Una folla dispersa nella città indistinta
di Primo Moroni
Tutto cominciò a Milano nel lontano 1979, con l’occupazione di un intero stabile in corso Lodi. Un vecchio stabile di Porta Romana, vale a dire in uno dei tre grandi quartieri storici e popolari (insieme al Garibaldi e al Ticinese-Genova) della zona sud milanese, che segnava l’inizio, o meglio, che rendeva visibile concretamente la presenza degli immigrati extracomunitari nella metropoli ambrosiana che stava vivendo la fase terminale della sua fisionomia fondista.
Gli occupanti – per la maggioranza eritrei – erano arrivati a quel vecchio stabile attraverso una complessa mediazione-consulenza politica condotta da segmenti residui dei movimenti politici degli anni ’70. Quello stabile infatti avrebbe dovuto ospitare l’ambizioso progetto di un giornale quotidiano del Movimento Lavoratori per il Socialismo (sostanzialmente l’ex Movimento Studentesco della Statale) e in questo senso – anche se il progettato «quotidiano» non ebbe seguito – godeva, nel clima cupo e arroventato di quel periodo, di una specie di extraterritorialità sancita dalla «moderata disattenzione» delle istituzioni. Di «politico» rimase nel vecchio edificio un Centro Sociale di orientamento bordighista (Partito Comunista Internazionalista) a piano terreno verso strada. Si può effettivamente affermare che gli immigrati extracomunitari usufruirono – a partire dall’episodio di corso Lodi – degli spazi di conflittualità messi in opera dai movimenti extraparlamentari degli anni’70. Così sarebbe stato per la successiva occupazione di Via Maggi (all’Arena) e per quella di Piazzale Dateo che nel mix sociale di immigrati di varie etnie e di nuovi soggetti marginali metropolitani sarebbero durate fino al 1987/88. Occupazioni per larga parte «vincenti» nel senso che si risolsero con l’assegnazione di alloggi comunali alla maggioranza degli occupanti.
Ma questi esiti positivi non erano certamente il prodotto e il risultato della cosiddetta «pratica delle occupazioni» o, perlomeno, non solo l’esito di questa azione politica; in realtà per i primi anni ’80 continuò a funzionare una rete sociale, una cultura diffusa che si era stratificata nei precedenti vent’anni. Una pratica sociale che partendo dai movimenti collettivi metropolitani si inseriva pervasivamente nelle pieghe delle regole istituzionali attraverso il veicolo della struttura sindacale. Una pratica definibile come di «democrazia trasgressiva» i cui obiettivi più evidenti si sostanziavano nel conflitto sociale come motore della modifica delle leggi e dell’acquisizione di diritti attraverso i quali trasformare gli esclusi in cittadini.
In questo senso l’occupazione di corso Lodi si trasformo in una vera e propria «vertenza casa» promossa dalla comunità eritrea e sostenuta dal sindacato. Strumento vincente di queste prime occupazioni la legge che consente ai comuni di attingere fino al 25% del patrimonio di edilizia pubblica per «motivi di ordine pubblico». Gli «abitanti dei sobborghi della storia, commensali non invitati, entrati dalla porta di servizio dell’Occidente…» di cui parla il Nobel Octavio Paz poterono ottenere qualche piccolo vantaggio dall’essere diventati un «problema di ordine pubblico» e dal poter usufruire di un sapere sociale diffuso in grado di rapportarsi creativamente alle istituzioni.
Da quella vertenza uscirono 763 appartamenti che l’assessorato all’edilizia popolare concesse in varie zone della città non già per «disperdere» sul territorio i nuovi arrivati con l’obiettivo di limitare l’allarme sociale; ma perché alla gran parte di questo primo contingente di tutti i sud del mondo vennero assegnati quegli appartamenti che -per lo stato di degrado- non venivano accettati dai cittadini normali.
