philosophy and social criticism

Dialettica e mistica in alcuni momenti del pensiero tedesco

Luciano Parinetto

Non sono uno specialista del pensiero di Rudolf Steiner: sono pertanto molto grato a chi gentilmente ha desiderato che fossi presente a questo convegno. [*] Conosco Steiner per i numerosi e ben noti contributi allo studio di Goethe, naturalmente perla Filosofia della libertà e peri Saggi Filosofici, in particolare per il libretto sui mistici, tutto dedicato (con l’eccezione di Giordano Bruno) alle origini e allo sviluppo della mistica nella cultura tedesca, dal tardo medioevo al tardo Rinascimento. Siccome anch’io, in un libro su Angelus Silesius, mi sono recentemente occupato degli stessi autori, ho pensato che questo tema avesse una sua collocazione all’interno di questo convegno, anche se il mio punto di vista è molto diverso da quello di Steiner, perché inserisce nella lettura e nella valutazione di queí mistici, il tema della dialettica, pressoché assente, mi pare, nel pensiero steineriano.

Parlando della «schíera di spiriti profondi che s’ìnizia con Meíster Eckhart e si chiude con Angelus Silesius», come dice lo stesso Steiner (cfr. I mistici, Società Editrice Antroposofica, Milano 1984, p. 13), ma valutandoli quasi in contrappunto a quel testo steineriano del 1901-1923, non credo di assumere un atteggiamento polemico. Anzi: proprio la mia valutazione altra è in armonia con uno dei presupposti della Filosofia della libertà steineriana, che, come si sa, è il rispetto della diversità nella libertà: «1a differenza fra me e il mio simile non consiste affatto nella circostanza che noi viviamo in due mondi spirituali del tutto diversi, ma che egli riceve intuizioni diverse dalle mie

da un comune mondo di idee (…). Se veramente attingiamo entrambi dall’idea (…) possiamo incontrarci unicamente negli stessi sforzi, nelle stesse intenzioni (…). Vivere nell’amore per l’azione e lasciar vivere nella comprensione della volontà altrui è la massima fondamentale degli uomini liberi». (Cfr Rudolf Steiner, La filosofia della libertà, Milano 1986, p. 122). La diversità della mia lettura è dunque un omaggio all’etica steìneriana, che non vige fra uomini costretti da un dogma, ma solo fra uomini liberi, eguali negli sforzi e nelle intenzioni, ma non nelle intuizioni.

Mi piace iniziare dall’Aufklärung e da Lessing, cui giungono non pochi echi del precedente antico misticismo tedesco.

Tra l’altro, si tratta di autore caro a Steiner, fra quelli, a suo parere, che «hanno dato un impulso (…) che perdura tuttora» (cfr. Rudolf Steiner, Saggi filosofici, Milano 1990, p. 16). Steiner gli si accosta, non come in genere si è fatto, cioè non operando «un vero sviluppo ulteriore» delle sue idee (cfr. ib. p. 19), bensì ponendo un concetto lessinghiano addirittura alla base della sua Fìlosofia della libertà. Cita infatti l’amato Goethe, che, a sua volta, faceva tesoro di un detto di Lessing: Nessuno deve dovere (ib. p. 110).

Un accentuato antinkantismo della Filosofia della libertà pare prendere avvio proprio da quel detto lessinghiano, e dalla conseguente contrapposizione al dovere kantiano, della libertà steíneríana.

Tornando a Lessing, desidero soffermarmi su un tema molto particolare, da lui ereditato dall’antico misticismo tedesco: quello veicolato dalla suggestiva figura dell’apostolo Giovanni: colui cui Silesius dedica uno dei suoi formidabili distici, dal titolo Johannes an der Brust (Giovanni sul petto).

