philosophy and social criticism

6. L’aura di Warhol e il regno dei simulacri

Alessandro Simoncini

Del resto, che nell’ultimo capitalismo l’aura dell’opera d’arte e quella della merce in generale siano indubitabilmente connesse all’astrazione del denaro, lo chiarisce in poche battute Andy Warhol, la cui gigantesca serigrafia pop Mao prodotta nel 1972 (proprio mentre gli Usa avviavano le proprie reazioni diplomatiche con la Cina) è stata quotata nel 2006 ben 15.500.000 di dollari, mentre l’opera Green car crash è stata venduta nel 2007 per 64.000.000: “alcune aziende erano recentemente interessate all’acquisto della mia «aura». Non volevano i miei prodotti. Continuavano a dirmi: «vogliamo la tua aura». Non sono mai riuscito a capire che cosa volessero. Ma sarebbero stai disposti a pagare un mucchio di soldi per averla. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a pagarla tanto, avrei dovuto provare a immaginarmi che cosa fosse”[181].

Warhol è stato l’artista contemporaneo che più chiaramente ha mostrato come nella società dello spettacolo ogni evento ed ogni senso potessero esistere ormai solamente nella loro oggettività di simulacro. Warhol ha chiarito, cioè, come la presenza pervasiva, serializzata e appunto simulacrale delle immagini  fosse sempre più la sola presenza oggettiva. La sua grandezza artistica e filosofica consiste nell’aver compreso che nel capitalismo avanzato “la sola realtà che conti [è] quella oggettiva dei simulacri”[182]; e che questi non sono semplici copie di un autentico, come vorrebbe una vulgata platoneggiante, bensì “copia di copia” perché non si dà più alcun autentico, come sosteneva Gilles Deleuze[183]. Da questa evidenza Warhol non traeva le conclusioni moralistiche o consolatorie di chi lamenta la “morte dell’arte” finendo in preda alla nostalgia di un’esperienza senza simulacri (“ah, se potessimo contemplare la Gioconda nel silenzio dello studio di Leonardo!”); e nemmeno di chi confonde la sostanziale equivalenza delle immagini-simulacro con la loro presunta, esecrabile indifferenza spettrale[184]. Nell’equivalenza dei simulacri, al contrario, Warhol coglieva l’eterno ritorno del differente; nella “monotonia senza limiti” delle immagini prodotte allo stadio spettacolare dell’ultimo capitalismo intravedeva “la molteplicità stessa”; nella ripetizione scorgeva la sempre ritornante differenza[185].

Già Michel Foucault aveva chiarito come nell’artista newyorkese fosse ben presente la percezione del fatto che noi umani, abitanti dell’ultimo capitalismo, non possiamo che aggirarci tra simulacri, cioè tra mere “riproduzioni senza originale”[186]. Come Deleuze, Warhol dice l’epoca poiché sa pensare il simulacro. La sua “grandezza” – sostiene Foucault – sta nel ribadire quanto di più semplice vi sia da osservare: tutto sta in superficie, dietro non c’è niente; il mondo in cui viviamo è qualcosa di simile ad una “oggettività piatta, senza fondo”[187].  Con le sue scatole di conserva, con la serialità dei suoi sorrisi pubblicitari o dei suoi incidenti, il Warhol di Foucault diviene il cantore della stupida “monotonia senza limiti” che sta al centro dell’agire contemporaneo. Ma a ben vedere quella monotonia apparentemente indistinta – per la quale “qui o altrove è sempre la stessa cosa” – è  la “molteplicità stessa”: una molteplicità che ritorna eternamente “sullo sfondo di questa inerzia equivalente” e che, naturalmente, non ha più – o non ha mai avuto – “nulla in cima, al centro o al di là”[188]. In altri termini, Warhol e la Pop Art restituiscono al meglio il ruolo e il significato delle immagini nel nostro tempo, esponendo – in questa piatta molteplicità – il “meccanismo universale dell’equivalenza”: “il mondo è un’immane raccolta di immagini o simulacri […] sempre uguali e sempre diversi”, ci ricorda il fondatore della Factory[189]. Ma se è così, alle immagini dell’arte non resta altro che “raddoppiare il mondo” estremizzandone la banalità: quella di un “mondo messo in scena dai mass media e sottoposto al governo della forma di merce”[190]. Insomma, Warhol riconosce nitidamente “la piatta molteplicità del mondo delle immagini”[191]. È di quella piatta molteplicità che la Pop Art diviene espressione artistica: la sua poetica consiste proprio nella più disincantata ammissione ed accettazione del fatto “che non potremmo esistere senza di loro”[192].