MODERNITÀ DI SCARTO
Sostanzialmente l’immigrato – nonostante gli indubbi vantaggi di avere un abitazione – si trovò ad usufruire degli «scarti della modernità» così come poco più tardi avrebbe potuto usufruire di impieghi nel terziario arretrato o nelle fasce dequalificate dei lavoratori industriali. Nel tempo la figura dell’immigrato come fruitore della junk-modernity metropolitana sarebbe diventata clamorosamente visibile attraverso i vari insediamenti abusivi in cascine agricole abbandonate, in contenitori industriali dismessi, in auto abbandonate o viceversa nei containers dei Centri di Prima Accoglienza comunali.
Si può parlare in questo senso di una tendenza generale metropolitana, di una cultura sociale diffusa che attraverso diversificate tonalità emotive e diverse risposte locali (nei quartieri) o istituzionali si muove con l’apparente obiettivo di ridurre l’eccessiva visibilità dei soggetti migranti.
Questa tendenza diventa evidente se si osserva l’attuale mappatura degli insediamenti extracomunitari a Milano (vedi cartina Numero 1) da dove è agevole constatare che sia le presenze abusive che quelle autorizzate sono per la gran parte concentrate nelle zone periferiche nord-est e sud-est. Vale a dire nelle zone dove più forte è stato il processo traumatico di deindustrializzazione (zone 10, 12, 13, 14) e dove però – nel contempo – forte è l’attesa locale di partecipare ai processi complessivi di modernizzazione della metropoli milanese.1 Volendo dire con questo che a loro volta gli abitanti di queste zone cittadine – ed ognuna di queste zone in modo diverso – vivono la condizione tra l’essere diventati momentaneamente «modernità di scarto» e l’attesa-diritto di tornare ad essere inseriti nei processi complessivi.2
Ma gli immigrati sono arrivati – sia «spontaneamente» che per decisioni amministrative – in questi segmenti di città attraverso un processo lungo di decentramento sociale che ha visto le loro soggettività scontrarsi con le culture sociali metropolitane in una fase di profonde trasformazioni dei rapporti economici e di status degli attori sociali milanesi.
In questo senso l’arrivo dei lavoratori extracomunitari nelle aree industriali metropolitane del nord presenta delle caratteristiche di originalità proprio perché coincide -forse per la prima volta in Europa – con il passaggio dalla fase della produzione rigida fordista a quella delle tecnologie flessibili.3 A ciò si può aggiungere che per i primi anni (79187) la loro presenza è stata priva di qualsiasi forma di regolamentazione innescando risposte di rifiuto ed esclusione connesse anche a queste carenze.4 Rendendo cioè materialmente evidente il dato della riflessione teorica quando afferma che «l’ostilità verso un gruppo di stranieri è tanto più produttiva quanto meno sono definite le istituzioni che regolano i rapporti fra i gruppi» (Guido Ortona). In una prima fase quindi gli immigrati si aggirarono per la città in cerca di luoghi, apparentemente privi di diritti e in parte favoriti dall’iniziale esiguità numerica unitamente ad un bagaglio di politicità che si portavano appresso dai luoghi di provenienza (tale era la lettura che si poteva fare degli iraniani, degli eritrei, dei palestinesi e dei «bianchi» dell’America Latina). Una «politicità» che consentiva investimenti residui ai segmenti dei movimenti sociali degli anni ’70 e che contribuiva alla mitica e annuale «extrafesta» di Radio Popolare al Palatrussardi. Da questa lettura rimanevano sostanzialmente esclusi gli egiziani – che cominciavano ad essere numerosi – ma nel loro caso può valere la riflessione di molti dei proprietari dei «locali del loisir» serale milanese : «questi qui oltre che in cucina possiamo farli servire anche ai tavoli, tanto sembrano calabresi…».
