Per mangiare io distruggo le possibilità del mondo. Alcune riflessioni sulla felice decrescita di Serge Latouche
Viviana Vacca
Fait de se nourrir frugalement.Je me plaisais à d’excessives frugalités, mangeant si peu que ma tête en était légère et que toute sensation me devenait une sorte d’ivresse.
(André Gide, Les Nourritures Terrestres)
[…] se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. (Zygmunt Bauman)
LA SCIMMIA E IL POSSIBILE
In Una relazione per l’accademia di Kafka, il protagonista è uno scimpanzé, catturato nella giungla e condotto nella civiltà a bordo di una nave. Nella gabbia aveva spiato il comportamento degli uomini per capire come poter comunicare con loro. La sua intelligenza viene notata, lo scimpanzé impara a parlare, si fa una cultura, finché il suo caso, mondialmente noto, la porta a tenere una conferenza all’accademia sul perché avesse fatto questo salto evolutivo dalla condizione di scimmia a quella di ominide, se non di uomo. Spiegando le motivazioni , a un certo punto, la scimmia afferma: “hanno detto che io desiderassi riacquistare la libertà, ma io non cercavo la libertà, io cercavo una via d’uscita.”
Il racconto di Kafka potrebbe avere un sottotitolo: “una via d’uscita dal presente”. La libertà e l’emancipazione si coordinano nel tentativo di praticare vie d’uscita. “Un po’ di possibile, altrimenti soffoco” secondo la prospettiva deleuziana delle linee di fuga. Il possibile, che è ciò che ci fa respirare, consiste in questo, nel creare il possibile. Prendiamo la rivoluzione: essa non deve essere intesa come la realizzazione di un possibile ma come l’apertura di un possibile. Tanto meno è il frutto di un’utopia, cioè tentare di raggiungere il reale a partire dall’immaginario. Non è così che si produce il possibile. In tempi in cui la claustrofobia si ritrova a convivere in maniera paradossale con il suo opposto (la claustrofilia), il testo di Serge Latouche Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita (Bollati Boringhieri, Torino 2012) risponde alla necessità di apertura e offre spunti di riflessione. Fin dal titolo. Che cos’è l’abbondanza frugale, oltre a un ossimoro che lega provocatoriamente due opposti? L’ennesima parola d’ordine che suggerisce vie impraticabili e mancati risvolti pratici? Se qualcuno replicasse così alla prospettiva di una convivenza capace di sobrietà non costrittiva, verrebbe preso sul serio da Serge Latouche, e contraddetto con ottime ragioni.«La decrescita non è un’alternativa ma una matrice di alternative (…) per questo non ha dogmi e spero non li abbia mai» sottolinea Latouche. Per molti la parola decrescita risulta traditrice: comporta un senso di inquietudine, evoca gli spettri della povertà e della miseria, è punizione per la cattiva passione con cui abbiamo creato bisogni artificiali e sperperato risorse. Ma la decrescita- Latouche non smette di sottolinearlo nei diversi contributi- non è un concetto simmetrico a quello di crescita, è termine “esplosivo”, direbbe Ariès, che mira a interrompere il carcan, la carovana di opinioni degli sviluppisti fuori controllo.
DECRESCITA E POSSIBILITÀ
Sarà forse inutile continuare a sostenere che la decrescita è retrograda, utopica, tecnofoba, patriarcale, pauperista. O perlomeno controproducente perché si rischia di perdere occasioni di riflessione. Abbandonata l’eredità degli ismi- liberalismo, socialismo, anarchismo o comunismo- ci si muove nel terreno incerto dell’utilitarismo e dell’interpretazione strumentale dell’ideale democratico. L’uomo unidimensionale sembra realizzarsi grazie all’aumento indefinito e esponenziale della produzione di beni materiali e di consumo.
