Un sapere artigiano per sopravvivere al capitalismo
Giuliano Battiston
Autore dalla mentalità filosofica radicata nel pragmatismo americano e dall’atteggiamento critico proprio degli etnografi – perché «un’idea deve confrontarsi con l’esperienza reale, altrimenti diventa una pura astrazione» -, Richard Sennett è il sociologo contemporaneo che ha offerto strumenti indispensabili per comprendere le conseguenze del capitalismo sulla vita quotidiana e i deficit sociali prodotti dall’erosione del «capitalismo sociale», dimostrando che il capitalismo flessibile conduce al disordine, dando vita a «forme culturali che celebrano il cambiamento personale ma non il progresso collettivo» e, allo stesso tempo, a forme di potere ancora più opache. Di fronte a questa opacità, suggerisce Sennett, non dovremmo mai stancarci di elaborare strategie per rendere leggibile e visibile la figura che incarna l’autorità pubblica, smascherando le sue illusioni attraverso l’uso dell’immaginazione. Dopo tutto, «il difficile, scomodo, e spesso amaro compito della democrazia» è proprio questo: introdurre un «disordine intenzionale dentro l’edificio del potere».
Nato a Chicago nel 1943, dopo aver abbandonato una promettente carriera di musicista Richard Sennett si è dedicato alla sociologia, formandosi nelle Università di Chicago e Harvard. Negli anni Settanta insieme a Susan Sontag ha fondato (e poi diretto) il «New York Institute for the Humanieties». Già consigliere dell’Unesco e presidente dell’«American Council on Work», si divide tra l’insegnamento alla New York University e alla London School of Economics. È autore di tre romanzi e di diversi testi. In Italia sono stati pubblicati L’uomo flessibile (Feltrinelli), Rispetto (il Mulino), La cultura del nuovo capitalismo (il Mulino), Autorità (Bruno Mondadori), Il declino dell’uomo pubblico (Bruno Mondadori), L’uomo artigiano (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, 2008).
Alla fine de «La cultura del nuovo capitalismo», lei scrive che l’abilità artigianale è un valore «che potrebbe fare da contrappeso alla cultura del nuovo capitalismo», ma aggiunge che immaginarla «in termini di policy rappresenta la sfida più radicale». Potremmo leggere il suo ultimo libro, «L’uomo artigiano», anche come un tentativo di affrontare questa sfida?
In parte è così, dal momento che dietro la questione centrale, relativa a cosa significhi acquisire delle capacità, sviluppare le competenze espresse nel lavoro, diventare capaci di fare bene qualcosa, c’è la convinzione che nel momento in cui rispondiamo a questo interrogativo comprendiamo anche che tipo di istituzioni dovremmo edificare per rendere possibile quell’acquisizione. Dunque, se è vero che in questo testo, per una precisa convinzione, non ho voluto presentare alcuna policy esplicita, se non in senso molto generale, è altrettanto vero che L’uomo artigiano è un contributo che propongo alla sua definizione. Infatti, se non riusciamo a capire cosa si intende la promozione tra «le persone comuni» della possibilità di dare forma ed esprimere le proprie capacità non potremmo inventare gli strumenti che permettano loro di farlo. Tradotto in questioni di attualità politica, il programma di Obama per la creazione di nuovi posti di lavoro si avvicina a ciò che intendo: bisogna fare in modo non solo che la gente torni a lavorare, ma che torni a farlo in un modo che gli consenta di dispiegare le proprie abilità.
Ne L’uomo artigiano lei ricorda un incontro, avvenuto nel 1962, con Hannah Arendt – convinta «che le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno» -, mentre nella parte conclusiva sostiene che l’intento del libro «era quello di salvare l’animal laborans dalla svalutazione di cui lo aveva fatto segno» la sua maestra. Cosa c’è di sbagliato nella distinzione arendtiana tra «homo faber», colui che si chiede «perché», e «homo laborans», colui che si chiede semplicemente «come»?
