sottoposto a una pressione competitiva crescente, a un’accelerazione degli stimoli, a uno stress costante dell’attenzione», e così «l’infosfera in cui la mente si forma ed entra in relazione con altre menti, diviene un’atmosfera psicopatogena»[40].

Benché i casi che offrono sostegno alla tesi di Heroes siano piuttosto recenti, lo schema generale di questa lettura era già stato anticipato da Berardi molti anni prima. Quando, per esempio, in Mutazione e cyberpunk aveva esposto la tesi secondo cui «le trasformazioni che investono l’ambiente tecnocomunicativo, e che si trasferiscono sul mondo dei segni e degli oggetti che circondano l’organismo umano, alterando la sua percezione, i tempi e le modalità delle sue reazioni, finiscono per produrre un mutamento delle stesse modalità di elaborazione che la mente compie su questi materiali»[41]. E soprattutto quando aveva considerato panico, depressione e angoscia come risposte differenti alla trasformazione dell’universo comunicativo a opera delle nuove tecnologie[42]. Ma le plastiche raffigurazione di panico, depressione e angoscia che popolano le pagine di Morte ai vecchi non sono le uniche tracce della riflessione sulla mutazione che si possono trovare nel romanzo. Perché Berardi e Geraci affidano al personaggio del preside Forza – una figurina vagamente farneticante e certo tutt’altro che pienamente positiva – il compito di esplicitare una vera e propria teoria della mutazione in corso. È infatti proprio il professor Forza che chiarisce quali sono le radici più profonde dell’epidemia di «gerontomachia», e poco importa che la spiegazione non si riveli alla fine pienamente fondata:

«Un’antropologa disse più di vent’anni fa che stiamo allevando una generazione di esseri umani le cui prime impressioni provengono da una macchina e non dalla madre. È la prima volta che questo succede nella storia della razza umana, e non possiamo pensare che ciò non sia destinato ad avere conseguenze catastrofiche sull’evoluzione della mente»[43].

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Dinanzi alla radicalità di questa trasformazione, il preside Forza – che peraltro si rivela, come un po’ come tutti i protagonisti (vecchi e giovani) del romanzo, dipendente da antidepressivi e altre sostanze – si fa allora portatore di un programma, certo velleitario, di resistenza umanistica. Un programma che torna proprio ai valori dell’«Umanesimo», e in particolare alla definizione di «uomo» – come Forza declama nel romanzo – che diede Pico della Mirandola sul finire del Quattrocento:

«Nell’orazione sulla dignità dell’uomo scritta nel 1492 Pico della Mirandola ha detto che il Signore Iddio, quando creò Adamo, si accorse che era rimasto a corto di archetipi. Capisce? Non aveva più essenze ontologiche a disposizione, non poteva più definire essenzialisticamente le creature che aveva di fronte. Un problema? Nema problema. Per Dio nessun problema è un problema. E infatti come risolse la faccenda? Semplice. Adamo non era definito da nessuna essenza, da nessun archetipo, da nessuna fottutissima definizione. Non era, esisteva e basta, perciò poteva definire se stesso liberamente. Questo era l’uomo per Pico, un esistente libero privo di finalità intrinseche, autore incontrastato della sua propria avventura. Questo è l’uomo di Pico. […] Ma Dio forse è tornato a rimediare alle cose. La libertà degli umani forse non gli va più a genio. Ha deciso di completare l’opera lasciata a metà con Adamo. L’uomo deve essere definito, compiuto, concluso. […] Dio ha deciso che di concludere il lavoro bloccando percorsi sinapsici che aveva lasciato indefiniti, malleabili, introducendo automatismo deterministici laddove prima era soltanto libero arbitrio. E questo aggiustamento non si verifica per via archetipico-ideale ma per via neuro-telematica»[44].