Lessing scrive un Das Testament Johannis il cui esergo si riferisce appunto all’amico/discepolo di Gesù qui in pectus Domini recubuit et de purissimo fonte hausit rivulum doctrinarum (cfr. G. E. Lessing, Doktor Faust ed altri scrittifilosofici, CUEM, Milano 1991, p. 171). Nonostante il parere di certi critici italiani (Cesare Cases, per esempio), qui è visibile un’influenza precisa, su Lessing, del movimento pietistico, in cui si convogliarono temi dell’antica mistica tedesca. Gli Stillen im Lande, i mansueti della terra (vale a dire i pietisti e soprattutto Zinzerdorf) avevano collegato la categoria di positività (che proveniva loro da Gottfried Arnold, e che giungerà fino al giovane Hegel) in polemica contro ogni tipo di cristianesimo istituzionalizzato in chiesa (e dunque arnoldianamente filo-eretica) al misticismo giovanneo, o meglio, alla figura/simbolo dell’amico di Gesù, che, reclinato sul petto di lui, durante l’ultima cena, non col solo pensiero, ma con l’effusione e l’abbandono del corpo e dei sensi, con l’amore, senza alcuna mediazione, ne apprende direttamente l’insegnamento. Giovanni che, prono sul petto di Gesù, assorbe alla pura sorgente il rivolo delle dottrine, simboleggia, sia per i pietisti, che per Lessing, il ripudio della mediazione dogmatico-ecclesiale. Ed è da questo ripudio, come mostra la fine di quel testo lessinghiano, che dipende il piano diverso sul quale viene collocata l’esperienza religiosa: è nella prassi, cioè, che essa dovrà autodimostrarsì autentica e non nel ricorso alle dottrine e ai dogmi, che hanno sempre effetto di scissione e di contrapposizione polemica. La mediazione (e il potere) ecclesiastici, che si barricano dietro dottrine, dogmi, precetti, che brandiscono il concetto, a parere di Lessing non spiegano (proprio perché si basano sul mortuum della parola e dell’intelletto) la lunga sopravvivenza del cristianesimo. Occorre, secondo lui, per spiegarla, pensare a qualche cosa di più vivo e di più sotterraneo che continui a percorrerlo. E questo è una continua prassi di vita profonda (intrecciata al pensiero) che ininterrottamente salda il fondatore ai credenti, scavalcando i morti dogmi e l’astratto credo, e ad essi contrapponendosi, come vita a morte. Il ripudio della mediazione ecclesiastica pare qui tenere a battesimo la stessa dialettica TrennunglVereinigung (scissione/unificazione) – che è un fulcro del pensiero lessinghiano – esemplificate qui l’una dal vangelo secondo Giovanni e l’altra dal testamento di Giovanni, l’una dalla positivizzata teologia ecclesiastica, l’altra dalla diretta unione mistica con Gesù. La figura di Giovanni rappresenta qui suggestivamente gli opposti di questa dialettica, e la contraddizione dei cristiani (dilacerati fra mortuum e vivente di quella religione), cui Lessing, in un altro suo testo (La prova dello spirito e della forza), augura che welche das Evangelium Johannis trennt, das Testament Johannis wieder vereinige (coloro che l’evangelo di Giovanni scinde, il testamento di Giovanni riunifichi). Alle diatribe astratte che può suscitare una teologia come quella contenuta nel Vangelo secondo Giovanni, Lessing oppone, d’accordo con i pietisti, ma anche con deisti e massoni, il pratico Testamentum: Filioli diligite alterutrum; weil das allein, das allein, wenn es geschieht, genug, hinlänglich genug ist (perché unicamente questo, questo unicamente, qualora sia attuato, basta, basta a sufficienza).

A ben vedere dunque, qui la figura di Giovanni è l’Aufhebung (immediatamente pre-hegeliana) della nozione di Verstand in quella di Vernunft che sarà del giovane Hegel, che, proprio a partire dalla critica di nozioni teologali, avanzava l’esigenza di opporre ad un morto, astratto intelletto teologal-filosofico (Verstand) una ragione (Vernunft) che pensasse la vita nella vita (e non scissa e contrapposta ad essa).

Aprendo una parentesi, sebbene Steiner non conoscesse (ameno nel 1894) i Manoscritti (cosiddetti teologici) giovanili di Hegel (pubblicati nel primo decennio del ‘900 da Nohl), mi pare di rinvenire, nella sua Filosofia della libertà, un’istanza analoga a quella giovane-hegeliana, laddove parla della «morta astrazione, il cadavere del pensare vivente» (op. cit. p. 105) e la oppone alla «for­za vivente nell’attività stessa del pensare (…). Una forza che è amore di natura spirituale» (op. cit. p. 106).

Chi ha letto il giovane Hegel sa, del resto, quale importante ruolo ricopra per lui l’amore che è in grado di unificare e togliere le contraddizioni, analogamente alla sua Vernunft, che pensa la vita nella vita.