LE IDENTITÀ TRA PASSATO E PRESENTE
Tra sovraccarico simbolico di «politicità» e frammenti persistenti di «terzomondismo» i primi anni ’80 videro una società civile milanese sospesa tra accoglienza e diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati. Trovarono accoglienza nelle occupazioni, nei centri sociali, nelle 150 ore e nei corsi di alfabetizzazione oramai sprovvisti di operai e con carenza di casalinghe. La partecipazione di decine di migliaia di persone alle «extrafeste» era anche la sintesi di queste aree dell’accoglienza. Una disponibilità che era anche il prolungamento della propria identità precedente che poteva trasferire il folk politico italiano nella World-Music di Manu Dibango o nei ritmi di Fela Kuti, poligamo e perseguitato. Una minoranza dei figli della «grande madre» Africa ritenne di avere le risorse di enterteniment per trarre profitto ed inserimento da questa disponibilità e così nacquero i ristoranti africani nella casbah di Porta Venezia e il mitico Zimba al Gratosoglio sulle ceneri di una vecchia cooperativa comunista. Ci fu persino qualche giornale che scrisse che la dimostrazione dell’avvenuto inserimento dell’immigrato nella tradizionale cultura dell’accoglienza della Milano «con il cuore in mano» era dimostrabile proprio a partire da questi locali che erano il segno del tendenziale formarsi di una borghesia nera. Del resto come non pensarlo – come dichiarò il direttore di una grande agenzia turistica – in una città che al primo posto come consumo di viaggi verso rotte asiatiche o africane?
Questo mito del turismo che avvicinerebbe le etnie è del resto uno dei falsi più consistenti del regno di Stereotipia così come è indotto dalla evocazione turistica di paesaggi praticata dai dépliant o dalla pubblicità televisiva.5 L’apparente multi-etnicità che dovrebbe essere il risultato del turismo esotico di massa è in realtà una simulazione tranquillizzante della propria paura dell’altro, di tutti gli altri possibili. La pubblicità turistica o dei prodotti televisivi che lavora per target di riferimento ne è perfettamente cosciente e svolge quindi il suo compito consumistico e tranquillizzante. Gli stereotipi ci sono tutti e sono validi per la sinistra o per i ceti emergenti. Si avranno quindi i bronzei barbudos che sudano nella «zafra» come il sale della terra che marcia verso il socialismo, le fanciulle thailandesi che «non c’è dubbio hanno un altro rapporto con il corpo» come del resto le nere non possono che essere morbide e intriganti come le caramelle «morositas». Il turismo esotico permette in realtà di visitare il mondo degli altri, quello dei commensali esclusi, senza essere toccati dalla loro reale diversità, anestetizza attraverso gli stereotipi.
Questo si era portati a pensare ascoltando il molto milanese e mazziniano presidente della zona 11 (quartiere di eccellenza per processo storico e per convinzione dei suoi abitanti) il quale ragionando con democratico rammarico sulla vicenda di Cascina Rosa – 500 magrebini occupanti per la gran parte islamici – ci consigliava con la sua esperienza di turista multietnico: «Guardi il Marocco è un paese che amo, ci vado ogni anno, ho molti buoni amici, ma mi creda loro sono particolari, un popolo meraviglioso di mercanti, di venditori, basta andare nel suk per capirlo. Non sono adatti al nostro sistema industriale, alle nostre città. È un delitto farli venire qui al nord… magari giù al sud… forse si troverebbero meglio». Nella memoria attuale delle élites della zona 11 non c’è evidentemente traccia del 65% di moderni operai magrebini della parigina Peugeot. E poi i magrebini di Cascina Rosa non si trovano forse meglio nei containers della Lambrate operaia che non in una cascina fatiscente che opportunamente restaurata può diventare memoria locale e istituzione culturale?