Come riesce facilmente a cogliere il lettore che abbia seguito la riflessione di Berardi, la lettura che il preside Forza propone coincide fedelmente con quella che visione della «mutazione» che Bifo è andato esponendo nei suoi libri nel corso dell’ultimo trentennio (e forse non è allora fortuito che i due autori affidino il compito di sorvegliare Forza al commissario Berardi, «un uomo giovane ed energico», con un «grande rispetto per l’autorità»[45]). Negli anni Novanta, in Exit, Berardi infatti citava Rose Goldsen, ossia proprio l’antropologa evocata da Forza, che nel 1975, in The Show and Tell Machine, riferendosi alla televisione, scrisse che «stiamo allevando esseri umani le cui prime impressioni provengono da una macchina»[46]. E in Heroes – nel momento in cui deve chiarire in quali termini venga minacciata oggi la libertà umana – Bifo torna proprio al Discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola, secondo il quale, mentre «l’universo è costruito secondo regole precise», «l’uomo non è costruito secondo alcuna regola intrinseca»[47]. D’altronde, nelle parole del professor Forza si trova proprio la tesi di fondo – certo sintetizzata e semplificata per esigenze narrative – che Berardi ha avuto modo di illustrare nei suoi testi degli ultimi vent’anni. Perché secondo la teoria del professor Forza la «mutazione», che recide ogni possibilità di comunicazione intergenerazionale, è la causa scatenante che spinge le orde di ragazzini alla violenza della «gerontomachia»:

«Il sistema interconnesso di teletrasmissione digitale sta penetrando nel corredo biologico della presente generazione. È in corso un processo di cablazione generalizzata delle menti giovani. […] Il problema è che non siamo più in grado di decodificare i segnali. E per loro problema è lo stesso. Non sono più in grado di leggere i segni che per noi sono trasparenti. Vedono attraverso una griglia cognitiva differente. La loro griglia ha caratteri deterministici: il segnale è uno stimolo che eccita percorsi neurali deterministici: il segnale è uno stimolo che eccita percorsi neurali prestabiliti e prevede risposte precablate»[48].

Il silenzio dello sciame

Probabilmente non è solo l’assenza di un soggetto collettivo paragonabile a quello che alimentò l’«avanguardia di massa» di Radio Alice a rendere oggi Morte ai vecchi un romanzo ‘impolitico’. Forse Morte ai vecchi è infatti un romanzo ‘impolitico’ – ossia un romanzo nel quale il futuro non può che essere altro che distruzione dell’esperienza, e nel quale ogni possibilità di «ricomposizione» dei frammenti individuali in un progetto collettivo sembra programmaticamente esclusa – anche per le stesse premesse teoriche da cui la riflessione di Bifo e la sua stessa sperimentazione letteraria degli anni Settanta procedevano.

Negli ultimi anni, Berardi ha avuto modo quasi in ogni suo scritto di chiarire la propria totale sfiducia nei confronti della «politica» e delle sue possibilità di gestire la complessità della trasformazione contemporanea. Una simile diffidenza – quantomeno giustificata – non scaturisce solo dalla convinzione che sia impossibile ormai pensare a una sfera di decisione autonoma capace di operare in modo ‘demiurgico’ sulla società, ma anche da una matrice più radicale, che investe la dimensione ‘ideologica’ della politica, ossia la sfera delle identità cristallizzate, che finiscono col limitare la libertà del singolo e con l’indirizzare il suo comportamento. La critica di Bifo si indirizza infatti non solo alla «politica» intesa come «governo» e come «Stato», ma anche alla «politica» che scaturisce da identità collettive e da appartenenze di gruppo, perché ogni identità ai suoi occhi finisce col tramutarsi in ossessione paranoica e col rappresentare un ostacolo alla liberazione soggettiva. «L’identità», scriveva per esempio vent’anni fa, «nasce dal bisogno di affermare la verità in nome di un’appartenenza, e costituisce un surrogato di sicurezza», perché, dato che «non possiamo trarre sicurezza dalla realtà», allora «speriamo di trovare sicurezza nell’identità, nella continuità fanatica delle nostre proiezioni, nell’ossessione di una corrispondenza tra queste proiezioni e la realtà»[49]. L’identità è cioè sempre una «trappola», che impedisce le relazioni con l’altro, che alimenta la contrapposizione ed eleva barriere ‘fittizie’ fra gli individui. Nella «mutazione», dinanzi alla «frammentazione» e alla «frattalizzazione» dell’esperienza, l’identità (o meglio il suo smarrimento) finisce col generare risposte aggressive, dirette a una ‘riterritorializzazione’ violenta. «La perdita d’identità produce una reazione di paura, d’insicurezza psichica», scriveva per esempio negli anni Novanta, «e può mettere in moto processi di ricerca disperata di un’identità nell’unico modo che resta possibile: attraverso l’aggressione nei confronti dei diversi, attraverso una riaffermazione artificiosa ma violenta di un rapporto con l’origine, con la radice, con il mito di superiorità che l’omologazione capitalistica ha inesorabilmente cancellato»[50]. Ma l’identità è soprattutto una «menzogna», perché si tratta di «una mappa che pretende di guidare lungo il percorso, ma mente», e cioè di «un meccanismo in base al quale noi pretendiamo di ‘riconoscere’, di conoscere già, di possedere per appartenenza il sistema di valori, il sistema delle ritualità adatte per tenere il mondo sotto controllo»[51].

