Lanterne magiche
M. D.
Film “irrimediabialmente” tedesco per titolo, soggetto, ambientazione, produzione e persino per le vicissitudini burocratiche e esistenziali che portarono il regista lontano dalla “sua” Svezia, Das Schlangenei (L’uovo del serpente, 1977) di Ingmar Bergman non ha mai acceso la fantasia degli spettatori, dei critici e nemmeno dei suoi più accesi o sommessi detrattori.
Troppo virata al nero e alle tinte cupe la fotografia di Sven Nykvist, troppe le cripto-citazioni tardo espressioniste invertite di polarità e di segno (il cabaret Der Blaue Engel di von Sternberg diventa un più prosaico e grottesco “Asino azzurro”), troppo bassa almeno in apparenza l’ambizione di scavo psicologico dei (e all’interno dei) personaggi in scena. Irrimediabilmente poco borghesi le figure del circense Abel Rosenberg, di sua cognata Manuela e del medico protonazista Hans Vergerus, interpretati rispettivamente da David Carradine, Liv Ullman e Heinz Bennent. Uomini da niente (ma “Ler Riens” non era forse il nome di un altro trio circense, quello del Rito?) Troppo, o troppo poco per non sembrare un episodio malriuscito e in fin dei conti marginale nella complessa “filmografia” bergmaniana. Eppure proprio nella riscrittura della Berlino degli anni Venti, Bergman aveva rimesso in gioco tematiche, figure, addirittura scene già sperimentate, sotto un’altra luce nelle scene del Rito (1969) e in alcune riletture dello Strindberg più radicale o ancora tutte da sperimentare come nella tarda rielaborazione teatrale e cinematografica, firmata con Per Olov Enquist, del Carretto fantasma di Selma Lagerlöf e Victor Sjöström.
A Georges Sadoul, L’uovo del serpente sembrava una sorta di “film di fantascienza”, con tutti i pregi e soprattutto tutti difetti propri di ogni opera che si serva delle catastrofi del passato per prefigurare un disastro futuro. Eppure, benché nel contesto di una recensione non proprio benevola, la definizione di Sadoul coglie forse alcuni aspetti importanti della prima opera tedesca di Bergman. Nell’Uovo del serpente, infatti, Bergman si muove lungo due, forse tre piani utopici, anche se la cornice del film è nel segno di una completa distopia resa possibile proprio dal fallimento o dall’esaurimento di quei tre piani. Le “inimmaginabili forme di vita” che caratterizzano ogni spazio utopico – come dimostrato da un libro impegnativo e fondamentale in tal senso, Il desiderio chiamato utopia di Frederic Jameson (traduzione di Giancarlo Carlotti, Feltrinelli, Milano 2007) – nel “discorso” di Bergman vengono portate al loro grado zero. L’immagine dell’uovo del serpente è esattamente questo: guardando attraverso la sottile membrana è possibile cogliere il rettile già formato e completo di tutti i suoi organi. Una metafora, neppure troppo implicita, delle potenzialità della settima arte. Nella sua autobiografia La lanterna magica (traduzione di Fulvio Ferrari, Garzanti, Milano 1987), Bergman ripercorre la propria angoscia berlinese. “Nei miei sogni”, ricorda, “sono stato spesso a Berlino. Non nella Berlino reale, ma in una sua rappresentazione scenica: una città sconfinata, opprimente, con fuligginosi edifici monumentali, campanili e statue. Io vago nel traffico che scorre incessante, tutto è ignoto e al tempo familiare. Provo terrore e piacere e so benissimo dove sono diretto: sto cercando il quartiere al di là dei ponti, quella parte della città dove accadrà qualcosa. Per tre volte ho cercato di ricreare la città del mio sogno. La prima volta scrissi un radiodramma intitolato La città. Parlava di una metropoli in decadenza, con case che crollavano e strade minate. Alcuni anni più tardi feci Il silenzio, in cui due sorelle e un bambino capitano in una enorme città in guerra dove si parla una lingua incomprensibile.Per l’ultima volta ripetei il tentativo con L’uovo del serpente”. Bergman imputava il “fallimento artistico” del film al fatto di “avere chiamato Berlino quella città e di avere fissato il tempo al 1920”. Lo spazio utopico sarebbe stato completo se “avessi ricreato la Città del mio sogno, la città che non esiste eppure si manifesta con i suoi contorni”, mentre nell’Uovo del serpente “sono penetrato in un Berlino che nessuno ha riconosciuto, nemmeno io”. Solo attraverso l’esaurimento di ogni funzione umana e vitale, solo fiaccando ogni risorsa e ogni progetto sembra possibile l’edificazione di una società nuova, basata su un patto sadico e faustiano con le scienze moderne, più che su un ingenuo progresso.