Ma dall’occupazione di Corso Lodi e dallo Zimba a Cascina Rosa sembra passato molto tempo. La città si è mossa rapidamente ha trasformato le geometrie sociali e le appartenenze, ogni zona ha
rigorosamente riperimetrato attraverso confini simbolico-amministrativi le proprie fragili identità di appartenenza. Il centro storico rutilante di luci ricchezza e innovazione si è dilatato oltre le mura spagnole, ha toccato la cerchia detta delle regioni e avanza continuamente perdendo popolazione (300.000 in dieci anni) e aumentando le attività professionali. Gli immigrati si sono moltiplicati, la loro presenza è stata legiferata, le loro etnie sono decine e spesso non comunicanti tra di loro. Buona parte del sovraccarico di simbolica politicità iniziale è andato perduto (non invece il più consistente stereotipo turistico) per essere riportato al dato nudo del loro essere esclusivamente forza lavoro necessaria o superflua e con l’estensione dei diritti condizionata da questa funzione produttiva: transitoria, temporanea, in transito o strutturale?
UN LUNGO RITO INIZIATICO?
In mezzo c’è il lungo girovagare degli immigrati nel tentativo di darsi presenza, rappresentanza e reddito. Come tutti gli esclusi di tutte le periferie continuamente spingendosi verso il centro nevralgico della città: dai pakistani accampati per mesi nel parco delle basiliche ai «venditori di elefanti» di Paap Kouma nei mezzanini delle metropolitane; dall’esclusione decretata dai commercianti di Corso Buenos Aires e Vittorio Emanuele alla scoperta del contrabbando di sigarette così come i meridionali dei primi anni ’60 e di quelli condividendo l’esperienza delle pensioni sovraffollate senza però la prospettiva dei pur ghettizzanti villaggi Corea. Come allora a differenza di Torino non sono apparsi i cartelli «non si affitta a meridionali», «non si affitta ai neri». Tanto a Milano case in affitto non c’è ne sono.
A Milano d’altronde i percorsi dell’esclusione sono molto più soft e sofisticati che altrove, ma sopratutto -se la tradizione precedente non viene smentita – non sono definitivi. L’inclusione avviene nel tempo attraverso il diventare soggetti produttivi. La produttività nella cultura diffusa della metropoli lombarda equivale ai riti di iniziazione che segnano il passaggio da fanciullo selvaggio a guerriero adulto. Nonostante che la nuova classe mediana sia più rozza della precedente non v’è dubbio che ha mantenuto intatta – magari ampliandola – questa cultura inconscia del prezzo da pagare per essere accettati nella società locale: cerca di essere produttivo, discreto, sopratutto non chiedere troppo e vedrai che prima o dopo farai parte della nostra comunità. Magari in una posizione un po’ laterale ma sostanzialmente cittadino.6 L’alternativa – valida solo per quantità di popolazione molto modeste – è essere ruolizzato nello stereotipo turistico : i toscani che fanno le trattorie, i piemontesi e i pugliesi che fanno le osterie (i «trani» o le «crote»), i veneti «che sono gran lavoratori», molti altri che sono semplicemente «mafiosi». E i neri? Per loro potrebbe essere valido quanto sentito fino alla nausea al mitico Zimba del Gratosoglio: «Avvocato (o Dottore, Ragioniere, ecc.) io questi li invidio, che magnifica razza, le donne poi…, hanno un altro senso del ritmo, della musica, qualità che noi abbiamo perso. Beh, ci prendiamo un altro “caipirihna”?»7
A mediare questa durezza di fondo esiste però nella metropoli milanese una lunga tradizione dell’accoglienza che è patrimonio storico della diocesi ambrosiana. Scomparse le grandi culture di appartenenza di matrice operaia, il ruolo della martiniana Curia Arcivescovile con le diffuse reti di solidarietà conferma, è vero, l’eclisse del sociale ma è anche il lievito del formarsi di un nuovo «agire solidale» che è contemporaneamente sintomo del disagio e della capacità di confrontarsi con i problemi della metropoli in trasformazione.