Si direbbe che Steiner abbia intuito dunque tutto il travaglio (che da Lessing passa a Hegel giovane) a proposito del tema del pensare il vivente nel vivente, anche se la formidabile dialettica che sottende quel tema pare non essergli pervenuta. Come neppure il forte richiamo alla prassi, contenuto nel lessìnghìano Testament Johannis, che dall’Aufklärung giungerà sino a Marx (del resto lettore ammirato di Lessing), quando dirà che «per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta del tutto il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista» (Manoscritti economico-filosofici del 1844). Come si vede Lessing è un crocevia dialettico in cui strade che provengono dall’antica mistica possono sboccare, proprio per via della dialettica, nel pensiero rivoluzionario, che, del resto, con l’antica mistica, mutatis mutandis, ha in comune la radicale critica della proprietà privata.

Si è visto come, per un pensiero dialettico, siano la religione praticata, il comunismo messo in opera, a dar prova della loro autenticità. E il tutto sbocciato dalla magica figura di Giovanni, che conviene seguire a ritroso nel tempo, fino ai mistici antichi, perché certo riserva altre suggestive prospettive.

Già si è ricordato il distico di Silesius, che (in armonia con il concetto eckhartiano della eterna paternità/figliolanza dell’uomo nei confronti di dio) pare invitare tutti gli uomini a posarsi sul petto e in grembo a Gesù, cioè a goderlo direttamente, scavalcando ed eliminando ogni ecclesiastica Mediazione. Silesius conobbe sicuramente gli scritti di Jakob Böhme, del cui primo biografò, Abrabam von Franckenberg, fu amico. In Böhme la figura di Giovanni riemerge, assieme alla sua imitatio, perché il riposare di Giovanni in grembo a Gesù, nach aller Lust (dopo ogni piacere, diceva Silesius) diventa il paradigma del rapporto totale (e dunque anche erotico, come sperimenteranno bene i pietisti) fra il fedele e il fondatore della sua fede. Con sbigottimento e rabbia dei mediatori ecclesiastici, da Böhme graziosamente definiti arcipreti del diavolo, che diventarono i poco cristiani persecutori del calzolaio di Görlitz, quando il teosofo osò scrivere al Consiglio della città che il salvatore (cioè il suo Cristo alchemico, e l’alchimia, fino a Silesius ed oltre pervade alcuni settori della mistica tedesca) «mi ha offerto il suo amore, fidanzandosi con me nell’intimità della mia anima». Simile titolo non è eccezionale nei testi di Böhme: altrove infatti si definisce «la nobile fidanzata di Cristo». Queste pittoresche espressioni della mistica non devono meravigliare. In altro ambito, le usava pure Lutero, secondo il quale, «il cristiano gode di Dio; si apre intero a I ui, e da lui si lascia passivamente penetrare; passive, sicut mulier ad conceptum».

In Böhme tuttavia, lungi dal sottolineare una canina dipendenza dal despotismo assoluto di Dio, queste espressioni sottolineano invece in profondità il fatto che dio e Cristo non gli sono mediati da una qualsiasi chiesa (che possieda il monopolio di “fidanzare” i fedeli col divino), da un’istanza che si radichi «nella storia della parola letterale»: la lettera, per lui,«è un sapere che non ha nulla di vero». Il vero sapere, cioè, si acquisisce senza mediazione, per trasmissione diretta:: si sovrappone qui l’immagine di Giovanni sul petto e del fidanzamento dell’anima, in unione col «figlio che vive in noi» di eckhartiana memoria.

E non senza mediazione della prassi alchemica, perché, in Böhme, il divino concepimento di dio nell’uomo si surdetermina con quello dell’attuazione della pietra filosofale: «è mediante l’immaginazione e un serio desiderio che noi saremo di nuovo ingravidati nella divinità e riceveremo il corpo nuovo nel corpo antico (…) Come l’oro, nella pietra rozza, differisce totalmente da questa pietra (…) così l’uomo nuovo sta nell’antico». La via per ottenere quell’oro, secondo Böhme, sta nell’esortazione: «Abbandona la fine per trovare il cominciamento». In altre parole: fuggire da Babele per mettersi in traccia della Lilienzeit. Alle soglie di questa rivoluzione magico/alchemica ritroviamo la figura di Giovanni, di cui Böhme dice che «ha conosciuto le figure della magia di Dio».