Una simile critica dell’identità era legata a doppio filo con la «critica della politica» svolta da Bifo negli anni Settanta, una critica che coincideva all’interno di quella discussione, con una critica alle forme di appartenenza identitarie – ascrivibili ai «gruppetti» della sinistra extra-parlamentare, oltre che ovviamente al Pci – che ostacolavano le trasformazioni della «vita quotidiana», e che in particolare tendevano a perpetuare la ‘rimozione’ dei bisogni. La politica, in altre parole, non poteva che essere – a qualsiasi livello – una dimensione all’interno della quale la soggettività, per sua natura irrappresentabile, risultava ‘rimossa’, negata nella sua realtà. «La storia della politica», si leggeva infatti in Finalmente il cielo è caduto sulla terra, «è storia di una rimozione e di una sostituzione», perché «sul terreno istituzionale della politica, l’unità diviene possibile a partire dalla rimozione dell’autonomia e dalla rimozione del soggetto stesso, come soggetto storico di bisogni, desideri, di comportamenti», e perché «l’organizzazione si installa nello spazio di questa rimozione del soggetto, come strutturazione di un soggetto ipostatico e volontaristico»[52]. Qualsiasi forma di azione ‘politica’ doveva necessariamente riprodurre questo meccanismo, perché l’«unità» espressa dall’azione politica non si definiva sulla base del bisogno, ma al contrario ne rimuoveva «la materialità», e cioè eliminava dal campo la stessa «esistenza di un soggetto in liberazione, in movimento e quindi in contraddizione»[53]. Questa critica della politica era evidentemente connessa alla stessa idea della scrittura elaborata da «A/traverso» come strumento di sovversione linguistica. Ma, proprio nella misura in cui la scrittura si configurava come strumento di sovversione della «funzione di controllo del linguaggio», essa poteva registrare un processo di ‘scomposizione’, di frammentazione, di «proliferazione», ma non certo contribuire a definire un’identità collettiva, a elaborare una memoria comune, a plasmare simboli condivisi.

Ed è in fondo anche per questo rifiuto programmatico di ritrovare nella produzione linguistica – oltre che uno strumento di sovversione del codice – uno strumento di costruzione di un’identità collettiva, che oggi Morte ai vecchi appare come un romanzo ‘impolitico’. E in questo Berardi si rivela davvero coerente nel proprio percorso, nettamente diverso – nonostante alcune apparenti analogie – da quello imboccato dal post-operaismo che si richiama a Negri: un post-operaismo che tende invariabilmente ad affidare la costruzione del soggetto conflittuale, della «moltitudine», del «comune», allo sviluppo di una cooperazione produttiva destinata a entrare in conflitto con la logica dello scambio su cui si regge il modo di produzione capitalistico[54]. A differenza di Negri e di molti altri esponenti del post-operaismo, Berardi non affida infatti la costruzione del soggetto conflittuale alla cooperazione capitalista, ma – al tempo stesso – non considera praticabile neppure la strada che conduce verso una costruzione ‘culturale’ e ‘politica’ delle soggettività collettive. Perciò si tiene ben distante da qualsiasi valorizzazione dell’«autonomia del politico», e in particolare da qualsiasi ipotesi che torni a riconoscere una significativa autonomia ‘politica’ a elementi ‘culturali’, ‘ideologici’, ‘identitari’. Si tiene cioè ben distante da un’opzione come quella che Yves Citton ha definito «controscenarizzazione», ossia da un’opzione che – per citare l’autore di Mythocratie – punta alla costruzione ‘politica’ non tanto di «un sistema di idee, coerente e totalizzante, fermamente ancorato al rigore del concetto e capace di rassicurare gli animi inquieti con la presenta di avere una risposta per tutto (un’ideologia)», quanto di «un bricolage eteroclito di immagini frammentarie, di metafore dubbiose, di interpretazioni discutibili, di intuizioni vaghe, di sentimenti oscuri, di folli speranze, di racconti senza cornice e di miti interrotti che prendano insieme la consistenza di un immaginario, tenuto insieme, ancor prima che da una coerenza logica, dal gioco di risonanze comuni che attraversano la loro eterogeneità per affermare la loro fragilità singolare»[55]. In altre parole, nonostante Berardi abbia sempre concepito la propria azione ‘politica’ come un’azione volta a modificare l’«immaginario», e non certo a ‘prendere il potere’, non può seguire un sentiero come quello indicato da Citton, proprio a causa della radicale diffidenza verso ogni discorso identitario e, dunque, verso ogni racconto che, costruendo una «memoria» e dei «miti», venga a fissare un’identità collettiva più o meno consolidata e duratura. E proprio per questo Berardi – nonostante un’apparente vicinanza – non può che rifiutare programmaticamente una linea che, sul piano narrativo, è esemplificata dal sentiero battuto dal gruppo Wu Ming, il quale, seppur certo con alterne fortune letterarie, ha inteso fin dai suoi primi passi la «narrazione» (o la «contronarrazione») proprio come un terreno in cui si gioca la costruzione di una memoria di parte, come uno strumento ‘politico’ grazie al quale è possibile contribuire a plasmare le identità collettive. Se per Wu Ming «le storie sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo»[56], per Berardi questa opzione non può che ricondurre infatti le soggettività dentro la «trappola identitaria», e dunque ostacolare quei processi di liberazione che pure la ‘soggettivazione’ promette di conseguire.