Si tratta di una distinzione da cui discendono conseguenze disastrose, e che non ha fondamento. Quando tentiamo di risolvere un problema concreto, ad esempio una macchina che non funziona, pensiamo sempre criticamente, senza che si dia alcuna distinzione effettiva tra il «come» e il «perché». Allo stesso modo, quando ci chiediamo perché una cosa è così come è, che si tratti di un oggetto fisico o di un processo sociale, dobbiamo comprendere in che modo effettivamente funziona. Ho voluto molto bene ad Hannah Arendt, e la mia è una polemica che investe soltanto la dimensione intellettuale, certo non quella personale. Ritengo che sia del tutto sbagliata la sua idea che per capire quel che stiamo facendo dobbiamo ritrarci dalle azioni pratiche, anziché indugiarvi. Dietro questa distinzione c’è poi una rilevante questione filosofica: quella di Hannah Arendt è una nozione molto «greca», che sembra avvicinarsi alla concezione del piacere inteso come sospensione dell’interesse; all’idea cioè che si debba riflettere senza essere mossi dall’urgenza di agire per la propria sopravvivenza. Per tutte queste ragioni credo che sia una distinzione falsa e insieme idealistica, che non «tiene»: possiamo capire il «perché» soltanto quando guardiamo anche al «come»; la tecnica infatti è una diversa forma di teoria, e teoria e pratica sono elementi inseparabili.
Ne L’uomo artigiano lei scrive che «le capacità che il corpo possiede di conformare oggetti fisici sono le medesime capacità a cui attingiamo nelle relazioni sociali». Quali sono le conseguenze politiche che derivano dall’idea che ci sia «un continuum tra l’organico e il sociale»?
Le rispondo partendo da un esempio. Nel XVIII secolo persone come Thomas Jefferson sostenevano che i lavoratori dotati di capacità tecniche potessero essere i cittadini migliori. Credevano cioè che coloro che facevano esperienza e dovevano affrontare difficoltà, che sapevano istituire relazioni tra la soluzione dei problemi e l’individuazione di nuovi problemi, che conoscevano le strategie da adottare per ovviare alla «resistenza» che gli oggetti oppongono alla risoluzione dei problemi, insomma che coloro che possedevano tutte le abilità necessarie a un buon processo lavorativo fossero individui in grado di esercitare la capacità di giudizio politico. Potevano cioè valutare la realtà politica molto più profondamente di quanti erano invece irretiti dalle ideologie o ancorati al peso della tradizione. L’esperienza maturata nel campo del lavoro era così collegata alla capacità di giudicare e riflettere sul tessuto politico. Una lezione che abbiamo dimenticata. Il marxismo avrebbe potuto e dovuto elaborarla, ma non l’ha fatto.
Quando vedo persone come Silvio Berlusconi mi viene da pensare a ciò che sosteneva Diderot, per il quale la situazione politica viene deteriorandosi quando le persone smettono di guardare al proprio lavoro come a uno strumento per misurare le proprie affermazioni come personae. Il contemporaneo personalismo politico può essere ricondotto a una delle idee dimenticate dell’Illuminismo: l’idea cioè che le esperienze che confluiscono nelle capacità artigianali di costruire oggetti concreti possano orientare la dimensione politica. Da qui la rimozione del realismo inteso come capacità di sapere ciò che è possibile e ciò che non lo è, facendo però in modo che le cose possibili accadano.
Credo fortemente nell’Illuminismo come progetto; per questo sono convinto che per recuperare e ristabilire il senso della realtà dovremmo concentrarci sulla capacità di fare un buon lavoro, sulla virtù dell’esercizio. E i cittadini, dal canto loro, dovrebbero capire da sé che i criteri da adottare nelle scelte dei loro rappresentanti politici non risiedono nel presunto fascino, bellezza, simpatia che hanno. La politica ha perso contatto con il lavoro inteso in senso qualitativo.
Riprendendo le note riflessioni di Max Weber sulla «gabbia d’acciaio», lei ha indagato la differenza tra le vecchie istituzioni civili ed economiche, modellate sulla struttura piramidale dell’esercito, che richiedevano l’obbedienza all’autorità ma allo stesso tempo promuovevano l’inclusione sociale, e quelle attuali, basate sulla rottura tra potere e autorità e sull’esclusione. In che termini sostiene «che la “gabbia d’acciaio” era tanto una prigione quanto una casa»?