Non è un caso, allora, che proprio Warhol più di altri sia riuscito a mostrare con chiarezza che “l’arte non potrebbe esistere senza essere un business” (all’interno del cui rumore bianco l’artista statunitense resta peraltro  comodamente albergato); e che, per il pubblico, “un’opera d’arte estranea a qualche circuito della compravendita semplicemente non esiste”[193]. E’ insomma l’arte come dispositivo di potere-sapere a ri-produrre l’effetto auratico dell’opera d’arte. Quest’ultimo non è più collegato alla mera fruizione estetica dell’opera. È invece direttamente connesso alla possibilità dell’opera stessa, e dell’artista,  di acquisire valore. L’opera d’arte, come l’artista, è “pura merce”: la loro possibilità di conquistare un’aura dipende esclusivamente dal loro valore di scambio[194]. Lo dice bene, in un passo che vale la pena di riportare diffusamente, il cinico artista-broker che fu capace di valorizzare vertiginosamente le quotazioni dei suoi quadri dichiarando semplicemente che avrebbe smesso di dipingerli: “per avere successo come artisti bisogna esporre in una buona galleria […], è soprattutto una questione di marketing. Se un tipo ha, mettiamo, qualche migliaio di dollari da spendere per un quadro non va certamente in giro per la strada […], vuole comprare qualcosa che aumenterà di valore e l’unico modo per farlo è affidarsi a una buona galleria, una galleria che trovi l’artista, lo promuova […]. Ci vuole una buona galleria perché la ‘classe dominante’ si accorga di te e […] perché i collezionisti ti comprino […] Non importa quanto bravo sei: se non ti promuovono nel modo giusto, il tuo nome non sarà tra quelli che sono ricordati”[195] .

Warhol è per definizione il produttore-riproduttore di immagini serializzate, o – per dirla con Benjamin – riprodotte tecnicamente (siano esse le icone di Mao, le figure del dollaro, i barattoli Campbell o i sorrisi di Marilyn). E questo non ha portato al deperimento dell’aura delle sue opere d’arte, tutt’altro: “proprio la riproduzione seriale conferisce loro un’aura oggettiva, facendone dei simulacri”, sottolineano opportunamente Dal Lago e Giordano[196]. Con Warhol l’opera d’arte tecnicamente riprodotta come copia di copia, come simulacro, acquisisce una nuova aura. L’aura già attiva nella merce Campbell, nella diva Marilyn, nel Presidente Mao, nella moneta egemone viene trasferita direttamente “dalla realtà alla tela”, insieme alla potenza spettacolare delle loro immagini-simulacro e della loro continua ripetizione, che è sempre e comunque anche differenza, variazione[197]. Non servono operazioni ermeneutiche ad un simile gesto, ma solo la fondamentale mediazione di quel mercato che ha fatto di Warhol “Andy Warhol”.

L’arte è una  macchina socio-economica che non ha nulla a che vedere con quella “sfera indipendente di produttori di senso e di bellezza” con la quale continua ad essere scambiata dai più[198]. E in quanto “macchina” l’arte genera un mondo nel quale viene interamente fabbricata una nuova aura. Warhol, artista-filosofo, descrive perfettamente questo processo dall’interno. Egli abita con immediata consapevolezza un sistema che ha recuperato quasi completamente le potenzialità emancipatorie dell’avanguardia. Scorge così nitidamente il funzionamento della logica dell’immagine-simulacro e della merce nel capitalismo a lui coevo: differenza e ripetizione connotano ineludibilmente l’esperienza artistica e le forme di vita dell’uomo contemporaneo. Non si sfugge al mondo dei simulacri e “l’arte non può pretendere alcuna trascendenza”[199]: questo, in estrema sintesi, ci dice l’artista che ha ideato la fabbrica degli artisti, a sua volta formidabile riproduttrice d’aura.