ARANCIA MECCANICA A S. LORENZO
In questo quadro gli episodi di violenta intolleranza razzista sono rari e circoscritti. Qualche bravata di skinhead che ritiene di avere finalmente trovato il nemico che gli mancava per avere la stessa identità dei suoi modelli inglesi, francesi e tedeschi. Qualche episodio più oscuro da decifrare. Fra gli altri esemplare l’aggressione notturna ai pakistani di piazza Vetra.
Una notte dell’inverno ’90 nei prati antistanti le armonie romaniche di S. Lorenzo. La maggior parte dei pakistani stanno già dormendo sotto i portici dell’esattoria comunale. Arrivano 4/5 automobili, ne scendono una ventina di persone, alcune con il volto coperto, armate di bastoni e di mazze da baseball e si avviano verso il misero accampamento. Li vede Gaber, il gigantesco buttafuori egiziano del Pois (un bar notturno molto «in» delle colonne di S. Lorenzo), e fa scattare l’allarme. Dai bar della zona accorrono decine di persone e gli aggressori vengono messi in fuga, inseguiti. Alcuni giorni dopo un bar di periferia della zona sud viene demolito in una rissa.
Gli aggressori venivano dalle grandi periferie. Non esercitavano quindi una pretesa egemonia territoriale e non è lecito pensare che fossero stati ingaggiati dagli inquilini dei superattici del parco delle basiliche.8 E’ più corretto ipotizzare un «azione dimostrativa» simile o ad imitazione di quella fiorentina del martedì grasso del 1990 (10). Una forma di concorrenza per il possesso simbolico del centro storico cittadino. Un episodio isolato e inquietante che riporta il discorso sulle zone periferiche dove maggiore è la presenza di insediamenti extracomunitari abusivi o autorizzati.
LE ESAUSTE PERIFERIE
Come abbiamo visto c’è stato nel corso degli anni ’80 un processo di decentramento territoriale degli extracomunitari. Le varie zone di eccellenza li hanno lentamente e inesorabilmente respinti oltre i propri confini. L’inesperienza e la pratica emergenziale dell’amministrazione comunale non potevano che essere constatazione notarile della tendenza.
Ma in queste zone periferiche l’arrivo degli extracomunitari ha generato proteste popolari molto vivaci e puntualmente «cavalcate» dalle pratiche leghiste. Ma le proteste non sono state omogenee o unificabili secondo una lettura univoca. Al contrario la diversificazione è stata per alcuni aspetti sorprendente. Si possono qui fare alcune riflessioni a partire dalla zona 13 (Mecenate-Forlanini). Nelle metafore correnti questa zona cittadina viene chiamata «Siberia nord-orientale» a significarne lo stato di isolamento. Costituita per la gran parte da stabili dello IACP è una delle due/tre zone della città che non perde popolazione ma che nel contempo «invecchia» come età media dei suoi abitanti (i giovani una volta adulti sono costretti ad andarsene per mancanza di abitazioni) ed invecchia anche perché non può avere ricambio di popolazione a causa (che è anche ovviamente un vantaggio) del suo essere una zona a gestione pubblica per ciò che concerne le abitazioni. Quartiere monoclasse e monoculturale quindi per definizione. La cultura sociale dei suoi abitanti non poteva che essere un mix abbastanza semplice di sentimento di esclusione e di neofondamentalismo localistico. La proposta comunale di installare una tendopoli in via Mecenate (ancorché effettivamente bizzarra) provocò risposte durissime divenendo anche coagulo di tutte le frustrazioni precedenti (abbiamo già l’inceneritore, l’aula bunker, i drogati) ma innescando anche reazioni xenofobe particolarmente rilevanti: paura dell’aumento della droga, della possibilità di malattie sconosciute, di un ulteriore disgregazione sociale, ecc..Stereotipi che peraltro erano stati ampiamente veicolati dai giornali quotidiani.9 Sicuramente in queste reazioni sono rintracciabili tutta una serie di tonalità emotive riferibili a una comunità socialmente impoverita e che si considera minacciata nel suo accesso alle risorse ma nel contempo minacciata nella sua identità per non essere stata consultata su di una decisione che comunque avrebbe apportato dei disagi. Anche in questo caso chiarificatrici ci sembrano le riflessioni di Guido Ortona quando afferma che:
1) L’ostilità di un gruppo sociale nei confronti di un altro è tanto maggiore quanto meno l’accesso alle risorse di un gruppo è garantito. o per meglio precisare:
2) Ceteris paribus, l’ostilità tra gruppi etnici è tanto maggiore quanto maggiore è la difficoltà per l’accesso al c. d. sistema di Welfare.
