philosophy and social criticism

Arte e/o politica. Il “grande stile” è rivoluzionario?

Philippe Sollers

Il 28 luglio 1830, un giovane pittore di trentadue anni, ormai noto, cammina in una Parigi sconvolta dalla sommossa. Poco tempo dopo, scrive: «Siamo stati tre giorni in mezzo alle raffiche di mitraglia e ai colpi di fucile, si combatteva dappertutto. Un semplice passante come me aveva, né più né meno, la stessa possibilità di prendersi una pallottola che avevano gli eroi improvvisati che andavano incontro al nemico con spranghe di ferro fissate su manici di scopa». E in ottobre continua: «Grazie al lavoro, lo spleen m’abbandona. Ho iniziato un soggetto moderno, Una barricata, che m’ha rimesso buon umore».

Questa barricata è La libertà che guida il popolo di Delacroix. Probabilmente, insieme a Guernica di Picasso, è uno dei dipinti di Storia meglio riusciti: un’insurrezione e una distruzione nella realtà, che trovano la loro corrispondenza in pittura. Il caso è raro, bisognerebbe chiederszzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzi con più insistenza il perché. Non vi è dubbio che Victor Hugo, per esempio, contemplava questo quadro mentre scriveva I miserabili. Sì, eccolo, Gavroche, con la pistola in mano, che canta «… La colpa è di Voltaire, la colpa è di Rousseau…». La Repubblica scende dal Parnaso, col seno scoperto, come una figlia del popolo. La libertà consiste nel saper vivere e parlare nel momento stesso in cui gli avvenimenti si svolgono. Una “cosa vista” da Hugo sarà così molto più di una cosa: «è più attraverso la via letteraria che attraverso la via politica che si penetra a fondo nell’anima dei popoli e nella storia interiore delle società umane». E poi: «Il simbolo per eccellenza del popolo è la selce. Vi si cammina sopra finché non ci cade sulla testa». Ancora: «In Francia, c’è sempre una possibile rivoluzione allo stato di calore latente».
Straordinario secolo, il XIX, che probabilmente si conclude sotto i nostri occhi con la grigia commemorazione del Maggio ’68. Come per caso, quel dipinto di Delacroix è rappresentato nel penultimo biglietto da cento franchi francesi, seguito dal colorato Cézanne, che sarà l’ultimo prima del passaggio all’euro. Noi accumuliamo racconti realistici affrettati, testimonianze raffazzonate, foto e film, e da questa messa in scena viene fuori soltanto una penosa sensazione visiva di bianco e nero, di polvere eliminabile sotto brevi annunci pubblicitari. Nel 1830 vivono alcuni giganti; nel 1848 ci sono ancora, sono sempre li’ dopo la sanguinosa settimana del 1871. Ed ecco un grande silenzio. Poi, il surrealismo, poi il ’68. In quel mese di maggio, Malraux è titubante, Sartre riesce appena a cavarsela («sii breve»), Aragon scopre d’aver perso tempo nella Mosca inebetita. Riappaiono le barricate, la poesia è nelle piazze, l’amore riesce a liberarsi. E di nuovo silenzio.

Siamo fermi a quel punto. Cioè, non oltre la tesi 162 della Società dello spettacolo di Guy Debord: «Sotto le mode apparenti che si annullano e si ricompongono sulla superficie del tempo pseudociclico contemplato, il grande stile dell’epoca lo troviamo sempre in ciò che èorientato dalla necessità evidente e segreta della rivoluzione». Il grande stile? Non e’ detto che sia obbligatoriamente “rivoluzionario”, come dimostrato, per esempio, dalla strana attualità di Chateaubriand. Basta pronunciare il suo nome e tutto si anima. Bernard Pivot non riesce più a star fermo, Jean D’Ormesson è tutto un fremito, Marc Fumaroli diventa lirico e addirittura pronuncia il nome di Lautréamont davanti ad un attonito Michel Rocard.

Come? Chateaubriand avrebbe influenzato Lautréamont? Ebbene sì. Il che non ha impedito a Lautréamont di classificare Chateaubriand tra le Grandes – Têtes – Molles della sua epoca, soprannominandolo «Il mohicano malinconico». Mentre Victor Hugo è «Il funereo palo verde», George Sand «L’ermafrodito circonciso» e Lamartine «La cicogna lacrimevole». Ecco alcuni regolamenti di conti al vertice, se così si può dire, che sono sia letterari sia politici.

Volete una descrizione dei nostri giorni? La troviamo in quella della Parigi napoleonica (Chateaubriand ha un modo tutto suo dell’uso della parola crimine): «Il mondo ordinato iniziava a rinascere; si abbandonavano i caffè e la strada per tornare nelle proprie case. I rivoluzionari arricchiti cominciavano a installarsi nei grandi palazzi venduti del faubourg Saint – Germain. Sul punto di diventare baroni e conti, i giacobini parlavano solo degli orrori del 1793, della necessità di punire i proletari e di reprimere la plebaglia. Bonaparte, nel farsi difendere da tanti Bruti e tanti Scevola, si preparava a ricoprirli di decorazioni variopinte e a sporcarli di titoli, forzandoli a tradire le loro idee e a disonorare i loro crimini». Ecco una «barricata» ben scritta. Non resta che aspettare Proust. Quanto a Céline, nella prigione di Copenaghen, nel 1946, per tentare di giustificarsi (malissimo), traccia la lista degli scrittori perseguitati dai vari poteri: «Tutti gli scrittori francesi hanno dovuto andare in esilio, per un motivo o per l’altro. In Francia, ogni pretesto è buono per perseguire gli scrittori. La lista è lunghissima: Villon, Agrippa d’Aubigné, Ronsard, Du Bellay, Chateaubriand, Jules Valles, Victor Hugo (20 anni), Rimbaud, Verlaine, Lamartine, Proudhon, Leon Daudet…)». Un’enumerazione confusa, che si spiega con la sofferenza e lo smarrimento. Stranamente, manca il nome di Sade il quale, secondo una sua formula, è stato «detenuto sotto tutti i regimi». Certo, pensiamo anche ad Antonin Artaud e alla tragedia dei malati di mente eliminati, per fame, durante l’ultima guerra. Nel 1958 Jacques de Lacretelle ripeteva il classico cliché secondo cui gli artisti non devono fare politica. Mauriac gli risponde subito: «La politica penetra a tal punto nella condizione umana che la pretesa d’ignorarla, particolarmente per un romanziere, significa condannarsi alla nullità».

Più probabilmente,  anche in questo caso, come per la “barricata” di Delacroix, il problema essenziale rimane quello dello stile. Si vede benissimo quando un romanzo è reazionario: si passa dalla stupidità sentimentale borghese al realismo socialista di sinistra memoria. A partire da un certo momento, Sartre sbaglia, dimentica la sua bella barricata della Nausea. Aragon si lascia andare a scrivere qualsiasi cosa sotto il nome di Comunisti.

Dopo di che, tutto continua come prima, cioè come nel peggiore XIX secolo. Torna il Romanzo familiare, con Mamma, Papà, mio Marito, oppure con la mia Miseria, la mia Periferia, la mia Depressione. Il colore si perde, la percezione si atrofizza, la provincia si installa di nuovo dappertutto. Parigi, la grande Parigi rivoluzionaria s’addormenta.

[Articolo già pubblicatoil 15 maggio 1998 su “Le Monde”, con il titolo Art et politique]