Nell’introduzione, spiega Latouche, il titolo “abbondanza frugale” è definito come: orizzonte di senso per una fuoriuscita dalla società dei consumi, ma anche come obiettivo politico a breve termine da opporre alle tesi neoliberali o keynesiane nella situazione attuale di depressione repressiva. I teorici della decrescita- che si ramificano in numerose costellazioni e filiazioni teoriche- sono concordi su alcune proposte: la ridefinizione della base del consumo, la moltiplicazione dei meccanismi di eco-efficienza e l’urgenza di gettare le basi per una rivoluzione di tipo culturale per la modifica di atteggiamenti ormai obsoleti. Si tratterebbe di ricollocare le componenti di quello che Felix Guattari ha chiamato territorio di referenza nell’orizzonte più vasto della decrescita. Lo scenario, dicevamo, non è dei più gioiosi : la deriva economica della Grecia, la grave crisi economica spagnola, la precarietà finanziaria europea. I governi ripropongono il binomio crescita e piani d’austerità. Nel testo scritto insieme a Didier Harpagès Il tempo della decrescita, Latouche denunciava la doppia impostura del binomio rilancio e austerità, auspicato da esponenti come Joseph Stiglitz che raccomandava la vecchia ricetta keynesiana del rilancio dei consumi e degli investimenti per la ripresa della crescita. Tali proposte, infatti, reiteravano un’illusione. L’esempio della Grecia è assai eloquente. Un popolo vota massicciamente per un partito socialista il cui programma era classicamente social-democratico e, sottomesso alla pressione dei mercati finanziari, si vede imporre una politica di austerità neo-liberale da questo stesso partito che obbedisce alle ingiunzioni congiunte della commissione europea di Bruxelles, della Bce e del Fondo monetario internazionale. In queste condizioni, la ricerca della piena occupazione per rimediare alla miseria di una parte della popolazione dovrebbe essere fatta attraverso interventi di: rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva di alcune attività (la pubblicità il nucleare e gli armamenti), la riduzione programmata e significativa dell’orario di lavoro. Il bel programma forse è irrealizzabile? Non è applicabile? Le precedenti soluzioni sembrano non aver portato a risultati positivi. Perlomeno, il progetto della decrescita apre la porta a una possibilità, a un ventaglio di opportunità. Dopo le tesi dell’ecologia politica di Nicolas Georgescu-Roegen che denunciava la finitezza e la rarefazione delle risorse materiali disponibili, gli obiettori della crescita ribadiscono l’estremo impoverimento delle considerazioni di tipo umanistico rispetto alla volontà di crescita economica. Ariès parlerebbe di tecnica come utile che suggerisce la cattiva infinità di un mondo senza limiti di cui la semantica stessa dello sviluppo durevole è portatrice.
Una junkconsommation sempre più insaziabile impoverisce paradossalmente il concetto di qualità d’uso: è necessario stimolare i meccanismi con la finalità di creare una domanda diversa dal profitto capitalistico. L’uomo unidimensionale si apre alla possibilità di reinvestire in nuove forme di pluralità, in altre ricchezze quali la partecipazione alla vita sociale e a quella culturale . Ma- non si stanca di ripetere Latouche- la decrescita è un programma che rifiuta la logica stessa del produttivismo a favore di una serena austerità. In fondo, questo corrisponde a quanto proponeva Enrico Berlinguer già nel 1977 (oggi in La via dell’austerità, Edizioni dell’Asino, 2010, pp. 25-26), che Latouche rilegge alla luce del concetto di abbondanza frugale : «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenato, del consumismo più dissennato». Non è crescita al negativo, dato che una gioiosa accettazione dell’idea di limite sembra essere una via d’uscita nel momento in cui l’iperconsumo rischia di farci cadere nell’obesità. Gli economisti classici (Smith, Malthus, Ricardo) parlerebbero a tal proposito di stato stazionario (blocco dell’accumulazione, condanna alla sopravvivenza e alla miseria). Ma l’etica proposta da uno Stuart Mill (una società basata libera e liberata dall’ossessione della crescita) non incontra in tal caso la frugalità di Gorz e Illich.? Nella delineazione di ciò che la decrescita non è, Latouche fa i conti con la tradizione teorica con cui da tempo intrattiene un dialogo. Indica, ad esempio, quali tecnologie ha senso incentivare, analizza i nessi tra ecologia e democrazia con il pensiero di Cornelius Castoriadis, mette in guardia dai rischi di ecofascismo, spiega perché la decrescita è «profondamente di sinistra» e perché la critica al capitalismo non è sufficiente. Il riferimento alle prospettive di studio di Paul Goodman, Marshall Sahlins e John Zerzan in cui si analizzano i ritmi di vita delle società primitive (il tempo delle attività lavorative era esiguo rispetto a quello