Nel caso della zona 13 queste problematiche sono state poi complessificate dalla composizione sociale della zona che è di tipo medio-basso o comunque impoverito. Non tanto per le condizioni economiche,.quanto per non essere interessante ai fini del «mercato politico» o comunque non in possesso del potere di mercato necessario a contrattare una modifica della propria condizione. La condizione di essere inquilini dello IACP in abitazioni carenti di manutenzione (lo IACP tenta continuamente di venderle agli inquilini) , in una zona carente di servizi, di collegamenti e con un alta percentuale di pensionati. L’arrivo degli extracomunitari non poteva che rendere più evidente e materialmente visibile questa condizione.. L’arrivo di un nemico facilmente individuabile e per di più imposto da un potere politico-amministrativo lontano e nemico (nei confronti del quale non c’è scambio politico) non poteva che produrre xenofobia. Diverso è il caso della zona 10 (Crescenzago-Padova). Prolungamento logico della zona 3 (insieme alla zona 11 massimi risultati cittadini della Lega Lombarda), che rappresenta l’estensione dell’eccellenza del centro storico, la zona 10, di antica e consolidata tradizione operaia, è il tipico esempio della centrifuga sociale milanese. Ai bordi della più americana delle vie shopping milanesi (Corso Buenos Aires), viene investita a partire dei primi anni ’80 da un processo speculativo che connesso al fenomeno degli sfratti investe vaste aree della struttura cittadina. La zona 10 è in queste dinamiche una zona interessante. Fortemente collegata dai mezzi di trasporto (metrò rosso, metrò verde e vari altri mezzi di superficiee) nel mentre mantiene una struttura urbana «umanizzante» (il quartiere Casoretto con la piazza e la chiesa;la «gentrification» commerciale delle direttive viarie Padova e Monza, il quartiere-paese di Goda, ecc.). La zona è adatta ad un forte processo di valorizzazione. E’ sostanzialmente desiderabile dai ceti medi impiegatizi che non vogliono abitare negli asettici insediamenti residenziali extraurbani ma non hanno, al contempo, le risorse economiche per reggere la dilatazione inesorabile della città dell’eccellenza (Zone 1, 2, 3, 6, 4,) La facilità della sua fruibilità la rende contemporaneamente interessante anche per l’estensione del terziario e, infatti, perde il 5% della popolazione in pochi anni. La zona quindi -a differenza della 13 – registra una profonda trasformazione della composizione sociale : da operaia a multiquartiere impiegatizio o delle «nuove professioni». I nuovi arrivati hanno i vantaggi del poter usufruire delle reti commerciali-amicali (tipiche delle zone consimili) e di una collocazione toponomastica molto prossima ai dilatati confini del centro storico. ln questa zona il rifiuto degli extracomunitari è ambiguo e continuamente ricontrattato o eluso. Gli abitanti rifiutano gli insediamenti « ufficiali» nei pressi di Via Palmanova ma, nei fatti, accettano la presenza degli abusivi (vedi cartina n. 1) che sono complessivamente più di 300. Si può facilmente leggere in questa contraddizione il vissuto di una nuova composizione sociale che paga prezzi elevati per non essere «centrifugato» all’esterno dei confini comunali. Il desiderio, il bisogno di abitare in una zona che produce ancora socialità (per reti commerciali, per la persistenza di sedi politiche e culturali) genera, in mancanza di una cultura forte di riferimento, comportamenti contraddittori: la radice del desiderio-bisogno di abitare in «mezzo al popolo» induce tolleranza, la difesa dei costi pagati per questi bisogni produce esclusione. Se gli immigrati, i diversi sono presenti stabilmente -accettati tramite decreto- il costo del persistere nella città produttiva viene ad essere dequalificato. Se sono clandestini si può sempre giocare sull’ambiguità della loro presenza transitoria e il valore della propria abitazione non viene a decadere sul mercato dell’immaginario. Paure, angosce -per la gran parte inconsce- ma comunque anche in questo caso riferibili al free-riding: la socialità dell’antico quartiere proletario è comunque un bene che era compreso nel prezzo d’acquisto dell’abitazione.
