philosophy and social criticism

Il mestiere è vivere. Biopolitica del lavoro

di Francesco Paolella

Nota su: Massimiliano Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2015.

È proprio vero che, per citare una vecchia commedia, gli esami non finiscono mai. Ma quando è che – al giorno d’oggi – una persona inizia ad essere esaminata? E soprattutto, che significato ha per ognuno di noi l’inesauribile teoria di valutazioni e autovalutazioni, inesorabili critiche di ogni propria performance?

Non è soltanto nella vita scolastica né, poi, in quella lavorativa: ogni ambito ormai (la vita sportiva, quella “estetica”, per non dire di quella relazionale) viene sottoposto a una incessante analisi (auto-analisi). L’obiettivo dovrebbe essere quello di migliorarsi, conoscendosi meglio e riuscendo così a cogliere le proprie potenzialità (sempre inespresse), cercando di mettere a frutto i propri talenti.

Ognuno di noi ha in sé un capitale – questa sarebbe dunque la “verità”: il proprio capitale umano che, una volta venuto il tempo, dovrà garantirgli una ruolo sociale, oltre che ovviamente un reddito. Non si tratta semplicemente di trovare un impiego e un salario, né di riuscire a “mettersi in proprio”. Ad ognuno è chiesto di essere (e di esserlo sempre!) imprenditore di se stesso. Un imprenditore che, dovendo collaborare con un’azienda, con uno “staff”, a un “progetto” (che terribile parola onnipresente!), deve sapersi adattare il più possibile, non passivamente ma creativamente, fino a – questo sarebbe l’ideale – sapersi identificare liberamente con il marchio per cui lavora.

Oggi che il mercato (la sua “libertà”, le sue “regole”) rappresenta il principale rivelatore di verità per la vita pubblica e privata, si è imposto un regime di competizione permanente, acuendo lo stato di guerra fra i lavoratori attuali e potenziali, accompagnato da una condizione altrettanto permanente di emergenza/urgenza.

Il post-fordismo, superando le rigidità e (all’apparenza) le gerarchie, non si occupa più tanto di disciplinare i corpi e le menti dei lavoratori, né di garantire a questi ultimi una sicurezza che sarebbe un peso insopportabile dovendo garantire comunque un’alta redditività per ogni investimento. Il management delle risorse umane ha saputo neutralizzare ogni antagonismo, rendendo roba da museo le vecchie lotte operaie, individualizzando (e psicologizzando) sempre più le relazioni di potere nei luoghi di lavoro. Ogni ufficio, ogni linea in fabbrica diventano – così si dice dove si può ciò che si vuole – delle vere e proprie comunità, in cui il singolo è chiamato a partecipare con le proprie capacità, flessibilmente e autonomamente.

Oggi che le fabbriche vivono in funzione del mercato e non cercano più di indirizzarlo, hanno dovuto aprirsi ai “rapporti orizzontali”, creando contesti più “liberi”, più snelli, in cui il lavoratore deve rispondere a sé e al gruppo del proprio lavoro. Non che l’assoggettamento, la costrizione e lo sguardo “valutatore” dei capi siano scomparsi, anzi. Ed è stata la crisi del modello taylor-fordista ad aver reso necessaria l’instaurazione di nuovi dispositivi, in primo luogo con l’affermazione dei “saperi umanistici aziendali”: selezionare, valutare, indirizzare, promuovere, motivare. In una parola: empowerment.

Le leadership aziendali hanno scoperto il “fattore umano”. Le imprese, piccole e grandi, hanno capito l’utilità di presentarsi fornite di un’etica, di una responsabilità sociale (verso i dipendenti come verso l’ambiente circostante): privilegiare il dialogo, la motivazione, il coinvolgimento. Anche l’ultimo arrivato deve essere coinvolto in un moto di attaccamento emotivo verso l’azienda, verso i leader e i “mitici” fondatori.

La psicologia, la pedagogia e la filosofia sono così entrate in azienda, in un ruolo ancillare senza dubbio, ma sempre più visibile: evitare e risolvere i conflitti, neutralizzare gli accessi di antagonismo, rimodulare continuamente i tempi e i modi di lavoro: la sperimentazione, la creatività, una certa libertà sono oggi al potere nelle aziende.

Ma come si è arrivati a questo punto? Il libro di Massimiliano Nicoli ci riporta fino alle origini della “organizzazione scientifica del lavoro” e ne segue l’evoluzione dai tempi “eroici” di Ford e Taylor fino ad ora. Nicoli ha usato a questo scopo la cassetta degli attrezzi messa assieme da Foucault (la microfisica del potere, la biopolitica, la governamentalità liberale), applicandola appunto al campo delle discipline nei luoghi di lavoro.

Questa biopolitica del lavoro, nel tempo della immaterialità e della precarietà, del just in time, del coaching ecc., fa emergere cambiamenti radicali che le vecchie strutture di rappresentanza faticano (se non hanno già rinunciato a farlo!) a comprendere. Questo libro di Nicoli può essere – in una biblioteca ideale di saggi su questo tema – avvicinato al volume altrettanto importante che Germano Maifreda ha dedicato qualche anno fa proprio a La disciplina del lavoro (Bruno Mondadori, Milano 2007).

tysm literary review

vol. 22, issue no. 22

APRIL 2015

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