Furio Jesi e il tempo della festa
di Marco Dotti
Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Roma 2013
«Non è niente, sono qui, sono ancora qui». Arthur Rimbaud concludeva con queste parole la rivendicazione di un’infanzia sfrontata, in quell’«inferno che sovverte l’ordine» che per molti tratti fu la Comune di Parigi. Un ritorno a cui Rimbaud aggiunse, alla maniera di un post-scriptum, un’altra attestazione, stavolta relativa all’azzeramento di ogni senso di colpa. Fosse pure, questo senso di colpa, postumo, preventivo o soltanto preteso: «Industriali, principi, senati: a morte! Ci è dovuto», scriveva il diciottenne Rimbaud. Era il 1872 e l’eco della Comune si poteva ancora sentire, ma i suoi giorni erano oramai proscritti dalla ripresa di un tempo storico che cannoni e baionette del generale e futuro presidente Mac-Mahon avevano saputo riattivare nel corso ordinario delle cose. Il tempo “borghese”, ritrovava così la sua scansione ritmica nel doppio coup al tavolo gioco e davanti alla macchina che garantiva serialità del lavoro. Quanto di questo tempo era rimasto e ancora rimaneva attaccato a chi, fosse pure per poco, si era sentito animato e sconvolto dalla zona franca e comune della rivolta? Quale stratificazioni di lieux communs, di vecchi abiti scambiati per nuovi e di nuovi presi per vecchi nel corso riattivato delle cose? Quel corso delle cose che, è vicenda nota, venne interrotto solo per poche settimane dal 18 marzo alla fine di maggio del 1871, quando con la Comune si instaurò – la definizione è di Furio Jesi – «un tempo di qualità inconsueta», quasi festiva, dove ogni avvenimento sembrava accadere lì e ora, ma per sempre. Qualche mito genuino sembrava allora mostrarsi, ma presto si sarebbe ingenuamente “corrotto” al contatto con l’ombra delle grandi mitologie borghesi che già avevano marchiato la storia.
I versi già citati di Rimbaud – «Ce n’est rien! J’y suis! J’y suis toujours!» – seguono di pochi mesi il suo arrivo a Parigi e quel testo stratificato e intenso che è Il Bateau ivre, composto tra il mese di settembre e quello di ottobre del 1871. È quasi un ritorno, dopo la battaglia nella città individualmente sognata e diventata per pochi mesi di tutti: Parigi. Solo nella rivolta, osservava Jesi, la città è sentita come l’haut lieu, come città veramente propria. Nella rivolta, infatti, «non si è mai soli». Dopo la rivolta c’è solo il ritorno alla battaglia individuale. Quella battaglia che forse il poeta non aveva mai realmente abbandonato – ma solo sognato di abbandonare. «Ce n’est rien! J’y suis! J’y suis toujours!», anche se questi versi, secondo la critica, segnano un risveglio, anche se non è chiaro – o, forse, lo è fin troppo – se Rimbaud abbia realmente preso parte o soltanto mitizzato la propria presenza tra le barricate, riservandola più alle pieghe e alle righe dei suoi quaderni, non di meno proprio tra quelle pieghe è possibile scorgere i frammenti di una vera e tutt’altro che ingenua profezia di rivolta. A questa profezia, Furio Jesi dedicò pagine memorabili pubblicate per la prima volta sul numero 168 della rivista “Comunità”. Era il dicembre del 1972 e nella sua “Lettura del Bateau ivre di Rimbaud”, anche riprendendo alcuni passi di un libro del 1969 rimasto inedito fino a tempi recenti (Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, Bollati-Boringhieri, Torino 2000), Jesi accennava per la prima volta a quella “macchina mitologica” che dopo la rottura con Károly Kerényi e per un quadriennio fu al centro della riflessione nel suo periodo intellettualmente più fecondo e felice. Congegno che produce epifanie di miti e al suo interno «potrebbe contenere i miti stessi o essere persino vuoto», la macchina mitologica rivela che le mitologie non nascono dal mito ma da una continua oscillazione tra le pareti della scatola che, senza apparente possibilità di fuga, le contiene. Il Bateau ivre rappresenta, in questo, una stratificazione esemplare di luoghi comuni e materiali mitologici, adatti per un corpo a corpo con la macchina mitologica nella modernità. Il modello nella sua dimensione gnoseologica e nel suo riferimento alla macchina allude, tre le tante cose, a un continuo muoversi in cerchio dell’interprete attorno a un centro vuoto o non accessibile in cui paradossalmente risiede il mito (o il luogo comune, nella terminologia del saggio su Rimbaud). Ma sul piano pratico-politico, questo modello provvisorio di conoscenza diviene qualcosa di assolutamente pericoloso, se anziché al suo funzionamento ci si lascia sedurre dalla fascinazione esercitata dal richiamo a un’essenza del mito stesso.
Il modello “macchina-mitologica” è anche il perno attorno al quale ruotano i testi intelligentemente presentati con grande cura da Andrea Cavalletti, in un’utilissima raccolta da poco edita per i tipi di Nottetempo edizioni. In particolare, accanto a scritti su Lukàcs, Pavese, Rilke e a un inedito sul Libro di Daniele, sono proprio il saggio su Rimbaud e quello dedicato alla Conoscibilità della festa ad aprire e a chiudere la riflessione teorica di Jesi attorno a questo tema. Un modello, quello della macchina mitologica, che opportunamente Cavalletti, nella sua precisa introduzione, ricorda essere indistricabile dalla particolare tecnica compositivo-saggistica messa a punto da Jesi in quegli anni e da un continuo rimando –mai unidirezionale – alle pagine dello Spartakus in cui per la prima volta si declina il problema del mito «come problema del tempo». Problema che informa di sé anche la riflessione su rivolta e rivoluzione, centrale per la comprensione dei saggi sulla festa e su Rimbaud.
Se il termine rivoluzione, osserva Jesi, è «il complesso di azioni a lunga e a breve scadenza che sono compiute da chi è cosciente di voler mutare nel tempo storico una situazione politica, sociale, economica, ed elabora i propri piani tattici e strategici considerando costantemente nel tempo storico i rapporti di causa e di effetto, nella più lunga prospettiva possibile», rivolta designa invece una sospensione del tempo storico. Ogni rivolta appare quindi segnata da un prima e da un dopo: «prima di essa e dopo di essa si stendono la terra di nessuno e la durata della vita di ognuno, nelle quali si compiono ininterrotte battaglie individuali». Nella complessa lettura di Jesi, rivolta e rivoluzione non sono che una doppia, forse diversa articolazione del tempo che vive all’interno di quella «scatola» e in nessun modo sembra poter contraddire il modello della macchina mitologica. In questo senso, nemmeno il “bateau ivre”, sciolto dai lacci e liberato ai flutti, muovendosi sugli sfondi irrazionali della razionalità, ha saputo spezzare le catene del tempo, godendo solo della sua temporanea sospensione. Ma è proprio in questa sospensione che il luogo comune rivela la propria contraddizione costitutiva, rivelando, a chi la sappia intendere, che anche là dove non c’è alternativa concettuale, si apre pur sempre lo spazio di un’alternativa gestuale e di una produzione di senso.
[da il manifesto, 9 febbraio 2013]
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tysm literary review, Vol 1, No. 2 – 28 january 2013
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