philosophy and social criticism

4. Sulla critica (e sulla crisi) delle avanguardie storiche

Alessandro Simoncini

Fin dagli anni ’30, nella temperie della crisi economica provocata dal grande crollo di Wall Street, le avanguardie artistiche – che avevano evocato una possibile e radicale contestazione degli assetti materiali, estetici e simbolici del sistema capitalista – subirono dure critiche. Da una parte si ebbero critiche “progressiste”, che le accusavano di aver partorito un discorso elevato e di essere sostanzialmente incapaci di rivolgersi realmente alle masse; da un’altra parte giunsero le critiche reazionarie e conservatrici che rappresentavano i risultati estetici delle avanguardie come una perversione del gusto corresponsabile del disordine sociale. Un clima generalizzato di anti-intellettualismo richiamava al buon senso del sano realismo e ad un atteggiamento più pragmatico, meno sognatore. Ma, ben più che le critiche, con le loro retoriche poterono la propaganda (nei regimi totalitari) e le tecniche pubblicitarie (nelle liberal-democrazie). Entrambe – propaganda e pubblicità – si sarebbero imposte con la durezza dei fatti, come pratiche di potere-sapere capaci di affermare progressivamente la propria egemonia sui dispositivi della comunicazione di massa. Spesso ciò avvenne proprio a partire dal recupero delle logiche e delle intuizioni avanguardistiche entro l’alveo funzionale di un ordine del discorso finalizzato al successo degli stati e del capitale. Non per questo, però, l’arte di avanguardia cessò di esercitare una sua peculiare tipologia della critica sociale.

Una nuova stagione del dadaismo diede infatti forma pratica al tentativo di realizzare materialmente quella “politicizzazione dell’arte” di cui avrebbe successivamente parlato Walter Benjamin[152]. Il secondo dadaismo si occupò di criticare i regimi e il modo spettacolare in cui questi avevano prima conquistato e poi consolidato il consenso, seducendo e nazionalizzando le masse pur senza conceder loro alcun tipo di partecipazione reale alla vita politica. Non lo fecero solamente attraverso la rimessa in gioco di linguaggi figurativi, ma soprattutto grazie alle regole del foto-montaggio e dell’accostamento-montaggio. Contro la logica del realismo corrente, populista e spicciolo, ciò avveniva nel tentativo di giungere ad un discorso artistico in grado di parlare ad un pubblico più ampio, come mostrava l’opera del 1932 Adolf il superuomo ingoia oro e vomita sciocchezze di John Heartfield. Heartfield avrebbe poi tentato di riprodurre senza posa lo stesso gesto dirompente, utilizzando proprio gli strumenti della grafica pubblicitaria e componendo molti inserti pubblicitari e copertine di riviste, come quelle di AIZ, Arbeiter-Illustrierte-Zeitung (Giornale Illustrato dei Lavoratori).

Come ha opportunamente osservato Elio Grazioli, il suo intento era quello di produrre qualcosa di simile ad una prassi marxista dell’arte in cui la “mano” dell’autore potesse dissolversi nella pratica del fotomontaggio e identificarsi – consapevole dell’origine comune delle sue idee – “con il suo destinatario collettivo, il proletariato”[153]. Un ethos estetico, questo, ben ricostruito dalle parole di Erwin Piscator, che ha descritto così l’atmosfera politica vissuta negli ambienti Dada dopo la sconfitta della insurrezione spartachista: “si discuteva all’infinito di arte, ma sempre e solo in rapporto con la politica. Tutti compresi dei ricordi che avevamo dietro di noi, delusi nelle nostre speranze, nella vita, vedevamo la salvezza del mondo solo nell’estrema conseguenza: lotta organizzata del proletariato, conquista del potere. Dittatura. Rivoluzione mondiale”[154]. È in una simile temperie che il fotomontaggio si afferma come la tecnica e la pratica artistica più adeguata alla critica radicale dei regimi. In Spagna, ad esempio, il grafico Josep Renau lo impiegò prima durante la guerra civile e poi contro il franchismo. Per lui “il grafico è l’artista della libertà disciplinata, della libertà condizionata dalle esigenze obiettive, vale a dire, superiori alla sua volontà individuale”[155]. Il ruolo del grafico – continuava Renau – andava assolto con tutta la dedizione e la dignità richieste dal pieno esercizio di “una missione sociale e storicamente necessaria”[156].