Ma proprio per il duplice sospetto nei confronti della soluzione ‘prometeica’ adottata da buona parte del post-operaismo italiano e della soluzione ‘mitocratica’ praticata da Wu Ming, Bifo – senza dubbio fedele a quella linea che ha seguito fin dagli anni Settanta, e che vede in qualsiasi identità (e in qualsiasi «memoria») un ostacolo allo sviluppo del flusso desiderante – non può che limitarsi a registrare, sul piano teorico nei suoi saggi, e sul piano narrativo in Morte ai vecchi, il desolante panorama della frammentazione, della solitudine, della disgregazione sociale, della frattalizzazione del tempo.

A ben guardare, d’altronde, nel romanzo di Berardi e Geraci i veri protagonisti non sono il malinconico Isidoro Vitali, il farneticante preside Forza o l’enigmatica Federica. Il vero protagonista è proprio lo sciame muto di giovanissimi che, danzando in modo caotico, stermina le anziane vittime. Perché è proprio quello sciame – in cui «le anime distaccate dal corpo» volteggiano «incoscienti e perfette nei loro movimenti, come se una coscienza superindividuale le guidasse da dentro» – a rendere plasticamente il destino di panico e depressione sancito dalla mutazione. Lo sciame ronzante ma incapace di parola dei ragazzini di Morte ai vecchi – irrimediabilmente distante dallo «sciame di intelletti» celebrato da Hardt e Negri nelle pagine di Moltitudine[57] – sembra diventare infatti davvero la cifra della transizione contemporanea. Una transizione in cui, come ha scritto Byung-Chul Han, le masse «si frantumano […] in sciami di singoli chiassosi, ossia negli isolati hikikomori digitali, che non costruiscono più uno spazio pubblico e non partecipano ad alcun discorso», e nella quale ovviamente «il Noi politico, che sarebbe capace di un’azione in senso enfatico, si disgrega»[58]. Perché, a dispetto della frequenza degli incontri virtuali e reali, l’esperienza dello sciame non può produrre esperienza, né azione comune:

«Da questi incontri involontari, improvvisati, non emergeva, come a volte accade in una folla, una coscienza unica, sintesi di coscienze individuali, in grado di muovere un corpo collettivo per il raggiungimento di obiettivi comuni. Era piuttosto un brodo primordiale attraversato da scariche d’eccitazione, orientato da opposte tempeste magnetiche. Ne schizzavano atomi e molecole e subito si agglomeravano in formazioni superiori e distinte: vive. Occhi spalancati sospinti dal turbinio del loro apparato ciliare»[59].