Per concludere possiamo porre un interrogativo sul caso della zona 12. Schiacciata tra le zone 11, 10 e 13, delimitata dal viadotto ferroviario di Lambrate che la separa fisicamente dalla città;la zona 12 pare contraddire tutte le teorie -a cui ci siamo in parte ispirati – di Guido Ortona. È infatti una zona periferica di antichi insediamenti industriali. Per raggiungerla dalle luci della zona 3 si può utilizzare esclusivamente l’autobus N 75 -autentica «corriera stravagante» della «comunicazione di transito» -, non c’è nemmeno l’ambulatorio medico -nonostante la forte presenza di pensionati-, è composta da 4/5 quartieri separati tra loro da barriere fisiche e da diversa composizione sociale (Cimiano, interamente IACP-pensionati, Feltre-Parco Lambro, quartiere modello INA con ceto medio impiegatizio elitario e Lambrate-Ortica a composizione storica operaia). La zona registra la più alta percentuale di insediamenti autorizzati (Comunali o della Chiesa) o abusivi di tutta la città (circa 1000 su un totale di circa 3500 censiti – Vedi tabella N i allegata). Tra questi ospita anche i due più consistenti Centri di Prima Accoglienza comunali (Via Pitteri, 176 presenze, e Via Corelli, 400 presenze che spesso -per solidarietà -diventano 6/700). Ciò nonostante, dopo le prime proteste iniziali, si può affermare che in questa zona l’inserimento precario degli immigrati sia sostanzialmente riuscito. Riuscito nonostante che inizialmente le proteste e le tonalità emotive fossero simili a quelle della zona 13. Quali le origini sociali e culturali di un caso così sorprendente? Qui si possono solo prospettare delle ipotesi. Gli immigrati sono stati inseriti principalmente nei quartieri Lambrate e Ortica (i più antichi della zona). In una situazione sociale in cui persistono fortissimi elementi del passato operaio recente -ovvero dell’aristocrazia operaia. All’Ortica infatti sono tuttora funzionati gli antichi circoli dei ferrovieri così come a Lambrate sono operanti sia il circolo ACLI che la storica Camera del Lavoro. Questi reti di socialità hanno letteralmente espulso dai quartieri i tentativi di strumentalizzazione della Lega Lombarda facendosi carico direttamente e dal basso del problema politico connesso alla presenza dei Centri di Prima Accoglienza. Paradossalmente l’isolamento dei quartieri Lambrate e Ortica con le proprie reti di socialità autocentrate ha favorito il drastico processo di ridimensionamenti delle tonalità emotive dell’ esclusione. La presenza extracomunitaria ha tonificato una società locale morente, l’immigrato
è diventato anche una risorsa per le reti commerciali dei quartieri che soffrivano la scomparsa della presenza operaia (forse integra più il mercato – anche se di livello inferiore – che non la modernità?). Il caso della zona 12 è emblematico dei percorsi labirintici della metropoli post-fordista. Una foresta di segni contraddittori sospesi tra accoglienza e rifiuto, tra tolleranza e xenofobia. Ambiguità certo del moderno, ma su cui le intelligenze istituzionali e non possono esercitare effetti positivi o negativi. L’arrivo dei figli del sud del mondo nelle metropoli del nord in transizione da un modello di società ad un altro, può rappresentare un occasione storica per misurare la propria capacità di mettere in discussione (non distruggere) i paradigmi fondanti delle culture di tutti i nord.