Il libro magico per eccellenza, secondo Böhme, è infatti l’Apocalisse e dunque solo un mago può intendere Giovanni e il suo libro. Qui mago vuol dire alchimista, e vale la pena di ricordare, a questo proposito, che Leibnitz, proprio nella pagina dove lo elogia, scrive che Böhme «aveva saputo fare dell’oro, come qualcuno ritiene, o come fece S. Giovanni evangelista, se crediamo ciò che dice un manoscritto in suo onore». V’è dunque una persistente tradizione che connette Giovanni anche all’alchimia, sicché all’intima consapevolezza, che il personaggio incarna, del cuore di Gesù (cioè della sua vivente amorevolezza e sapienza), si sovrappone la sua pratica della magia divina e del magistero dell’Opus alchemico. Il tema, già eckhartiano, della figliolanza divina, attraverso la figura di Giovanni, si surdetermina caratteristicamente con quello dell’ottenimento della pietra filosofale, perché essa è «il fondamento di ogni intimità», e, legata alla saggezza, «veste l’anima… come un corpo nuovo. In questo corpo essa è un Figlio di Dio».

Non è un caso che abbia nominato rivoluzione, sia pur magico/alchemica, la via che, secondo Böhme, apre il divino all’uomo. Ce lo certifica la simpatia che il giovane Marx ebbe (dalle Vorarbeiten della sua tesi di laurea alla Sacra famiglia) per l’eccezionale calzolaio/filosofo (mentre, diceva, i filosofi/calzolai sono legione!), di cui citava (forse per suggestione hegeliana) la frase: Chi pareggia l’eternità al tempo e il tempo all’eternità, costui si libera da ogni contesa. Marx è portato, nella Sacra famiglia, ad apprezzare la rinascimentale visuale böhmiana della natura intesa come pulsione, spirito vitale e, più letteralmente, «tormento della materia», di contro alla riduzione matematico/fisica astratta che ne faranno Hobbes e la “nuova scienza”. E qui si dovrebbe parlare dell’eventuale rapporto fra Weltanschauung mistico/alchemica, dialettica e concezione marxiana del rapporto uomo/natura. Ma si tratta di tema complesso, che qui non si può affrontare.

Se proseguiamo a ritroso, accompagnandoci alla figura di Giovanni, e perveniamo al secolo XIV, troviamo Giovanni Tauler che la mette in rilievo. Nelle prediche di Tauler, la figura di Giovanni (e il suo rapporto da vivente a vivente, nella Sinnlichkeit, col maestro) è ben presente. Chi ascolta questo mistico (in cui riccheggiano non pochi temi eckhartiani) è chiamato, proprio come in una imitatio di Giovanni, a «riposare sull’amabile cuore di nostro signore Gesù Cristo», a lasciarsi «attirare dalla amabile immagine… e a contemplarla attentamente», e a considerare «la sua dolcezza, la sua umiltà, il suo amore ardente e profondo per gli amici e i nemici, il grande e docile abbandono».

Abbandono (Gelazenheit) è termine tecnico di questo ambito mistico, ed è precisamente l’esercizio mediante il quale, lasciando il proprio (esterno ed interno) e il mondo, si giunge a coincidere con dio. È dunque l’imitatio di Giovanni, l’abbandonarsi in grembo al maestro, che insegna praticamente l’abbandono: perché anche il maestro si abbandonava! È attraverso l’abbandono (o la noluntas, se vogliamo usare la laicizzazione terminologica schopenhaueriana), attraverso l’annichilimento che questi mistici attingono la totalità, con un andamento dialettico che passa da un opposto al suo proprio opposto; sicché possono giungere ad esclamare: «Sono uomo e Dio, sono ben più che Dio»: vale a dire che giungono ad attingere ciò che Silesius chiamerà über Gottheit, quella sovradivinità che pare essere l’Aufhebung e dell’uomo e di dio, perché, per questi mistici, se l’uomo si abbandona, anche dio (lo ricorderà pure Silesius) si abbandona: sicché i due termini dell’opposizione risultano tolti/superati.