Proprio per questo la sessualità onnipresente e al tempo stesso ‘desensibilizzata’, che Morte ai vecchi fotografa, risulta così cupa, e così abissalmente lontana dai giochi goliardici che ordiva Loris Aletti. Ed è per questo che – dominato da uno sciame onnipresente, silenzioso, afasico e intrappolato nell’alveare digitale – il futuro finisce con l’assomigliare a una terrificante fabbrica di disperazione, a uno scenario senza alcuna possibilità redenzione, dal quale è espunta fin dall’inizio – insieme alla politica – qualsiasi ipotesi di resistenza e di trasformazione. Non possono allora non suonare come un sinistro, terribile presagio le parole con cui una delle protagoniste di Morte ai vecchi ci annuncia entusiasta la possibilità di un’eterna giovinezza postumana. E con cui ci promette – forse persino con velo di cinismo – che «il futuro non finisce mai».

 

Note

[1] Anche se non è escluso che Aletti abbia pubblicato racconti anche altrove, i suoi principali romanzi furono ospitati proprio nella collana «I libri della notte» dell’editrice milanese Kermesse, tra il 1970 e il 1973: L. Aletti, La crociera delle ninfette (n. 17, 1971), Id., In fondo al vortice (n. 18, 1971), Id., Prendimi con dolcezza (n. 30, 1972), Id., Viaggio intorno al sesso (n. 35, 1972), Id., Dalla Spagna con ardore (n. 40, 1973).

[2] L. Aletti, Orgia nell’aula magna, Kermesse, Milano, 1970, p. 6 («Libri della notte», n. 14).

[3] Ibi, p. 9.

[4] Ibi, 105.

[5] F. Berardi «Bifo» – M. Geraci, Morte ai vecchi, Baldini & Castoldi, Milano, 2016, pp. 17-18.

[6] Ibi, p. 35.

[7] Ibi, p. 245.

[8] Ibi, p. 65.

[9] L. Capelli – S. Saviotti (a cura di), Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakovskij: testi per una pratica di comunicazione sovversiva, L’Erbavoglio, Milano, 1976.

[10] U. Eco, Anno nove, in Id., Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano, 1983, p. 60.

[11] Ibi, p. 60.

[12] Ibi, pp. 60-61.

[13] Ibi, p. 59.

[14] Alice: simpatia o ipocrisia, in «A/traverso», aprile 1977, ora in F. Berardi, Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre corte, Verona, 1997, p. 89.

[15] Ibi, pp. 89-90.

[16] F. Berardi, Contro il lavoro. Lo sviluppo al capitale il potere agli operai, Edizioni della Libreria, Milano, 1970.

[17] Prima pagina, in R. Alonge – F. Berardi – P. Bertetto – R. Tessari, Cultura lavoro intellettuale lotta di classe, Guida, Napoli, 1973, p. 5.

[18] Ibi, pp. 5-6.

[19] F. Berardi, Prassi e scrittura, in R. Alonge – F. Berardi – P. Bertetto – R. Tessari, Cultura lavoro intellettuale lotta di classe, cit., pp. 135-136.

[20] Ibi, pp. 140-141.

[21] Ibi, p. 182.

[22] F. Berardi, Scrittura e movimento, Marsilio, Venezia-Padova, 1974, p. 29.

[23] Ibi, p. 31.

[24] Ibi, p. 34.

[25] F. Berardi, La nefasta utopia di Potere operaio. Lavoro tecnica movimento nel laboratorio politico del Sessantotto italiano, Castelvecchi, Roma, 1998, pp. 160-161. Ma cfr. anche la Prefazione di Bifo alla nuova edizione di Vogliamo tutto, nella quale scrive: «Il lavoro di Balestrini è tutto concentrato sul ritmo. Le parole non sono che blocchi di materiale elementare da prelevare direttamente dalla realtà. È qui la caratteristica assolutamente originale di questo scrittore, nel suo operare attraverso prelevamenti di materiale verbale pre-esistente alla scrittura. In questo senso si potrebbe dire che Balestrini è il primo poeta che non ha mai scritto una parola sua, perché le parole per lui sono materiale da ricombinare. Il gesto del poeta consiste nel prelevare parole dallo smisurato territorio verbale circostante, nel predisporne il funzionamento, il ritmo e dunque la potenza emotiva» (F. Berardi, Prefazione a N. Balestrini, Vogliamo tutto, DeriveApprodi, Roma, 2004, pp. 6-7).

