Vivere è superare se stessi
Ilde Mattioni
Antonin Artaud, Vivere è superare se stessi, a cura di Enrico Badellino, Archinto, Milano 2000.
Il 10 gennaio del 1936, Antonin Artaud –poeta e attore visionario, nato a Marsiglia nel 1896- si imbarcò ad Anversa, destinazione: il Messico. Era l’avvio di un percorso iniziatico che lo condusse sulle tracce degli indiani Tarahumara, nella Sierra Madre occidentale. Ma era, soprattutto, il più radicale tra quei “viaggi d’espatriazione”, così diversi per motivazioni e struttura dal tema romantico della fuga, che molti dissidenti dal movimento surrealista avrebbero intrapreso, in seguito alla deriva politica di André Breton e compagni, per esplorare nuovi territori dell’anima e della scrittura. Michel Leiris dall’ Arica, Henri Michaux dall’Ecuador, René Daumal dall’ India, Artaud dal Messico se ne tornarono carichi di esperienze e di scritti pronti ad “esplodere” tra le mani dei lettori incauti, dando corpo a quella strana “comunità” di sovversivi che l’etnologo James Clifford ha definito, con una formula davvero fortunata, “surrealismo etnografico” (di Clifford si vedano gli splendidi saggi raccolti nel volume I frutti puri impazziscono, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, nuova edizione).
L’esperienza di Artaud nella Sierra, quindi, notava lo scrittore Gustave Le Clézio, è stata «l’occasione di una rottura totale con il mondo occidentale». In quei luoghi di roccia, «dove tutto parla dell’essenziale», Artaud si è sottoposto alla prova della fame e a quella del peyotl, il “sacro legno” che purifica e per mezzo del quale «si salta al disopra del tempo» superando magicamente il nesso di causalità, vero dogma dell’Occidente. La sua, però, fu soprattutto un’esperienza del sole e del suono. Affascinato dalle danze solari (Tutuguri) e dalla simbiosi che i Tarahumara manifestavano con la terra e il suo doppio notturno (la luna), Artaud pensò di aver trovato la prova vivente di quel “teatro della crudeltà” e di quel corpo liberato (che chiamerà “corpo senza organi”) che da tempo inseguiva, sulle scene della vita, per liberarsi dai «demoni della società, di dio, del capitale».
Il volume in questione, che raccoglie le dieci lettere che Artaud, scrisse a Jean-Louis Barrault tra il 1935 e il 1945 – e che in gran parte riguardano, appunto, lo scenario messicano-, è arricchito da una aggiornatissima cronologia firmata dal curatore Enrico Badellino, e può essere un utile strumento per introdursi alla complessa visione del mondo dell’artista marsigliese. Lo consiglio vivamente, accanto a due volumi (tradotti in tempi non recentissimi) dello stesso Artaud: i Messaggi rivoluzionari editi da Monteleone di Vibo Valentia nel 1994 e Un viaggio al paese dei Tarahumara edito e riedito più volte da Adelphi.
Il consiglio è rivolto soprattutto a coloro che amano, anche nelle letture, il rischio e non sopportano l’etnocentrismo della “letteratura” da salotto, lontana dalla vita e dalle sue radici. Perché vivere, scrive Artaud in una delle lettere più graffianti qui riprese, «non è seguire come pecore il corso degli eventi, nel solito tran tran di questo insieme di idee, di gusti, di desideri, di percezioni, di desideri, di disgusti che confondiamo con il nostro io e dei quali siamo appagati senza cercare oltre, più lontano. Vivere è superare se stessi».