philosophy and social criticism

Eccessi omeopatici

Marco Dotti

Massimo Carboni, Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi, Roma 2009.

zzzzzzzzzzzzzzL’eccesso non è, banalmente, il «di troppo» nel contenuto di una relazione tra una parte e il suo tutto, ma il modo preciso di presentarsi di una «totalità». Altrimenti detto, l’eccesso è una forma di dismisura che, ovunque e comunque la si guardi, può persino diventare organica a ciò che gli individui e le loro comunità ritengono «giusto», «equo», «calibrato», trasformandosi così nell’impercettibile movimento fisiologico capace di indurre silenziose autoimmunità. È per questa ragione che, in apertura del suo ultimo lavoro, Massimo Carboni suggerisce di distinguere, da un lato, tra «forme catastrofiche» e, dall’altro, «forme omeopatiche» di eccesso. Sono le prime, paradossalmente, a rappresentare e a garantire al meglio la normalità, soprattutto se valutate in rapporto con il rinsaldarsi del legame sociale, dopo una violenta disarticolazione del corso “lineare” degli eventi. Le discontinuità catastrofiche (attentati, terremoti, uragani e certe guerre, nella loro carica di “eventi radicali”), rendendo la dismisura talmente visibile che «non si può non tornare al più presto a quella che viene ritenuta la misura», generano sì istinti di bassa sopravvivenza e egoismo, dallo sciacallaggio materiale a quello mediatico, ma sanno anche rigenerare la tendenza a far fronte comune dinanzi a un problema di proporzioni immani (eccessivo, appunto), smuovendo solidarietà inattese davanti al baratro e alla minaccia della morte collettiva e della potenziale estinzione. Vi è, però, un eccesso più insidioso e pervasivo, meno visibile, i cui sintomi sono silenziosi e inerti e non danno alcun allarme al corpo sociale.

A differenza di quello catastrofico, l’eccesso omeopatico non innesta infatti alcun confronto reale tra bene e male, non rinsalda legami e non invita a rientrare nella norma, semplicemente perché il limite varcato non viene percepito come tale. Su questa “omeopatia” dell’estremo, sulla sua onnipervasiva “totalità”, nulla normalizzante aberrazione politica e sociale di “qualcosa” che non fatica a inscriversi nei parametri abituali della nostra esperienza e del corso “naturale” delle cose, Carboni incentra la propria ricerca. Osservato da tale prospettiva, l’eccesso in questione è il vero fattore sovversivo delle dinamiche sociali, poiché – rimarca l’autore – «inocula a dosi omeopatiche e quasi impercettibili la dismisura nella realtà, rendendo la realtà stessa eccedente, dunque non più passibile di venire distinta tra una condizione omeostatica e una supererogatoria». Se l’eccesso di tipo catastrofico, esasperandola, mantiene pur sempre una dialettica tra le cose e il loro limite, quello di tipo omeopatico le lacera e le anestetizza al tempo stesso, disperdendo e stemperando tale dialettica nella più completa assuefazione. Tornano alla mente le parole di Hannah Arendt che, in una sua lettera del 1946 a Karl Jaspers, ricordava come tutto ciò che che realmente è «irreparabile si presenta spesso con i caratteri (illusori) di un mero accidente», tanto che, in bilico su una impercettibile linea di confine, gli uomini finiscono per varcarla «tranquillamente, fiduciosi che non ne verrà alcuna conseguenza», mentre in quel “fuori” si erge «una muraglia capace veramente di separare alcuni uomini da altri».

Anche in questo caso, il diavolo si nasconde nei dettagli: quanti avrebbero pensato a una “deriva” del sistema tedesco nel dicembre del ’32 – quando l’ascesa al potere di Adolf Hitler non era ancora una certezza, ma solo una possibilità – quando le macchine ministeriali decisero di avviare un iterburocratico riguardante i patronimici, che avrebbe poi costretto i cittadini di origine ebraica a scegliere un nome per i propri figli tra le liste onomastiche fittizie create dal giurista Hans Globke, apparentemente al solo fine “neutro” di non “mescolare” le ascendenze? Nonostante la fattiva collaborazione alle leggi più infami e caratterizzanti del regime, non ultima quella sul “sangue”, Hans Globke passò indenne tra le rovine del nazifascismo, riuscendo a mascherare i propri eccessi dietro la tranquillizzante maschera grigia del funzionario ligio al dovere, finendo poi per diventare segretario di Stato nella Repubblica Federale e collaborare con Adenauer, ricevendone in cambio i più alti onori. Al di là del caso di Globke e della sua indifferente e transpolitica efferatezza, il provvedimento sui patronimici è un esempio emblematico di eccesso omeopatico. Carboni, che nel suo bel lavoro ne analizza una lunga serie inquadrandoli in figure (figure della violenza, della pornografia, dello spettacolo) e indaga le logiche del limite che le presiedono, in rapporto al nazismo parla di un «eccesso ontologico». Il nazismo ha infatti realizzato una possibilità che non avrebbe mai dovuto realizzarsi, «come se avesse fatto ingresso nell’ordine dell’esistenza una dismisura che erode e poi devasta i parametri di ogni misurare, provocando uno squilibrio non più emendabile dell’ordine storico».

È il «di più di tutto» che dà il titolo al libro, qualcosa che coincide con l’irreparabile, l’irreconciliabile, ciò che non doveva accadere, ma è accaduto. Non fare i conti con questo «di più» e questa possibilità realizzata e quindi quotidianamente replicabile, autoimmunizzarsi, in fondo, è un altro modo cedere all’ipnosi generale che ancora crede all’irreparabile solo quando si presenta nelle forme iniziali della catastrofe. Fuori, intanto, le muraglie “naturalmente” crescono e continuano a separare «separare alcuni uomini da altri», nella più quieta, ma pur sempre eccessiva indifferenza.

[da il manifesto, 9 febbraio 2010]

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