Come si è opportunamente sottolineato, Warhol è stato essenzialmente il “simbolo di un disadattamento nevrastenico e della Factory, luogo in cui la ribellione si fa conciliante e scende a patti con lo spettacolo”[200]. Interamente sussunto dal sistema e senza più l’illusione di poterne incrinarne la potenza macchinica  – né tanto meno di immaginare patetiche fughe dai suoi potenti ingranaggi –  Warhol ha tuttavia prodotto un’arte che “invece di coltivare l’illusione del superamento della propria miseria” è divenuta onesta[201]. Infatti si è immersa “nella pura oggettività del mondo spettrale a cui appartiene”, restituendone così la “verità ultima”[202]. In questo, ma solo in questo, Warhol è simile a Benjamin. Con una grande differenza però: se l’arte si identifica ormai con il capitalismo e ne diviene il modo di espressione più coerente, Warhol potrà dirne la verità, certo. Ma quella stessa verità – la verità dell’eterno ritorno dei simulacri e della merce (come nella serie di opere sul volto di Marilyn) – non prevede alcun fuori, nessun altro possibile “gioco di verità” per il mondo a venire. Warhol, a differenza di Benjamin – ma anche dei surrealisti (e ancora dei dadaisti) -, non può più stare dentro e contro. Pensa infatti che l’arte non possa più partorire il nuovo e neppure debba progettarlo. Dal suo corpo sterile non può nascere alcun evento capace di produrre nuovi stili di vita. Per dirla con Foucault, l’arte di Warhol è strutturalmente incapace di pensare una vita “scandalosamente altra”, intesa come “la pratica di una combattività al cui orizzonte [stesso] vi è un mondo altro”[203].

In Warhol, infatti, tutti i possibili si riducono all’offerta del mercato (dell’arte). Come in una sorta di “fine della storia” decretata nell’ordine del discorso artistico, i possibili che non sono già attivati nel mercato non esistono. Se vi è un cinismo warholiano, in questo consiste[204]. Ed è un affare più complesso di quanto appaia a prima vista. Vi è infatti tutto un “cinismo permanente” che, a dire di Foucault, abita dal XIX secolo l’arte moderna. Essa eredita e riattiva “quella volontà di dire la verità che non ha paura di ferire i suoi interlocutori”, praticata dalla scuola cinica greca. Quello stesso cinismo e quella stessa verità le ritroviamo certamente nell’opera di Warhol, così capace di mettere a nudo la logica differenziale e ripetitiva del capitale e la rinascita dell’aura nel seno della merce. Ma, a differenza di quanto accadeva con le avanguardie storiche, Warhol non vuole stabilire alcun “rapporto polemico, di riduzione, di rifiuto e di aggressione”né con la logica vincente del suo capitalismo, né con la cultura, le norme sociali, i valori e i canoni estetici che da questo discendono[205].

Certo, al cinismo del capitale Warhol dice la sua “barbara verità”[206]: scorge infatti nitidamente il recupero capitalistico della potenza onirica del linguaggio artistico e di quell’ ebbrezza rivoluzionaria che Benjamin – lo si è detto – aveva visto all’opera nella prestazione delle avanguardie. E ancora, certamente in questa verità warholiana l´arte si dà di nuovo a vedere come “cinismo nella cultura”[207]. Ma quel cinismo non parla più il linguaggio di Diogene e non è più, come nella grande arte moderna, “il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa”[208]. Tanto meno incarna quella “forma aurorale del militantismo storico” che Foucault suggestivamente scorgeva nel cinismo storico, inteso come prassi etica capace di far coincidere la vita filosofica con una vita rivoluzionaria che si vuole “forma radicale dell’impegno politico”[209]. È invece – quello di Warhol – il cinismo di chi “sa bene che la legge dei potenti è cattiva, ma si piega a quella legge, perché non è possibile fare altrimenti”; e perché, una volta abdicato il potenziale emancipatorio contenuto nei linguaggi artistici e politici contemporanei, considera irreversibile e incontrovertibile “lo sfruttamento del lavoro, la competizione, la guerra”[210].