[26] F. Berardi, Chi ha ucciso Majakovskij. Romanzo rivoluzionario, Squilibri, Milano, 1977.

[27] Ibi, pp. 88-89.

[28] E. Palandri, Boccalone. Storia vera piena di bugie, L’Erbavoglio, Milano, 1979.

[29] M. Calvesi, Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano, 1978.

[30] Bologna marzo 1977… fatti nostri…, Bertani, Verona, 1978.

[31] Cfr. D. Palano, Il tempo sospeso di Boccalone. Rileggere il primo romanzo di Enrico Palandri trentadue anni dopo, in «maelstrom», 20 agosto 2011.

[32] F. Berardi, La barca dell’amore s’è spezzata, SugarCo, Milano, 1978, pp. 174-175.

[33] Ibi, p. 175.

[34] Per una ricostruzione più completa del percorso di Berardi, rimando a D. Palano, La fabbrica della disperazione. Franco Berardi e il disagio dell’«ipermodernità», in «Tysm», vol. 23, n. 33, 2016.

[35] F. Berardi, Il paradosso della libertà, in Id., Uno sguardo dall’esterno – Perdere – Il paradosso della libertà, Agalev, Bologna, 1990, p. 121.

[36] Cfr. F. Berardi, Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio, Costa & Nolan, Genova, 1993, Id., Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione, Castelvecchi, Roma, 1995, Id., Exit. Il nostro contributo all’estinzione della civiltà, Costa & Nolan, Milano, 1997, Id., La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato, DeriveApprodi, Roma, 2001, Id., Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini & Castoldi, Milano, 2015, e Id., L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia, DeriveApprodi, Roma, 2016.

[37] F. Berardi, Dopo il futuro. Dal futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, Roma, 2013, pp. 108-109 e p. 121.

[38] F. Berardi, Heroes, cit., p. 147.

[39] Ibi, p. 150.

[40] Ibi, p. 151.

[41] F. Berardi, Mutazione e cyberpunk, cit., p. 18.

[42] Cfr. in particolare pp. 52-55.

[43] Ibi, p. 124.

[44] F. Berardi – M. Geraci, Morte ai vecchi, cit., pp. 125-126.

[45] Ibi, p. 275.

[46] F. Berardi, Exit, cit., p. 21.

[47] F. Berardi, Heroes, cit., p. 51.

[48] F. Berardi – M. Geraci, Morte ai vecchi, cit., p. 126.

[49] F. Berardi, Neuromagma, cit., p. 12.

[50] F. Berardi, Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie, Ombre corte, Verona, 2009, p. 74 (I ed. Castelvecchi, Roma, 1993).

[51] F. Berardi, Mutazione e cyberpunk, cit., pp. 92-93.

[52] F. Berardi, Finalmente il cielo è caduto sulla terra, Squilibri, Milano, 1978, p. 57.

[53] Ibidem.

[54] Per un’articolazione di questa tesi rimando a D. Palano, The «excesses» of cognitive capitalism, in «Historical Materialism», 2013, n. 3, pp. 229-245.

[55] Y. Citton, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Alegre, Roma, 2013, p. 23.

[56] Wu Ming 1, L’incontro del salmone e degli asparagi sulla tavola del narratologo, in Y. Citton, Mitocrazia, cit. p. 8. In realtà la citazione è tratta da una recensione critica di Wu Ming al libro di Christian Salmon, Storytelling. La machine à fabriquer les histoires et à formater les esprits, La Découvert, Paris, 2007.

[57] «Lo sciame delle organizzazioni politiche in rete», scrivevano infatti Hardt e Negri, riprendendo criticamente l’immagine adottata dagli studiosi di intelligenza artificiale, «è composto da una moltitudine di differenti elementi creativi e agenti, una differenza che rende il modello molto più complesso. I membri di una moltitudine non devono diventare omogenei o rinunciare alla loro creatività per comunicare o cooperare tra loro, ma rimangono differenti per quanto riguarda il sesso, l’etnia, la sessualità e così via» (M. Hardt – A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004, p. 116).

[58] B.-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma, 2015, pp. 82-83.

[59] F. Berardi – M. Geraci , Morte ai vecchi, cit., p. 91.

 

[cite]

 

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philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34 may 2016
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