philosophy and social criticism

La terza lingua del traduttore

Marco Dotti

Hilaire Belloc, Sulla traduzione, a cura di Elena Olivari, Morcelliana, Brescia 2009.

Dopo avere avere anche solo consultato uno dei tanti manuali sull’etica, la tecnica, la storia o la pratica del tradurre, a quale annoiato professore in pensione o studente in cerca di improbabile lavoro passerebbe mai per la testa, anche solo per sfida o per divertimento, di rivolgersi ex abrupto a uno degli innumerevoli “classici” che non trovano ospitalità nei cataloghi delle “patrie” edizioni e azzardare una personalissima e ovviamente perfettibilissima versione? Troppe le difficoltà e le insidie, troppi i presupposti filosofici, come troppe le conseguenze “filologiche”: errori, refusi, sviste o semplice ingnoranza sono sempre dietro l’angolo, per la gioia di chi critica e legge, ma di mettersi in gioco e tradurre non ci pensa proprio.

Hilaire Belloc

Hilaire Belloc

Strano, perché nell’epoca del digital divide, oltre alle nuove, persistono vecchie barriere che condizionano una ricezione tardiva se non nulla di autori e libri di importanza non secondaria nel panorama culturale europeo.

Inoltre, una traduzione diffusa, praticata dal basso in termini di autotutela del lettore, potrebbe esercitare benefici effetti sia sulla sprovincializzazione delle letture, che in termini di pressione sulle decisioni dei direttori editoriali. Ammesso che i direttori editoriali, dove ci sono e dove sono tali, dopo aver tentato di svendersi anche l’inverosimile, abbiano conservato un minimo di rispetto per i lettori, bestie strane e un po’ masochiste che pensano che i libri siano tante cose, ma non una merce fra le tante. Di certo, va dato atto alla casa editrice Morcelliana di muoversi in tutt’altra direzione. Prova ne sia questo delizioso trattatello, scritto a margine di una conferenza tenuta a Oxford nel 1930 da Hilaire Belloc, e inserito nella deliziosa serie del “Pellicano rosso” curata da Paolo De Benedetti. Polemista di gran classe, scrittore e lettore onnivoro, cattolico liberale e intransigente, già nei primi anni del ‘900 Belloc si era legato in profonda amicizia con Chesterton. Ironizzando sulla loro unione intellettuale, G. B. Shaw coniò il termine, tuttora in voga tra i critici, di “Chesterbelloc”. Il saggio sulla traduzione, presentato per la prima volta in edizione italiana, racchiude il meglio, per stile e lucidità, della scrittura dell’autore, senza le deviazioni – tipiche di altri suoi scritti – sul terreno per alcuni spinoso di un’adesione forse troppo incondizionata a una presunta matrice cattolica dello “spirito europeo” (così, almeno, recita il titolo di un suo noto lavoro del ’27: L’anima cattolica dell’Europa). Belloc non era un teorico della traduzione, ma un traduttore “in proprio”, e così nella sua lecture affianca alla considerazione storico-critica, alcuni interessanti spunti pratici sul mestiere. Non manca di lamentarsi, per la crescita di traduzioni giornalistiche: ma questo è un luogo comune a altri scrittori di inizio secolo, e comunque non è il punto chiave della sua stimolante riflessione. Il traduttore, nella sua visione, non può che essere una coautore al quale necessitano conoscenze specifiche delle lingue di arrivo e di partenza, ma al quale non può né deve difettare una dimensione terza: quella della «lingua ombra». Il traduttore, infatti, deve possedere una terza lingua, «fantasma di una lingua composita, un idioma misterioso che combina le due e agisce come un ponte». Servendosi di quel ponte, il traduttore-coautore ha il compito di fare rinascere «una cosa straniera in un corpo nativo, dandogli carne e ossa», sfidando quello che a Belloc appare il vero problema del suo, e forse anche del nostro tempo: il commercio. «Dobbiamo pagare meglio la traduzione e dobbiamo apprezzarla di più», conclude Belloc, o dovremo presto «pagare la penalità di un ulteriore isolamento e di un’ulteriore autosufficienza, alla fine della quale c’è la morte della nostra cultura».

[da il manifesto, 3 dicembre 2009]

ISSN:2037-0857

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