Le cattive azioni dell’irresponsabilità
Christian Marazzi
Brutte notizie dal fronte della lotta per la governance e la responsabilità sociale dell’impresa, le colonne portanti della riforma delle società quotate in Borsa dopo gli scandali Enron, Worldcom, Vivendi, Parmalat e tutte le altre «imprese irresponsabili». Il primo giugno William Donaldson, presidente della Sec, l’Autorità di vigilanza Usa sulla Borsa, si è dimesso in anticipo di due anni sul mandato. È verosimile che sia stato «sollecitato» a dimissionare. Nominato nel 2003, Donaldson si era adoperato per rafforzare la legislazione americana sulla governance d’impresa (la legge Sarbanes-Oxley per inasprire controlli e pene nei confronti di manager disonesti). A sostituirlo, Bush ha chiamato l’amico Christopher Cox, repubblicano fautore della limitazione delle cause collettive (class action) degli azionisti defraudati da manager criminali. «La nomina di Cox – ha commentato Robert Kuttner su Business Week – rappresenta una corrente pericolosa nel pensiero repubblicano contemporaneo: è anti-business essere pro-investitore». Un recente studio della Sec su duecento imprese quotate Usa, incluse le cento più grandi, ha evidenziato lacune nei bilanci per miliardi di dollari. Sono esclusi i debiti per gli impegni pensionistici a favore dei dipendenti, i canoni di leasing, i contratti sui derivati: di conseguenza i bilanci sono inaffidabili. A quattro anni dal crac Enron, scrive Nicola Borzi sul Sole-24 Ore, «lo schieramento avverso a norme troppo strette prende forma e forza». Come non bastasse, negli Usa e in Europa è ripartita la moda dei riacquisti di azioni proprie da parte delle imprese (i famosi buy back finalizzati ad aumentare il valore delle azioni). La ragione principale dell’aumento (oltre il 90 per cento rispetto all’anno scorso) è il reperimento di titoli per finanziare piani di stock option con i quali le aziende incentivano i propri manager e i dipendenti. Piuttosto che realizzare profitti con investimenti e innovazioni del ciclo di produzione, si preferisce aumentare a breve termine il valore delle azioni. In questo quadro di «capitalismo manageriale azionario», come Luciano Gallino definisce lo shareholder value nel suo splendido L’impresa irresponsabile (Einaudi, Torino 2005), sembra restringersi lo spazio per un comportamento socialmente responsabile da parte delle imprese. Dopo la crisi della new economy del 2000, dopo innumerevoli dibattiti e rapporti sulla corporate social responsability (Csr), torna a farla da padrona l’impresa che «al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività». Con effetti devastanti sulle condizioni di lavoro, i prezzi, i trasporti, l’ambiente, le forme di risparmio, l’organizzazione famigliare, la possibilità stessa di progettarsi un’esistenza.
L’impresa irresponsabile, più che una questione di singoli dirigenti più o meno criminali, è «l’esito di un modello strutturale, per vari aspetti scientificamente costruito, di governo dell’impresa. Lo scopo dominante di tale modello di governo è far salire il prezzo delle azioni, più precisamente il valore di mercato dell’impresa». Se si vogliono applicare i sani principi del Csr, per cui le imprese devono comportarsi in modo da garantire gli interessi di tutti i portatori di interessi (gli stakeholder) e non solo quelli dei manager e dei grandi azionisti, occorre intervenire sulla struttura del governo d’impresa. Occorre, cioè, rovesciare la logica del breve periodo, tipica della finanziarizzazione dell’economia degli ultimi vent’anni, in strategie di produzione di lungo termine secondo la logica dello sviluppo sostenibile.