Giova qui notare che questa via dell’annichilimento è, alla fine, tutt’altro che una via della rinuncia, perché anzi, come dice un sermone di Tauler, quando l’uomo è giunto al suo termine, «gli si presentano parecchi soggetti di gioia, che gli apportano, in maniera sensibile, una così grande dolcezza e voluttà, che questa voluttà penetra completamente lo spirito e la natura. Non si ha qui il tempo di discorrere di eros e mistica, ma vale la pena di notare che, almeno in questo caso, la gioia mistica non nasce dalla scissione della carne dallo spirito, e dunque è, si direbbe, una gioia totale, onnilaterale (per usare un termine marxiano) e che non ha più nulla da dividere con un’ascesi cristiano/medioevale castratrice del corporeo. Che il tutto poi avvenga con il precedente annichilimento della voluttà corporea è un’altra delle (feconde) contraddizioni di questa mistica, che non riesce comunque a nascondere le istanze della carne, che rispuntano perfino in seno all’estasi più totalizzante. D’altra parte, anche qui, la figura di Giovanni svolge un compito fondamentale, perché insegna ad accostare il divino sul terreno della Sinnlichkeit (non mediante la Trennung, ma mediante la Vereinigung) e, con ciò, ottiene la ridignificazione della carne e permette a Tauler di alludere positivamente alla voluttà, sicché spirito e natura non vengono contrapposti ma unificati. La dialettica tauleriana, con la sua consapevolezza della necessità del passaggio per gli opposti, del resto, facilitava l’operazione. Tauler infatti sa che l’elevazione del mistico «viene dall’abbassamento, perché, più ci si abbassa, più si viene elevati. Chi s’abbassa sarà esaltato, tanto più in alto quanto più in basso è disceso. Luno corrisponde all’altro e insieme non fanno che una cosa sola». «Più si sprofonda, più ci si eleva: altezza e profondità qui sono la stessa cosa». Dunque attingere il fondo dell’anima (e, con ciò, eckhartianamente, dio) è divenire consapevoli che gli opposti sono uno. La mistica è una dialettica messa in pratica, consapevole di se stessa; il mistico è un ossimoro incarnato.

Ma la figura di Giovanni in Tauler pare presiedere anche a qualcosa di praticamente rivoluzionario, perché il modello, il paradigma del rapporto Giovanni/Gesù diventa, in Tauler, anche quello di coloro che egli chiama amici di dio, che «nostro Signore colma delle sue dolcezze, e in un intimo abbraccio, se li unisce in maniera sentitissima», offrendo ai suoi «intimi amici il suo bacio divino». L’espressione amici di dio è chiaramente giovannea, ma questi amici di dio sono associazioni, vere e proprie conventicole pietistiche avant la lettre (dice Gorceix). Gorceix, che agli Amis de Dieu ha dedicato un libro, scrive che «Karl Séhmidt non aveva torto, a conti fatti, a confondere l’amico di Dio (…) con un eretico briciato a Basilea (…) La sua tesi aveva almeno il merito di reperire con forza questa protesta laica ed antiecclesiale», di cui Gorceix delinea lo sviluppo dai tempi di Tauler alla Theologie Teutsch, dall’Imitazione di Cristo al Viatore Cherubico di Silesius, per non citare che esempi illustri. Dunque Giovanni sul petto (an der Brust), da Tauler in poi, è suscitatore e protettore di uomini contro. L’anonimo, più tardo, autore della Theologie Teutsch viene presentato, nella prefazione a quel testo, come amico di Dio. Lo stesso Thomas Münzer riprenderà il tema degli amici di dio, non a torto, visto che un testo loro sentenzia che «la cristianità (un termine che, in questa accezione, giungerà sino a Kierkegaard) vive al contrario di ogni ordine cristiano, sia i chierici che i laici».

Se ora passiamo a Suso e allo stesso Eckhart, la figura di Giovanni pare non avere più il rilievo che si è visto; ha però rilievo fortissimo il tema della dialettica, di cui quella figura non è che un aspetto. In Suso essa si ambienta fra i consueti opposti del mistico: dal contrasto fra l’esistere temporale e l’eterno nulla (e, nel contempo, dalla loro connessione) si origina appunto la dialettica mistica. Il personaggio della Verità, nel Dialogo di Suso, parla così: «Se l’uomo non capisce due contrari, cioè due cose opposte in una sola, non è davvero facile parlare con costui di tal cose, ma, se le comprende, è già sulla via della vita». È dunque la verità stessa (cioè il divino) che sanziona la primarietà del discorso dialettico in seno alla mistica. Ma la dialettica, nel mistico, diventa prassi, proprio mediante l’attuazione della Gelassenheit, dell’abbandono; «l’azione sua è il rinunziarsi, nient’altro, il suo operare è lo starsene in quiete, poiché agendo riposa e operando è come nulla facesse»: questo pare uno spezzone dell’antico Eraclito, non impropriamente qui riemerso, e che avventurosamente giungerà fino a Silesius! Del resto era già presente nel non-quietismo di Eckhart, che appunto scriveva che solo l’uomo che è in corsa, (e in una continua corsa) è in pace e in quiete. Anche per Suso dunque il mistico è una dialettica incarnata e, come si è già detto, un ossimoro vivente. Ossimoro anche perché sa, nella sua suprema esperienza, la coincidenza di sé e dell’altro (il nulla divino), e dunque si sa come duplicato: una situazione che, trasportata sul piano concettuale, diventerà in Hegel, Feuerbach e Marx l’importantissima categoria della duplicazione dell’Autocoscienza (fatte salve le specifiche differenze fra autore ed autore). Ma non è un caso che, per esempio, l’Essenza del cristianesimo feuerbachiana faccia tesoro proprio di questi mistici tedeschi.