dedicato ad attività di svago) non si configura come desiderio nostalgico di un ritorno all’età della pietra. Piuttosto evidenzia come la proposta della decrescita sia un’alternativa, un passo di lato rispetto alla catastrofe. A tal proposito Latouche ribadisce l’importanza degli interventi di rilocalizzazione. Le democrazie locali su base bioregionale in cui vengono privilegiate attività come l’allevamento e l’agricoltura rispondono a un bisogno ecologico in cui i vari componenti sono le parti di un insieme coerente. In altri termini se non si desidera contemplare passivamente quella che è un’apocalisse ecologica, reinquadrare la decrescita economica da un punto di vista sociale comporta l’introduzione dei valori di solidarietà e reciprocità di tipo orizzontale. “Non possiamo più sognare un “mondo comune” continentale o planetario come quello a cui aspirava Hannah Arendt cinquant’anni fa.”ribadisce Latouche. Piuttosto sarebbe necessario che si superasse la logica individuo-comunità a favore di nuove forme di appartenenza e di affiliazione. Quello che induce a rimanere perplessi di fronte alle proposte di Latouche potrebbe risultare come un problema di tipo linguistico. La società della decrescita sembra superare lo spettro del PIL con riduzioni dell’orario di lavoro e aumento della disponibilità dei posti occorrenti in settori quali l’insegnamento, l’assistenza sociale, l’energie alternative. E’ indice di riflessione la proposta di un’auspicabile società di transizione in cui a cambiare è il concetto stesso di lavoro in quanto significazione centrale. La decrescita ha come obiettivo la rifondazione della democrazia attraverso la decolonizzazione dell’immaginario produttivista ed attraverso la pratica di comportamenti virtuosi, approdando a ciò che si può chiamare Democrazia Ecologica. La proposta etica di Serge Latouche punta al ragionevole: la passione incontrollata- sembra suggerirci- non ci ha reso più felici e soddisfatti. Nell’ultima fase del suo pensiero anche Foucault si accorge che le relazioni di potere non saturano lo spazio del senso. Rimane una traccia, uno spazio di libertà che non è teorico ma pratico, perché ci permette di riflettere su qualcosa che è possibile. In ambito architettonico, Foucault direbbe che non esistono edifici che possano liberare i corpi. Per esempio in un edificio alla Fourier se si installa una comunità competitiva diventa un carcere dove tutti si osservano e praticano la delazione. Se invece arriva un gruppo di persone “sessualmente allegre” la vicinanza verrà praticata in ben altro modo. Ecco perché Foucault alla fine della vita tende a occuparsi di etica perché l’unico spazio liberato diventa quello dell’autonomia. Non ci si può liberare dal testa a testa con il potere ma si trova una via d’uscita se si diventa adulti. È questo spazio di possibilità è uno spazio etico. La piegatura etica è l’unica possibilità che si dà. Possibile come qualcosa che può arrivare, come futuro.
In La verità è l’invenzione di un bugiardo. Colloqui per scettici (Meltemi, Roma 2001, pp. 30-33) Bernard Porksen conversava con il filosofo e fisico Heinz Von Foerster riguardo all’imperativo etico proposto da quest’ultimo: “Agisci sempre in maniera che il numero delle possibilità cresca”. Il comportamento del singolo non dovrebbe limitare l’attività di un altro, ma ampliare l’orizzonte di possibilità e di libertà per favorire l’opportunità di assumersi delle responsabilità. Porsken ribatteva che l’attenzione riservata alle altre realtà si scontrava con il fatto che il bisogno di completezza della vita umana conosca momenti di distruzione. L’uomo mangia i pesci e i cavolfiori e distrugge le possibilità del mondo. Von Foerster accetta che il suo principio etico sia ridotto ad absurdum ma riflette sull’ennesima opportunità: rifiutando soluzioni consolatorie non è forse questa un’occasione per tentare un’alternativa? «È più che certo – dice Latouche – che senza economia della crescita, senza società dei consumi, non ci sarebbe socialdemocrazia. Il movimento socialista (partiti comunisti compresi) sarebbe stato condannato a fare la rivoluzione per strappare il proletariato alla miseria… Oggi però la crisi ecologica costringe a porsi di nuovo la questione della divisione di una torta che non può più, e non deve più, ingrandirsi. E costringe anche a interrogarsi sul contenuto della torta. In effetti la crescita si nutre delle contraddizioni del sistema. L’inquinamento, gli ingorghi, il tabagismo, l’alcolismo favoriscono la crescita». Nel mondo coesistono l’inquinamento e la crescita di un bambino. Il cavolfiore e l’uomo. Fuor di contesto consolatorio, è probabile che un confronto con le posizioni di Latouche sia una via d’uscita rispetto al vicolo cieco di una crisi su cui tutti concordiamo.
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ISSN:2037-0857