Note
Testo apparso su Iter, n. 1 (gennaio-aprile 1991), pp. 105-117.
1Anche altre zone sono state profondamente investite dal processo di deindustrializzazione. Sopratutto le zone 9 e 8, ma per ragioni assai complesse e diverse (dimensioni degli insediamenti industriali dismessi – ad esempio Pirelli-Bicocca-, assenza di piccoli contenitori dismessi, densità abitativa e progettualità privata – ad es. il Progetto Tecnocity – non sono state investite dalle presenze degli immigrati.
2Si può qui citare l’attesa degli abitanti della zona 13 per la realizzazione del centro commerciale direzionale di Montecity con il progettato metrò leggero e il miglioramento delle risorse locali che accomuna questi cittadini con quelli della zona 14 che da zona periferica vede in prospettiva modificato il proprio ruolo attraverso il capolinea della linea 3 metropolitana e la riutilizzazione dell’ex area Redaelli. Contemporaneamente in entrambe le zone molto forte è stato il rifiuto degli immigrati o delle decisioni comunali di realizzarvi impianti di utilità sociale cittadina (ad es. l’inceneritore nella zona 13)
3 Come è noto le nazioni europee di più antica immigrazione (Francia, Inghilterra e RFT) hanno utilizzato la forza lavoro straniera interamente nel ciclo fordista dei precedenti decenni. Nel caso tedesco la funzione dei lavoratori stranieri ha avuto addirittura importanza strategica e progettuale. La Francia e la RFT hanno peraltro rigorosamente regolamentato o introdotto il numero chiuso – ovvero programmato- già da molti anni.
4 Possiamo qui rimandare alle incisive riflessioni di Guido Ortona nel suo Principi economici e xenofobia in Aa. Vv., Immigrazione e diritti di cittadinanza, CNEL, Roma 1990.
5 Si veda a questo proposito lo splendido ed ironico saggio di Clara Gallini, “Giochi pericolosi. Dall’esotismo al razzismo in alcune pratiche simboliche”, Problemi del Socialismo, n. 2 (1991).
6Vedi Franco Alasia- Danilo Montaldi, Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1975, nuova edizione accresciuta.
7 Vedi esempi consimili in Clara Gallini, cit.
8 Per le reazioni degli abitanti del Parco delle Basiliche (clamorose quelle relative alla valutazione quantitativa dei rifiuti organici dei Pakistani) ci sembrano più adatte le considerazioni di Guido Ortona quando, citando Buchanan, afferma che reazioni di ostilità possono essere provocate da comportamenti free-riding, quando cioè degli estranei utilizzano un «bene semipubblico» che è ritenuto di proprietà dei membri naturali. In questo caso i pakistani utilizzando il Parco delle Basiliche attuavano un comportamento free-riding nel senso che gli abitanti degli stabili intorno erano e sono coscienti di aver pagato un prezzo più elevato per i loro appartamenti proprio perché potevano usufruire della «vista sul parco». In questo senso il parco viene vissuto anche come una proprietà del club informale degli abitanti. Nonostante la volgarità escrementizia si è comunque trattato di un processo di esclusione soft.
9 Particolarmente rilevante il ruolo di alcuni quotidiani nel generare allarme sociale e stereotipi sociali. Fra tutti si può ricordare il quotidiano II Giornale di Indro Montanelli che ha continuato, tra l’altro, pervicacemente ad usare il termine «Vu ‘cumprà» nel definire gli extracomunitari. Vedi L’immigrazione nella stampa italiana, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1990.
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ISSN:2037-0857