Certo la dialettica accompagna il mistico sino alla sua coincidenza col divino, e, a questo punto, salta: ma, assieme ad essa, saltano gli opposti (umano e divino), e dunque lo stesso rapporto religioso, in un religiosissimo ateismo! Perché l’unione di istante ed eternità, l’ewige nû del mistico, toglie anche gli opposti “tempo” ed “eternità”. E questo istante è, da parte sua, una suprema ripresentazione della dialettica, perché, come ha osservato Ernst Bloch, sta nel tempo senza appartenergli e comunica con l’eternità.

Occorre sottolineare dunque che, come del resto in Eckhart, la mistica di Suso è tutt’altro che un abbandono della ragione in nome dell’estasi. Anzi, per lui, proprio attraverso l’annichilimento, è possibile pervenire in ein vernunftiges land (in un territorio di ragione); sicché l’imperativo mistico Du must sinnelos werden (tu devi svuotarti di senso/pensiero) non è una rinuncia alla Vernunft, perché diversamente dal procedere usuale (aristotelico) del pensiero, la ragione di questa mistica non ha per fondamento il principio di identità e non contraddizione, ma è appunto il tenere insieme «due contrari in un solo termine», vale a dire «un nulla eterno e la sua esistenza temporale»: in altre parole, il concetto di totalità e quello di particolarità. Suso cioè elabora la formula già eraclitea della coincidentia oppositorum, che poi, da Cusano a Hegel, sarà una delle fonnule principe della dialettica.

Si è così giunti al capostipite di questa scuola: Meister Eckhart. Del quale – grandissimo pensatore – qui non si potrà dare che qualche cenno; ma basterà, per sottolinearne il fortissimo senso dialettico, citare una frase come questa: Prima che le creature fossero, Dio non era Dio. Dunque il rapporto religioso non può prescindere dalla dialettica degli opposti e dio è dio solo perché gli si contrappone, come suo opposto, la creatura. Dunque, prosegue questa arditissima mistica/dialettica, abbandonare mediante la Gelassenheit lo stato creaturale, è abbandonare anche dio! Come si vede, anche qui si tocca con mano una verità che poi Marx dimostrerà: che l’ateismo (posizione per negazione) è religioso! D’altra parte, il coincidere del vuoto umano col vuoto divino, al di là dell’uomo e di dio, essendo la cancellazione dell’alterità, toglie ambedue i termini della relazione religiosa: dio e uomo vengono bruciati e dissolti in essa. Osserverà Ernst Bloch: Dio muore nel momento in cui si genera nel Nunc æternum! Questo ateismo non e neppur più religioso, visto che toglie i termini stessi del rapporto religioso. Ed Eckhart vede benissimo che alla base dell’operazione sta l’uomo: «Se dobbiamo arrivare nel fondo di Dio e nel suo punto più intimo, dobbiamo anzitutto giungere nel nostro proprio fondo e nel nostro punto più interiore»: che poi si scopre essere l’identità stessa! Dio e Autocoscienza, dirà Feuerbach, a secoli di distanza, sono lo stesso; la maturazione di questa affermazione procede indubbiamente da Eckhart. Dio e l’apex animæ sono la stessa cosa: pare dunque che la dialettica eckhartiana si incarichi di attuare prometeicamente l’Eritis sicut dii dell’antico serpente biblico e i cardinali di santa romana chiesa fiuteranno quest’odore di zolfo! Ma anche i servi della gleba, con tutt’altra disposizione d’animo! Si legga questa frase di Eckhart: «Non v’è distinzione fra il Figlio unigenito e l’anima. Tra servo e padrone non v’è mai lo stesso amore. Finché io sono servo, sono molto lontano dal Figlio unigenito e diverso da lui». Figuriamoci come potevano suonare queste espressioni alle orecchie dei servi della gleba, calpestati, anche in nome di dio, da cristianissimi padroni, che i preti dicevano loro di amare! Non è dunque un caso che la tradizione colleghi Eckhart ai Begardi e alle rivolte sociali, che allora si esprimevano – come ha spiegato anche Engels – impiegando il linguaggio religioso/mistico.