Insomma, è il cinismo precursore di chi scorge con chiarezza che il futuro trionfo globale della forma-merce sull’immaginario collettivo porterà con sé la dissoluzione delle solidarietà politico-sociali e l’affermazione, nella maggioranza della popolazione, di un “Mass Zynismus”: una versione aggiornata del darwinismo sociale capace di fornire la tonalità emotiva di massa più adeguata alla risposta strutturale che negli anni ’80 il capitalismo neoliberale e finanziarizzato oppose al ciclo di lotte dei due decenni precedenti[211]. Warhol è il sintomo e la metafora di tutto questo; è il precursore intelligente, e in qualche modo il cantore, del Mass Zynismus che viene. Risolutamente e volontariamente, egli ripone le armi della critica e incarna tutta la potenza residuale ed impotente degli eredi dell’avanguardia. “Voglio essere una macchina”, esclama Warhol. Con lui, e dopo di lui, l’arte diviene una macchina economica che mette al lavoro le intelligenze creative e produce consapevolmente aura. L’arte diviene un dispositivo entro cui la sensibilità collettiva viene ri-formattata in modo da aderire senza significativi scarti agli assiomi dello spettacolare integrato. La macchina-arte si fa veicolo di un Mass zynismus pienamente funzionale al capitale. L’abile funzionamento dei suoi ingranaggi disattiva (per sempre?) la macchina da guerra sognata dalle avanguardie.



[181] A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Genova-Milano, Costa & Nolan, 1983, p. 67. Per un primo inquadramento filosofico complessivo dell’opera di Warhol cfr. A. C. Danto, Andy Warhol, Torino, Einaudi, 2009.

[182] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura, cit., p. 146.

[183] Cfr. G. Deleuze, Plato and the simulacrum, in “October”, 27, 1983. Sul tema cfr. B. Massumi, Realer than real. The simulacrum according to Deleuze and Guattari, in Copyright, 1, 1987.

[184] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura, cit., p. 147.

[185] Ivi, p. 148.

[186] A. Dal Lago, Foucault, Warhol e l’arte contemporanea, in E. De Conciliis (a cura di), Dopo Foucault, Genealogie del postmoderno, Milano, Mimesis, 2007, p. 324.

[187] Ivi, p. 327.

[188] M. Foucault, Theatrum Philosophicum, inAut aut”, 277-79, 1997, p. 70

[189] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura, cit., p. 148.

[190] G. Franck, Il feticcio e la rovina, cit., p. 139.

[191] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura, cit., p. 148.

[192] Ivi, p. 149.

[193] Ivi, p. 150.

[194] Ivi, p. 152.

[195] A. WarholPat Hackett, PopAndy Warhol racconta gli anni Sessanta, Padova, Meridiano Zero, 2008, pp. 25-26, cit, in A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura, cit., p. 152.

[196] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura, cit., p. 155. Sul tema cfr. anche G. Franck, Il feticcio e la rovina, cit., pp. 138 e ss.

[197] Ivi, p. 157.

[198] Ivi, p. 158.

[199] Ivi, p. 156.

[200] F. Berardi Bifo, Bambini cattivi o buoni non so, 2011, in http://th-rough.eu/writers/bifo-ita/bambini-cattivi-o-buoni-non-so.

[201] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura, cit., p. 158.

[202] Ibidem.

[204] Sul cinismo di Warhol, e con una prospettiva diversa, cfr. M. Perniola, L’arte e la sua ombra, Torino, Einaudi, 2000, pp. 37-48.

[205] M. Foucault, Le courage de la verité, cit., p. 174.

[206] Ibidem.

[207] Ibidem.

[208] Ibidem.

[209] Cfr. M. Galzigna, La vérité-événement, in “Critique”, 749, 2009, pp. 860-871.

[210] F. Berardi Bifo, Mass Zynismus, in “Alfabeta 2”, 6, 2010, p. 17.

[211] Ibidem.

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