Il vuoto
di Laura Liberale
È generosa, Daniela Marcheschi, quando parla. Arricchisce il suo coltissimo e appassionato discorso con aneddoti personali e familiari che ce ne rendono tutta la portata esperienziale, l’immenso valore di testimonianza.
Ha l’ardire, Daniela Marcheschi, di non volere rinunciare a nemmeno uno dei significati di quell’antico verbo, krino, che definisce il suo ruolo, la sua vocazione intellettuale, ovvero: distinguere, separare, scegliere, preferire, lodare, spiegare, interpretare, giudicare, accusare, esaminare, interrogare, valutare, stimare.
Non facile, di questi tempi. Non facile in ogni tempo, forse (se è vero, da sempre, che «un critico deve esporsi, non scegliere la decenza accomodante del silenzio», e farsi carico di ‘lucidità e forza morale’). Sicuramente, oggi più necessario che mai.
Il perché ci viene spiegato in questo bel saggio di Marcheschi, Il sogno della letteratura. Luoghi, maestri, tradizioni, edito da Gaffi nell’anno che si è appena chiuso: «Da tempo la cultura italiana sembra avere in generale dimenticato la necessità di una riflessione sugli statuti e sui ruoli della critica letteraria».
Si parte, dunque, dal riconoscimento di un’abdicazione, di una rinuncia, di una “patologia”. Ma, per fortuna, non ci si ferma nichilisticamente qui: «Guai a coloro che non pensano che la letteratura possa cambiare il mondo! Tradiscono infatti la stessa essenza antropologica della vita, giacché dimenticano che l’uomo è animale culturale, e ogni scelta culturale è sempre negoziabile e reversibile (…) Tradiscono il mandato antropologico delegato alla parola e alle arti: quello di essere memoria del passato, percezione del presente, progetto del futuro».
Ha da tempo superato la dialettica degli opposti e una concezione lineare della storia, Daniela Marcheschi, se con vigore sostiene che bisogna, anche in letteratura, «pensare alla molteplicità delle dimensioni temporali, alla loro compresenza’, se con vigore allaccia le cose in un rapporto di coordinazione e/e (non o/o), se con vigore insiste sulla «capacità di rinnovare le proprie tradizioni»senza aderire «all’idea di un’unica tradizione».
La sua è una tensione verticale, come si evince già dall’esergo («Costruire e guardare in alto») e poi dalla concezione stessa di poesia come un ‘fare’ concreto, un’architettura, un’edificazione del mondo, una costruzione della bellezza. Il suo Critico è un illuminatore, un filosofico Sole che aggiunge luce, dall’esterno, al brillio interno che l’autore ha saputo infondere alla sua opera. Siamo dunque assai lontani da una critica di mera glossa, di catalogazione, di effusione emozionale. Siamo totalmente nel campo dell’etica: «Troppo comodo l’aut aut tra arte e vita. Soltanto l’unità della responsabilità è in grado di garantire quel vincolo interiore dei vari elementi della persona umana»; «Uomo e autore come unico centro vivificante del mondo: quanto aumenta, dà crescita»; «Uno scrittore o un poeta non devono dimenticare che della trivialità della vita è colpevole anche la loro arte, così come dell’inanità dell’arte è colpevole l’uomo con le sue fatuità, la penuria ideale dei suoi progetti e le sue misere esigenze interiori»; «L’etica è quanto cementa la parola, la fa aderire alla verità delle cose. È spazio dell’io in cui non si può e non si deve barare».
C’è speranza se qualcuno sa ancora dire, e soprattutto vivere, queste cose.
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tysm literary review, Vol 1, No. 3 – march 2013
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