La Gelazenheit, l’abbandono (lo si è visto per altri mistici), è la scala che anche ad Eckhart serve per abbandonare il mondo e attingere il nulla/dio, ma è pure una formidabile categoria che investe, nel mondo, quella proprietà che si stava preparando nella soocietà del capitalismo commerciale (ai suoi inizi) e sarebbe più tardi scoppiata nell’alienazione della proprietà del capitalismo industriale. Da Eckhart in poi, i mistici di cui si è parlato sono profeti. È interessante vedere come, a partire dalla loro teologia mistica e dialettica, elaborino una categoria che può diventare esplosiva, se trasposta nel sociale ed usata, non per fuggire dal mondo, ma per rivoluzionarlo. Per Eckhart, Vernunftichkeit nimet got bloz (la ragione coglie dio nudo). Noi già sappiamo che è la Gelazenheit la via che permette, in una radicale nudità, di cogliere dio nudo: nudo di attributi, nel suo assoluto nulla. Ma questa via, proprio perché distrugge il proprio (nell’uorno, nel mondo, nelle cose, in dio), distrugge innanzitutto ogni logica del potlach fra uomo e dio. Dio non è una vacca da mungere, dice rozzamente ma efficamente Eckhart! Vuol dire che ogni do ut des, ogni logica dello scambio (ma anche del dono) va cancellata fra uomo e dio. Ma ciò comporta anche una formidabile critica di ogni forma di proprietà. La Gelazenheit infatti deve proseguire finché «non si serbi più nulla di proprio»: né proprietà esteriori, né proprietà interiori (dall’io allo stesso dio: una proprietà cui il mistico dialettico deve rinunciare!). Senza volerlo Eckhart dunque disintegra dalle fondamenta ogni spirito del capitalismo, ancor prima che si affacci nella storia e vi si insedi. E tanto più, quanto più sarà portato a scollegare etica e quantità, etica e numero: Signanter valde coniucta sunt haec duo: innumerabile et honestum! La borghesia farà invece del numero (collegandovi il valore) il suo bene e il suo dio. La servitù dell’uomo all’uorno e dell’uomo alle cose (nel cui regno oggi ancora si vive alienatissimamente) è per Eckhart indegna, come è indegna nel rapporto con dio: «Se ricevessi qualcosa da Dio, sarei sotto di lui o suo inferiore, come un servo o uno schiavo, ed egli stesso, nel dare, sarebbe come un padrone: e non dobbiamo essere così nella vita eterna»! Ma la vita etema, per Eckhart, è anche questa vita, perché il rapporto uomo/dio, per lui, è eterno. Dunque schiavitù a dio, alle cose, agli uomini è cosa che Eckhart non sopporta più. Non diversamente dai suoi seguaci. Si può vedere, in particolare, la Theologie Teutsch, in cui affiora persino si direbbe il presentimento della categoria marxiana di reificazione: «Colui che ha, vuole avere, o avrebbe volentieri qualche cosa in proprio, costui stesso ne è la proprietà»! Per quest’opera anonima, ma di sicura ispirazione eckhartiana, diavolo e proprietà sono la stessa cosa, mentre «al cielo niente appartiene in proprio». La demonologia della proprietà dunque viene enunciata nel secolo che si chiude con la scoperta dell’America, che sul genocidio e sulla rapina darà fondamento all’originario capitale della società industriale. Ma anche in Böhme, ormai a Rinascimento tramontato, il tema della reificazione risuonerà formidabile: «Quando… prendi qualche cosa che desideri, la fai entrare e la accogli come tua proprietà: questo diventa una cosa stessa con te ed opera con te in una stessa volontà. E così sei obbligato a prendeme cura, a proteggerla come tua propria sostanza»!

Qui il mistico/teosofo, continuando idealmente Eckhart e la Theologie Teutsch nella sua critica all’alienazione del numero e della quantità, scopre (e profetizza per la futura società del capitale) l’alienazione della proprietà: è la cosa posseduta che diventa sostanza dell’uomo a tal punto che ne diventa la volontà, la cura essenziale, sostituendosi a lui, sicché si aliena/umanizza in lui, mentre egli si cosifica in essa! Gli farà eco Silesius: «Nelle fauci infernali nulla scaglia più di mio e tuo, parole detestabili»!

Si veda, per contrasto, cosa pensasse il borghese Jean Bodin, nella sua République, una delle maggiori opere politiche del ‘500: «Togliendo le parole mio e tuo, si fanno rovinare le fondamenta di ogni repubblica». Fra l’impostazione del mistico e quella del politico borghese v’è dunque un abisso. Quest’abisso prenderà il nome di capitale, che sulla contrapposizione di mio e tuo (e sulla valorizzazione) si edifica.