Una delle idee dominanti del neoliberalismo, da sempre connotato in senso anti-burocratico, era quella, divenuta particolarmente pervasiva negli anni Novanta, che le istituzioni e la burocrazia fossero una cosa morta, da cui le persone avrebbero dovuto essere liberate. Io ho cercato di sottoporre ad analisi, criticandola, quest’idea che la burocrazia sia destinata inevitabilmente a imprigionare le persone: non era così e non è così neanche oggi. Direi infatti che, per poter pensare alle condizioni in cui vivono e in cui potrebbero vivere, gli individui hanno bisogno di strutture sociali. Altrimenti avviene quel che abbiamo visto accadere con l’ascesa e la caduta dei mercati finanziari: un mercato non strutturato, basato sulla mera competitività tra individui, segue inevitabilmente le regole dell’irrazionalità, che producono comportamenti reciprocamente distruttivi, dai quali escono tutti perdenti.
In una struttura più burocratica, all’interno della quale le persone sanno quel che ci si aspetta che facciano e in cui le regole sono negoziate ed «equilibrate» attraverso il coinvolgimento di un ampio numero di persone, si possono ottenere invece comportamenti più razionali nell’organizzazione generale; piuttosto che il caos, si daranno limitazioni e permessi, attraverso il lavoro con gli altri potrà essere realizzato un network di conoscenze, si potrà attingere a serbatoi di risorse diverse, dando vita a nuove forme di collaborazione. Certo, la burocrazia può diventare rigida, ma basta riflettere sull’assetto burocratico dei paesi scandinavi per accorgerci che quel pericolo può essere evitato orientando diversamente le strutture. Nel caso scandinavo, infatti, servono a strutturare l’esperienza, non sono un dominio che garantisce il mantenimento dei privilegi.
Lei ha sempre prestato molta attenzione a quella che definisce come «libertà narrativa», la capacità cioè dei singoli di modellare e interpretare attivamente la propria esperienza, di riconoscere un continuum biografico. Perché ritiene che l’organizzazione del lavoro nelle economie capitalistiche ostacoli l’esercizio di questa libertà?
Con le mie ricerche, penso per esempio a quelle confluite in Rispetto, ho verificato che l’organizzazione del lavoro del capitalismo flessibile rende difficile pensare strategicamente in una prospettiva temporale di lungo termine. Per i lavoratori «flessibili», la maggiore sofferenza sembra essere legata proprio alla difficoltà di dare forma a una narrazione strategicamente orientata, di definire una storia, di riconoscere una «trama» nelle cose che fanno così come di individuare un obiettivo riconoscibile da raggiungere. È una sofferenza perché quando non abbiamo obiettivi a lungo termine, quando non sappiamo cosa dovremmo e potremmo fare, diventiamo estremamente vulnerabili nei confronti dell’urgenza del momento e degli altri.
Questo ci riporta a quello che dicevamo poco fa, perché la burocrazia potrebbe aiutarci nella ricerca di un senso da attribuire alle nostre narrazioni. Potrebbe offrirci delle coordinate per rendere più trasparente ai nostri occhi ciò che vogliamo, ciò che possiamo ottenere, la «lontananza» verso cui orientare i nostri sforzi. D’altronde ciò vale anche per le imprese, che potrebbero ottenere livelli di produttività più alti se solo sapessero opportunamente orientare la propria burocrazia.
La vita urbana è un altro dei suoi interessi più evidenti, e in un saggio ha sostenuto che il capitalismo flessibile ha sulla città precisamente gli stessi effetti che produce nei luoghi di lavoro. Ci può spiegare meglio cosa intende?
L’influenza del capitalismo flessibile sulla città si traduce nell’aumento della segregazione, della differenziazione, nella tendenza alla iper-semplificazione. In queste condizioni i cittadini trovano estremamente complicato comprendere quali siano le cose su cui si deve negoziare nel contatto quotidiano e nelle esperienze con gli «stranieri». L’ambigua complessità che si crea nelle forma urbane di vita sociale fa inoltre diminuire il coinvolgimento reciproco e l’interesse per l’ambiente circostante.
Mi sono interrogato spesso sui modi attraverso i quali è possibile evitare tutto ciò, su come contrastare questa tendenza alla «purificazione», alla segregazione. La pianificazione urbanistica potrebbe essere uno strumento. Ma questo è un altro discorso.
[da Il manifesto, 17 gennaio 2009]