Nel laboratorio delle “democrazie” capitaliste, invece, prendeva forma la sussunzione del ruolo critico delle avanguardie e del modernismo: la loro rivendicazione di libertà e di nuova vita veniva progressivamente recuperata dalla sapienza dei dispositivi di potere-sapere . Con difficoltà, in questi anni, gli artisti di avanguardia saranno capaci di collocarsi in una posizione chiaramente oppositiva nei confronti delle liberal-democrazie. Tutt’al più praticheranno quella che Meyer Schapiro nel suo The nature of abstract art (1937) avrebbe poi definito una “critica implicita”[157]: una forma di contestazione del reale, cioè, in grado di diagnosticare le condizioni della soggettività nel moderno e di alzare il velo su “un mondo le cui forme sono in perpetua trasformazione e dipendenti dalla posizione dello spettatore”[158]. Nel 1939, sarà Clement Greenberg a mostrare come le pressioni economiche dell’industria e della cultura di massa avessero ormai svilito l’arte, imitandola, e riducendola a forma di merce che può essere riprodotta, ripetuta e venduta in grande quantità. In questo senso – osservava Greenberg – l’arte veniva riconfigurata come un complesso di oggetti industrial-culturali stereotipati e privi di senso; e il suo successo si fondava proprio sul fatto che ogni scoperta artistica poteva essere tendenzialmente riconvertita al  fine di ricavarne profitto[159]. È ciò che avveniva realmente nell’opera di grafici come Mehemed Fehmy Agha, Alexey Brodovich, William Burtin, Antonio Buggeri, Giovanni Pintori – che misero la sperimentazione artistica al servizio di Fortune, Vanity Fair, Olivetti, etc.[160] – o in artisti come Joseph Cornell, che nelle sue opere citava ormai la pubblicità senza più alcun gesto critico, anticipando così l’estetica postmoderna[161].

A tutto ciò le avanguardie hanno fornito due risposte diametralmente opposte. Come è stato correttamente sostenuto da Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, da una parte hanno cercato di “portare alle estreme conseguenze la critica della dipendenza dell’arte dal mondo borghese”[162]. Ma lo hanno fatto scoprendo che “il mercato non ha pregiudizi”, ed adattandosi al fatto “che il mondo borghese non aveva alcun problema ad accettare le loro idee rivoluzionarie purché rimanessero artistiche, e cioè valorizzabili nel mercato dell’arte”[163]. Dall’atra parte, come ha osservato Greenberg, alcuni eredi delle avanguardie storiche hanno pur sempre continuato a cercare una via di sottrazione alla presa del capitale: fuga e cattura costituiscono il gioco a cui è obbligata una creatività artistica ormai costretta a praticare sempre nuove linee di smarcamento dal dispositivo dell’industria culturale, che la bracca sussumendone la ricchezza e limitandone gli spazi di libertà.

Seguendo caoticamente le linee di questa dinamica obbligata, in anni successivi per Greenberg la fuga dell’avanguardia giungerà fino a trovare riparo nell’astrattismo più radicale, nell’Action Painting e nell’espressionismo astratto, in una parola in un elitismo coatto ed intrinsecamente autoreferenziale[164]. Si tratta però di un’autoreferenzialità che, se da un lato conduce fatalmente a perdere la partita benjaminiana della “politicizzazione dell’arte” – a causa dell’incapacità di produrre un modo di comunicare con le masse differente da quello praticato dai media egemoni -, dall’altro resta intimamente segnata da un residuo desiderio di libertà dalla società della merce: un desiderio eccedente permanente. O, se si vuole, un “elemento sfuggente” che in alcuni felici casi permette ancora oggi di poter considerare certe aree dell’arte contemporanea come un terreno di resistenza. Esse si oppongono, infatti, a quegli apparati di cattura che, come accade nei dispositivi mitologici della cultura di massa, fanno dell’immaginazione e dell’intelligenza collettiva il primo motore della valorizzazione del capitale[165].

 



[152] W. Benjamin, L’opera d’arte, cit..

[153] E. Grazioli, Arte e Pubblicità,  cit., pp. 105-106.

[154] E. Piscator, Il teatro politico, Torino, Einaudi, 2002, cit. in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, cit., p. 169.

[156] Ibidem.

[157] Cfr. M. Schapiro, The nature of abstract art, in “Marxist Quarterly”, 1, 1937, pp. 78-97.

[158] E. Grazioli, Arte e Pubblicità, cit., p. 112.

[159] Cfr. C. Greenberg, Avanguardia e kitsch, in Id., Arte e cultura, Torino, Allemandi, 1991, pp. 17-31.

[160] Sul tema, cfr. R. Roger Remington, Barbara J. Hodik, Nine Pioneers in American Graphic Design, Cambridge, Mass. The MIT Press, 1989

[161] R. Krauss, E. Grazioli, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Milano, Bruno Mondadori, 1998 pp. 137 e ss.

[162] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, p. 140.

[163] Ivi, p. 141.

[164] Cfr. C. Greenberg Art and culturecritical essays, Boston, Beacon Press, 1961.

[165] Sul tema, cfr. A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, cit.; A. Abruzzese, D. Borrelli, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Roma, Carocci, 2000; E. Morin, Lo spirito del tempo, Milano, Meltemi, 2006; T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1966.