Non è dunque un caso che Marx citasse con simpatia Böhme, come non mi pare un caso che questi mistici dialettici vedessero tanto bene (e denunciassero) ogni forma di proprietà. Si dirà che non sapevano nulla del capitale: ma il capitale non è che una forma della proprietà. Criticando l’intera forma della proprietà essi dunque attingevano anche a quella forma non ancora sviluppata che si chiama capitale e che ancora, e a maggior ragione, ci aliena e ci espropria.

Concludendo: come si è visto, il taglio che ho dato alla mia lettura dei mistici, proprio perché sottolinea l’importanza della dialettica (ed ha, sullo sfondo, il riferimento a Marx) pare assai lontano dalla impostazione che Rudolf Steiner diede nella sua interpretazione dei mistici. Marx e la dialettica infatti paiono rimanere un vuoto nella Weltanschauung steineriana (come, del resto, in quella di tanti altri pensatori di quel periodo: Nietzsche, per non fare che un nome). Altrettanto chiaro, che chi voglia capire il pesante groviglio di alienazioni del mondo d’oggi a partire da Marx (cosa che mi pare, proprio oggi, indispensabile) dovrà più che mai tener conto di questo vuoto, e sottolinearlo, nella concezione di Steiner, come elemento essenziale per giungere a dare una valutazione. Quello che in un autore non c’è, è infatti altrettanto importante di quello che c’è ed è comunque indispensabile a porlo in rilievo.

E tuttavia vi sono delle istanze, nella concezione steineriana, che, mi pare, gettino ponti, e in direzione della dialettica e in quella del pensiero marxiano. Anzitutto quella, già sottolineata, del pensiero vivente, la cui esigenza si struttura in una dialettica. Come dice lo stesso Steiner: «Quella che appare una contraddizione logica fra natura universale delle idee conoscitive e il carattere individuale delle idee morali, se visto nella sua realtà diventa proprio un concetto vivente» (La filosofia della libertà, cit. p. 134). E il contesto di questo brano allude al moto pendolare vivente della realtà, sicché la sperimentabilità del pensare sfiora una concezione dialettica del pensare!

Un’altra istanza etica steineriana proclama che «l’attività morale non sta nella distruzione di una unilaterale volontà propria, ma nello sviluppo pieno della natura umana» (op. cit. p. 173). Perfino nei termini qui viene evocata, per chi conosce Marx, una delle più suggestive categorie, quella di ormilaterallità, che segna, per lui, il passaggio, dal non-uomo alienato, all’uomo veramente tale, libero perché si espande in tutte le sue potenzialità. Si tratta di un’istanza che, da Lessing a Schiller, a Goethe, giunge sino a Marx, che la collega, in vista dell’attuazione, alla prassi del toglimento rivoluzionario del capitale. Qualcosa di analogo al passaggio marxiano dal non-uomo all’uomo si trova anche nel concetto steineriano di frei Geist (spirito libero), visto che la Filosofia della libertà non concepisce «l’uomo bell’e pronto come spirito libero, ma che essa lo conduce fino a un certo gradino, dal quale egli ancor sempre si sviluppa come essere non libero, fino a quando giunge al punto in cui trova se stesso» (op. cit. p. 132). In altre parole, l’etica steineriana non parte da una natura umana fissa, data una volta per tutte, e dunque «non considera l’uomo come un prodotto finito», ma, «vede nell’uomo un essere in evoluzione, e chiede se lungo questa via evolutiva possa anche venir raggiunto il gradino dello spirito libero» (op. cit. p. 132), che pertanto si presenta come un non-ancora, come un’utopia che orienta la prassi (anche etica) dell’uomo in fieri. Certo resta enorme la distanza di questa prassi da quella marxiana (che ancora l’individuo al Gattungswesen, e, dialetticamente, la libertà sua alla libertà di tutti gli altri uomini), mentre Steiner mi pare abbia in vista soprattutto l’individuo privilegiato nella sua singolarità; ciò non ostante, come si è visto, la pulsione all’onnilateralità (strumentata in maniera diversissima) pare presente in ambedue. E questa è una verifica, come dice Steiner, del fatto che «l’uomo libero non pretende dal suo simile un accordo, ma se lo attende perché esso è nella natura umana» (op. cit. p. 123).

[*] Relazione presentata al Convegno “Verità e libertà, 1894-1994. A cento anni  dalla Filosofia della libertà di Rudolf Steiner”, Milano 10-11 dicembre 1994.