philosophy and social criticism

Jacob Taubes e Carl Schmitt

Bruno Accarino

Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di Elettra Stimilli, traduzione di Gianni Scotto e Elettra Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996

Si può essere apocalittici dal basso e dall’alto. Chi lo è dall’alto, come Carl Schmitt, legge un passo oscuro della seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi per ricostruire il modo in cui il regno cristiano riesce ad arrestare l’apparizione dell’Anticristo e la fine dell'”eone” presente: il potere storico che introduce all’impero cristiano si presenta come forza qui tenet, che trattiene o frena. Chi è apocalittico dal basso, come Jacob Taubes, scarta i “poteri costituiti” e piega l’esperienza del tempo e della storia alla tensione messianica.

Eppure il senso del tempo, dell’eschaton in senso stretto, accomuna entrambi. Questo libretto – In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli – nasce dallo stupore di Taubes, esponente di primo rango dell’ebraismo tedesco, di trovarsi “in divergente accordo” (il titolo allude alla “contrastante armonia” di Eraclito) con Schmitt, il giurista autore di pronunciamenti antisemiti e fiancheggiatore raffinato ma non occasionale del regime nazista.

Eppure  i brevi interventi di Taubes – rigorosamente non rivisti per la pubblicazione, secondo uno stile di lavoro che privilegiò sempre la comunicazione orale, quasi ad espiare la colpa di un lavoro giovanile di impronta sistematica di cui dirò poi – sono, a ben vedere, sufficientemente severi: l’apocalittico della controrivoluzione. Carl Schmitt, viene intanto fotografato nella sua frequentazione fortemente orientata di un filone di pensiero arciconservatore sintetizzato nell’opera di un Donoso Cortès o di un Joseph de Maistre, e in secondo luogo fatto oggetto di una precisa chiamata di correità per il convertirsi della teologia della controrivoluzione nell’ideologia di un nuovo conservatorismo accademico, “che l’istituzione dell’ebraismo conservatore propagava in tutta l’America” (Taubes). Come a dire: Carl Schmitt a New York.

L’incontro di Taubes con l’escatologia data dal 1947, anno di pubblicazione di quella Abendländische Eschatologie (Escatologia occidentale) che rimase del tutto sconosciuta, certamente anche per la soffocante sovrapposizione dell’assai cursoria ricostruzione di Karl Löwith dal titolo Meaning in History (’49). Era lì che compariva, nelle prime pagine, un paragrafo su “Israele come luogo della rivoluzione”, mentre da Daniele a Giovanni, dalla vita di Gesù alla dissoluzione del mondo antico in Paolo, dalla profezia gioachimita alla teologia della rivoluzione di Thomas Münzer – poi preziosamente ricostruita in una monografia di Ernst Bloch – venivano prendendo forma temi che oggi ci sembrano familiari, ma che allora vedevano il ventiquattrenne Taubes privo di sponde e appigli nella cultura europea.

E’ anche possibile, a onor del vero, che mettendo a punto, in quella prima opera, uno schema di lettura della filosofia moderna della storia – da Kant a Hegel, da Marx a Kierkegaard – come incessante rielaborazione del tema escatologico, Taubes accreditasse un’idea della transizione dall’escatologia cristiana alla filosofia laica del progresso come d’un passaggio di consegne senza apprezzabili alterazioni – il che si è espresso in seguito, indipendentemente dall’incolpevole e pochissimo letto Taubes, qualche schematismo contro cui è sceso in campo Hans Blumenberg. Nella biografia di Taubes un ritorno ponderato su quell’esperienza giovanile è dato, a più di trent’anni di distanza, dai tre volumi collettanei (l’ultimo è apparso postumo) da lui curati e dedicati rispettivamente al dio mortale Leviatano, al rapporto tra gnosi e politica e alla teocrazia.

Che cosa impedì a Taubes di liquidare Carl Schmitt come uno dei tanti episodi di ubriacatura antisemita dell’intellettualità tedesca? Curiosità? Gusto del rischio? No: è l’imprescindibilità della teologia politica. Non è stato Spinoza (il “primo ebreo liberale”: così Schmitt nel 1938) a scoprire il punto di frattura dello stato moderno: è stato Paolo, quel Paolo al quale Taubes è ritornato, alla fine della sua vita, in un ciclo di conferenze heidelberghesi poi raccolte in Die Theologie des Paulus (1994), che contiene anche un intervento su Carl Schmitt e Karl Barth, “gli zelòti dell’assoluto e della decisione”. E’ a partire da Paolo che si distingue, per il politico, tra un dentro e un fuori. “Senza questa distinzione siamo abbandonati alla mercé dei troni e dei poteri costituiti, che in un cosmo ‘monistico’ non conoscono un aldilà”. E allora che la macchina dello stato si rivela essere “un fragile equilibrio tra un dentro e un fuori, mortale e dunque sempre fallibile”.

La verità è che Schmitt ha caparbiamente cercato l’impuro ed è su questo terreno che si è delineata l’altrimenti impossibile convergenza con Taubes. C’è una pagina irridente e divertita di Taubes sulla gigantomachia che si combatte attorno alla parola “puro” (“chi l’ha lavata?”), una pagina che diventa molto seria quando tra i portabandiera della “purezza” viene convocato Kelsen, la cui dottrina del diritto ha dovuto ignorare ciò con cui Schmitt ha esordito: lo stato di eccezione. La scarnificazione liberale del diritto trova alimento in un positivismo ignaro di ogni asprezza, esorcistico nei confronti della violenza, impreparato alla contingenza. Naturalmente il liberismo cade anche sotto i colpi della sinistra radicale, ma intanto è stato Schmitt a capire, in Germania, che si preparava una guerra civile su scala mondiale. “Sarebbe potuto diventare leninista, ma ha avuto la stoffa dell’unico antileninista di rilievo”.

Forse non si rende giustizia a questo libretto se gli si affidano ambizioni teoriche e stringenze argomentative esorbitanti, che vanno chieste semmai ad altri lavori di Taubes. Il quale voleva intanto, e c’è riuscito brillantemente, rendere conto dell’assurdità nella quale, finita la guerra, si trovano parecchi studiosi tedeschi magari reduci da esperienze di lavoro universitario e di ricerca in paesi che li hanno ospitati a lungo dopo il 1933. Le fila del dialogo sono spezzate, la presenza della Ddr non contribuisce certo a rasserenare gli animi e le menti, la diffidenza è forte e diffusa, la fobia del contatto una misura elementare di profilassi nei confronti di chi non possa esibire una biografia politica insospettabile di collusioni. Sarà per questo che il più spregiudicato fu un russo naturalizzato francese: il quasi mitico autore delle lezioni parigine su Hegel negli anni ’30, Alexandre Kojève, di ritorno da Pechino nel 1967 annuncia semplicemente a Taubes che andrà a trovare Schmitt nel suo esilio volontario di Plettenberg – è l’unico con il quale valga la pena interloquire.

Gli interventi di Taubes non sono un omaggio alla figura di Carl Schmitt, che non ne aveva bisogno (i suoi allievi a distanza si annoverano anche nella scuola di Francoforte) e al quale, sotto sotto, poco o nulla perdonano sul versante teorico: sono semmai un atto di accusa contro la lentezza di riflessi di un pensiero democratico e di sinistra che, pur traumatizzato dall’esperienza totalitaria e dalla guerra, non avrebbe dovuto concedere anche alle versioni più deboli del liberalismo di vivacchiare e di sopravvivere al di là della loro capacità effettiva di proporre soluzioni della crisi europea.

[da il manifesto, 18 aprile 1996]