Le Tesi di Benjamin
Paolo Virno
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino 1997.
La nuova edizione delle tesi di Benjamin sulla storia applica a questo testo celebre, alcuni dei precetti perentori in esso contenuti. Scrive Benjamin: “Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista nell’attimo del pericolo”. Ebbene, per Bonola e Ranchetti, le stesse Tesi di Benjamin devono essere accostate, oggi, come “un’immagine del passato” che balena, soccorrevole e istruttiva, “nell’attimo del pericolo”.
La critica al progresso
Il pericolo in questione – scrivono i curatori – è “l’avanzare dell’insinuante convinzione, da più parti acclamata e favorita, di una fondamentale insensatezza degli eventi storici”; l’idea, diffusasi dopo il 1989, che “si è ormai consumata la fine della idea stessa di storia, come possibile luogo della progettazione e della introduzione dell’alternativa radicale all’esistente”. Nota e citatissima è la critica benjaminiana alla fiducia socialdemocratica in un progresso inarrestabile e infinito, nonché al suo fondamento metafisico, la nozione di un “tempo omogeneo e vuoto”. La cultura postmoderna si è appropriata con ingordigia di questa critica, facendone talvolta uno stendardo da far garrire contro i non rassegnati. Niente progresso, dunque eterno ritorno dell’uguale: così hanno concluso, poco importa se euforici o malinconici. Senonché, per Benjamin, la fine dell’illusione progressista va di pari passo con il riconoscimento dell’attualità della rivoluzione: “ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia”. Bonola e Ranchetti si sforzano di ricostruire, con un ammirevole lavoro filologico e interpretativo, questa connessione inopinata e però limpidissima tra il crollo della cultura di sinistra e la ricostruzione di una prospettiva rivoluzionaria. Mostrano, insomma, che il concetto di tempo storico benjaminiano costituisce un tertium rispetto alle antinomie complementari rappresentate dai concetti opposti di progresso e di eterno ritorno”.
Con questa edizione ha termine, forse, quel “fraintendimento esaltato” delle Tesi, che Benjamin prevedeva e paventata in una lettera a Gretel Adorno (moglie del filosofo). Fino a ora si poteva far conto su una certa enigmaticità del testo per proporne gli usi più disinvolti; o peggio, per non farne alcun uso, limitandosi ad allusioni eleganti e cenni sfuggenti. Ora non più. Ora l’enigmaticità è dissolta dalla presentazione di una gran massa di materiali preparatori, glosse, rimandi, intrecci d’ogni sorta. Bonola e Ranchetti hanno collegato le venti pagine delle Tesi (rintrodotte con le varianti, e annotate) all’intera opera di Benjamin, tratteggiando attorno a esse cerchi concentrici via via più larghi. Il primo materiale aggiuntivo è la traduzione francese, eseguita dallo stesso Benjamin: per alcuni versi, si tratta di una vera e propria autointerpretazione (basti pensare alle soluzioni scelte dall’autore per rendere in altra lingua certi termini-chiave come jetzt-zeit, il tempo-ora messianico, irriducibile alla continuità del decorso cronologico). La sezione successiva comprende tutti i materiali preparatori alle Tesi: appunti, prime stesure, talvolta sviluppi non compresi nella redazione definitiva. Qui, tra l’altro, viene in chiaro il senso della famosa immagine che tiene banco nella prima tesi: il materialismo storico come un manichino che, giocando a scacchi, vince sempre perché si serve di un nano gobbo, la teologia, celato alla vista. Segue poi la cernita di tutti i passi di Parigi, capitale del XIX secolo che, più o meno direttamente, si riferiscono alle Tesi; in certi casi, con formulazioni diverse o perfino opposte.
Un promemoria teorico
A questo punto, si incontra un libro nel libro: cento pagine di “lemmi”, cioè di parole-chiave o stelle fisse dell’elaborazione benjaminiana, da “Adesso” a “Immagine”, da “Futuro” a “Lotta di classe”, da “Monade” a “Redenzione”, e via dicendo. Si tratta di interpretazioni sobrie, mappe topografiche ispirate a quel modello di commento interlineare così caro a Benjamin (da lui utilizzato per le poesie di Brecht). A concludere il libro, una serie di documenti che provengono dalla cerchia degli amici dell’autore; da essi traspare la forza d’urto delle Tesi, quel “senso di disagio” e di stupore che accompagnò la loro prima ricezione. Vi è qualche buon motivo per credere che questa edizione possa funzionare come “un promemoria teorico” per ragionare sul concetto di storia dopo la catastrofe del socialismo reale. Il fatto che tale promemoria sia stato scritto in uno stato di precarietà e di emergenza, nel 1940, all’indomani del patto tra Hitler e Stalin, non suonerà poi tanto bizzarro a chi, avendo letto le Tesi, sa quanto gravido di chances attualissime possa essere uno specifico frammento del passato.
[da il manifesto, 3 marzo 1998]