«Deux ou trois choses que je sais d’elle». Intervista con Marina Spada
Giulia Zoppi
Milanese del quartiere Stadera, Marina Spada è tra le registe, sceneggiatrici e documentariste più sensibili del cinema italiano. Nel suo immaginario narrativo e visivo convivono il gusto della sperimentazione e la ricerca di una cifra originale e profonda, rivolta prevalentemente allo studio della forma e dello spazio fisico, quanto del mondo abitato dalle donne. La incontriamo per carpirle qualche informazione in più sul suo lavoro di cineasta legata al nostro tempo.
Nel suo cinema la capacità di unire senso alla cura dell’immagine in movimento, del montaggio, della fotografia e del racconto, raggiungono un equilibrio davvero raro nel panorama del cinema italiano. Quanto la sua formazione artistica, cominciata frequentando Il Piccolo Teatro e la sua laurea in Musica, sono state propedeutiche alla sua sensibilità di cineasta?
La mia formazione artistica più che dal cinema parte dalla musica, con mio padre che mi ha fatto ascoltare opere liriche dall’età di tre anni, seduta su un seggiolino nella camera da letto dei miei genitori dove teneva il suo giradischi. la conoscenza della musica è poi passata attraverso il rock degli anni ’70 e il pop degli ’80 giungendo con un salto all’indietro ad una laurea sul teatro musicale di Gian Francesco Malipiero. L’arte l’ho sempre amata e, col senno di poi,usata per costruire un gusto per l’inquadratura collezionando fin da piccola cartoline di quadri con cui costruivo storie e da più grande frequentando musei e mostre. poi ho frequentato anche gli artisti,grazie ai numerosi videoritratti che ho girato. credo che l’influsso musicale piu’ che nella musica lo si possa rintracciare nella costruzione della struttura e nelle simmetrie del linguaggio cinematografico dei miei film.
Vorrei concentrare il discorso sulla fotografia. Lei ha realizzato una serie dedicata ai grandi fotografi italiani, girando dei videoritratti che sono conservati nell’archivio della “Maison de la photographie” di Parigi. Nel suo secondo e ultimo lungometraggio Il mio domani, in alcune inquadrature fisse sembra di ritrovare lo sguardo di Gabriele Basilico (da lei ritratto nella serie sui fotografi italiani). Vorrei sapere, cosa desiderava fotografare di Milano, città in cui è nata e vive, considerando che la città è protagonista della storia quanto i personaggi che la compongono… Ci sono dei paralleli tra la modernità tormentata di una metropoli “aggredita” dai cantieri per l’Expo e la solitudine del personaggio interpretato da Claudia Gerini?
Milano è un personaggio dei miei film così come Milano è un personaggio della mia vita più che la sua ambientazione. mi ha dato molto in esperienza, amicizia e opportunità, l’ho vista mutare più volte nel bene e nel male e reagire. Mi è sembrato giusto testimoniarla nei miei film durante questi anni in cui il cinema italiano si è come ripiegato su Roma senza tener conto del fatto che il cinema storicizza, tramanda l’immaginario nazionale e Milano è stata banalmente raccontata per lo più come luogo di denaro, malaffare e cocaina. Sicuramente la conoscenza del lavoro fotografico su Milano di Gabriele Basilico dall’inizio degli anni ’80 ad oggi, ed in seguito della conoscenza personale,mi ha allenato lo sguardo sulla città. Il suo è uno sguardo potente ma anche malinconico e affettivo che poi ha esercitato sulle città del mondo. I miei personaggi femminili vagano per milano come dispersi ma forse camminano per trovare nei luoghi conosciuti una sorta di “consolazione delle cose” e di rispecchiamento della propria identità. Milano sta attraversando un momento di espansione dato dalle febbrili costruzioni in previsione dell’Expo. Non so se questo sarà un bene ma credo che le città si debbano evolvere, come è sempre stato, in sintonia con l’evoluzione sociale. Nei miei film cerco semplicemente di testimoniare la città e la sua evoluzione senza dare giudizi.
Lei ha dedicato un’opera molto intensa Poesia che mi guardi ad Antonia Pozzi, dichiarando una passione sincera per la poesia e per una donna con un percorso molto interessante e significativo per la cultura italiana e non solo. Per lei esiste un cinema “al femminile”, è una definizione pertinente? E se esiste, quali sono le sue caratteristiche, i suoi valori, il suo intento politico e culturale?
Frequento la poesia perché mi ha aiutato, e mi aiuta ancora oggi, a dare parole a ciò che penso o provo e che spesso non sono in grado di riconoscere. Le mie parole sono le immagini e la poesia, adifferenza della prosa, si costruisce per immagini ed è quindi molto visiva. È possibile che sia anche per questo che sento la poesia vicina a me. anche i miei film hanno titoli tratti da poesie. Ho deciso di fare un film su Antonia Pozzi e la sua poesia per farla conoscere e contribuire a darle il posto che le spetta nella letteratura del Novecento. La Pozzi non è stata riconosciuta durante la vita poiché il suo è stato un periodo in cui la poesia non veniva riconosciuta come genere letterario adatto a rappresentare il passaggio storico degli anni ’30 e le donne mal tollerate. Non è stata accettata come poeta e di conseguenza come donna poiché le sue poesie, in modo molto moderno, raccontano la sua vita interiore, quasi un diario intimo. per questo motivo avvicino la sua figura a quella di Frida Kahlo che parla di sé e del suo mondo interiore nel diario dei suoi quadri. Non so se esista un’arte e un cinema che si possa definire in modo inequivocabile al “femminile”, al di là del fatto di essere firmato da un autore donna, ma vero è, per quanto mi riguarda, che lo riconosco sempre per i temi e lo “sguardo” fortemente ancorato alla vita come tutti noi la sperimentiamo.
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ISSN:2037-0857