L’ipotesi (forte) di Gallino, secondo cui la moltiplicazione di imprese irresponsabili è imputabile al ritorno al governo d’impresa dei proprietari di vecchio e nuovo tipo e al modo in cui esso è esercitato dai manager, ha la sua spiegazione storica nella crisi del saggio di profitto delle grandi imprese non finanziarie tra gli anni `60 e gli anni `80. La transizione dal «capitalismo manageriale produttivista» al regime azionario si spiega alla luce del calo dei profitti (stimabile attorno al 50 per cento) dovuto all’esaurimento delle basi tecnologiche ed economiche del fordismo, in particolare la saturazione dei mercati per beni di consumo di massa come conseguenza della rigidità sia dei processi produttivi, del capitale costante, sia del capitale variabile, il salario operaio politicamente «rigido verso il basso». «Pertanto fin dai secondi anni `70 la principale forza propulsiva dell’economia mondiale è stato l’incessante tentativo delle imprese capitalistiche – sollecitato dai loro proprietari e investitori – di riportare con differenti mezzi il tasso di profitto ai maggiori livelli di vent’anni prima». Sappiamo come è andata: riduzione del costo del lavoro; attacco ai sindacati; delocalizzazione in paesi a bassi salari; precarizzazione del lavoro e diversificazione dei modelli di consumo. E, appunto, finanziarizzazione, ossia aumento dei profitti non come eccedenza dei ricavi sui costi (la logica manifatturiera-fordista non più praticabile in un’economia in via di globalizzazione), ma come eccedenza del valore in Borsa «al tempo t2 rispetto al t1 – dove lo scarto tra t1 e t2 può essere anche soltanto di pochi giorni». E Gallino osserva come il ricorso ai mercati finanziari da parte delle maggiori imprese per ristabilire i saggi di profitto abbia poco a che fare col finanziamento dell’attività dell’impresa tramite emissione di nuovi titoli, per la semplice ragione che le imprese hanno sempre avuto ampi margini di autofinanziamento. «Le imprese Usa, il paese più `azionario’ del mondo, hanno usato il finanziamento mediante l’emissione di azioni soltanto nella misura dell’1 per cento del fabbisogno; quelle tedesche nella misura del 2 per cento». La finanziarizzazione dell’economia è stata cioè un processo di recupero della redditività del capitale dopo il periodo di calo del tasso di profitto, un dispositivo di captazione di valore all’esterno dei processi di produzione «imprenditoriale» di ricchezza, una sorta di valorizzazione della rendita (di quella pensionistica, ad esempio) a mezzo di «macchine cognitive» (branding, diritti di proprietà intellettuale). Per trasformare la rendita in capitale, per legare le vite di milioni di lavoratori ai rischi del capitale, si sono usati tutti i mezzi: quello ideologico (il borghese-massa al posto dell’operaio-massa), quello comunicativo (mimetismo dell’investitore), quello politico statale (liberalizzazione dei mercati, defiscalizzazione), quello tecnologico (coazione all’innovazione).
Si tratta, e qui sta il punto, di una trasformazione strutturale del capitalismo difficilmente reversibile e forse neppure riformabile, non solo a causa della centralità dei mercati finanziari e del comportamento manageriale-azionario di massimizzazione del valore di mercato, ma anche a causa dell’emergenza di una nuova natura del capitale. La quota del profitto sul reddito totale, che tra gli anni `60 e `80 era scesa negli Usa dal 24 per cento al 15-17, a tutt’oggi non supera il 14 per cento. «È questo – scrive Gallino – uno degli indici che induce a ipotizzare che l’impresa tendenzialmente irresponsabile, in quanto filiazione della riduzione del tasso di profitto, continui a riprodursi». I fatti evocati all’inizio sembrano confermare questi dubbi.
L’ipotesi da sviluppare sulla scorta dello studio di Gallino è se l’irresponsabilità dell’impresa non sia la faccia odiosa di un capitalismo che per crescere è costretto a rincorrere quella «intelligenza diffusa» nella società che, proprio in conseguenza della crisi del fordismo e della rivoluzione tecnologica che ha segnato la transizione al capitalismo manageriale azionario, produce innovazione e ricchezza sulla base di una cooperazione sociale inedita (il manifesto, 21 giugno). L’impresa irresponsabile è la forma del comando capitalistico su una cooperazione sociale che, per manifestarsi come attività tesa all’innovazione e allo sviluppo economico, tanto deve essere libera, ma altrettanto deve essere piegata nel rapporto sociale di produzione.
[da il manifesto, 16 giugno 2007]