Ambientato nelle settimane o nei mesi che precedono il fallito putsch di Hitler – tra l’otto e il nove novembre del 1923 – l’Uovo del serpente potrebbe benissimo aprirsi nel ’33 o nel ’29, nel giorno stesso della ratifica del Trattato di Versailles o in quello dell’altro colpo di Stato tentato nel 1920 dal giornalista controrivoluzionario Wolfgang Kapp. Più che su un preciso dato storico è sull’atmosfera di generale pervertimento, infatti, che lavora Bergman. La temporalità dell’Uovo del serpente è incerta e sfasata non tanto nei ritmi della regia, ma in quanto inevitabilmente legata ai “tempi della crisi” e della recessione e segnata dai più radicali tra i “principi” che dissolvono le normali correlazioni e nessi di causa e effetto: la paura, il panico, l’angoscia, il terrore. Rispetto al Bergman più “intimista”, qui la paura è generata dal passaggio tra interno ed esterno, è socializzata fino dalla scena che apre il film: un’inquadratura sul volto anonimo di una folla (e non sul singolo) che cammina, con gli sguardi bassi piegati dal bisogno e dalla paura. La prima utopia dissolta, già nella scena con cui si apre il film, è quella della Repubblica di Weimar: i marchi oramai svalutati vengono scambiati a peso, e non in base al loro valore nominale, la gente vaga senza meta, il cabaret è visto dalle istituzioni – formali e informali – come fenomeno di generale corruzione dei costumi e gli artisti sono guardati con diffidenza e sospetto. Espulsi dai locali, costretti a mendicare o prostituirsi, e presi a bastonate dagli squadroni neri che cominciano ad aggirarsi per il paese. È in questo contesto e in questa città di rovine che Abel Rosenberg, artista circense senza un soldo, vaga senza meta. Costretto ad accettare un lavoro da impiegato che lo costringe alla staticità dell’archivio, Rosenberg si accorgerà presto di essere finito al centro di un esperimento folle. La casa in cui ha trovato ospitalità, assieme alla moglie di suo fratello, è infatti confinante con la clinica di Vergerus, dove Rosenberg lavora. Spiati e osservati ventiquattrore su ventiquattro da Vergerus, i rapporti tra Abel e Manuela vengono a poco a poco spinti oltre il limite della crisi. Si tratta, ovviamente, di una crisi indotta, come confesserà il pavloviano Vergerus poco prima di morire ingerendo cianuro. Anche quella di Vergerus è un’utopia (o un incubo, se la si prende a rovescio) destinato a esaurirsi. Quella che si preannuncia dalle parole di Vergerus appare infatti come una catastrofe “minore”. Ma oramai, afferma, la “tempesta psichica” è iniziata e non ci sarà modo di fermarla, anche se a cavalcarla sarà una persona priva di tutti gli attributi e delle qualità vagheggiate e vaneggiate da Vergerus. Sul tipo-Hitler – prefigurato e sfigurato da Vergerus – sembrano qui riecheggiare alcune considerazioni di Carl Gustav Jung che, nel ’36, lo riteneva “ di per sé, in quanto comune mortale”, come “semplice essere umano” del tutto “inoffensivo e modesto”. Il problema, suggeriva Jung, è che “proviene da Braunau, una cittadina che ha già dato i suoi natali a due famosi medium è probabile che lui sia il terzo. Quando lo spirito dello Stato parla per bocca sua, emette una parola così potente da spazzare via, come foglie d’autunno, intere folle di milioni persone”.
L’idea di Jung, almeno nel 1936, è che si assista a un ritorno di Wotan, più che a una deriva diosiaca del potere. In un articolo coevo dedicato proprio all’antico dio germanico Jung sosteneva che, dimenticando per un attimo il tempo storico, Wotan rappresentasse un ottima “ipotesi causale”, per comprendere le “forze psichiche” che si stavano scatenando in Germania. Wotan, osservava Jung, è “qualcuno che afferra”, che possiede gli uomini usandoli come fossero simulacri vuoti, un dio che magnetizza e anima l’inanimato. A scatenare, inconsapevolmente, le forze di questa divinità panica sarebbero stati (semplificando, e sempre secondo lo psicoanalista svizzero), i movimenti dei giovani che all’inizio del Ventesimo secolo “armati di zaino e chitarra si vedevano aggirarsi instancabili su tutte le strade d’Europa, da Capo Nord alla Sicilia”. Verso la fine della Repubblica di Weimar, furono ancora questi giovani, animatori delle prime comuni, a darsi al vagabondaggio nella “forma della disoccupazione”. Nel ’33, però, “non si girovagava più”, ma si marciava. L’opera di possessione – non è singolare che il medico bergmaniano porti il nome di Vergerus, nome che anche altrove il maestro svedese ha attribuito a magnetizzatori e seguaci di Franz Anton Mesmer – sembrava completa. Anche di questo, non solo di questo, ogni lanterna magica offre testimonianza e prova.
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