Il paradiso del gendarme
Di alfred Jarry
Fatti recenti ci hanno consentito di osservare da vicino alcuni esemplari, particolarmente belli, dell’organo prensile della società: il gendarme.
Le condizioni del nostro rapportarci a quegli esemplari furono eccellenti, anche se tali da farceli considerare sotto una luce troppo favorevole. Poiché non eravamo detenuti tra le loro mani, la suprema autorità li aveva confidati alle nostre in ragione di un esperimento.
Sorvoleremo rapidamente sulla morfologia esterna di questi militari, d’altronde in tutto e per tutto conforme alle notissime effigi presentate nei teatrini di marionette per formare l’animo dei bambini.
Sottolineiamo invece il fatto che una sordida amministrazione, quando sono in servizio, rifiuta loro l’uso del tricorno, a detrimento del loro prestigio tradizionale. Non citiamo il detto di cattivo gusto, secondo il quale «prima li sentiamo, poi li vediamo», se non per ricavarne un insegnamento filosofico: in realtà, dato l’esiguo numero degli esemplari in circolazione, non li si vede mai. E il «si» è riferito particolarmente ai loro compagni naturali di strada, i malfattori.
Per quanto riguarda la loro lingua, non abbiamo rilevato alcun uso eccessivo di avverbi. Qui, pertanto, non nutriamo altra pretesa che non sia quella di abbozzare una piccola psicologia del gendarme, come già avevamo fatto per il militare e il magistrato.
Era prevedibile che l’abitudine, contratta da lunghe generazioni, di essere a caccia di crimini e delitti di ogni tipo – o, meglio, di un certo numero di crimini e delitti – avesse contribuito a forgiare un animo speciale, al giorno d’oggi molto ben definito e caratteristico della specie. Il momento sembra dunque propizio per sondare questi cervelli oscuri.
Nei nostri esperimenti succede un fatto, che sicuramente stupirà l’uomo onesto: il gendarme offre una interpretazione diversa, rispetto a quella dell’uomo onesto, su che cosa sia una azione legalmente cattiva. «Cattiva», per lui, indica soltanto che deve esercitare, come remunerazione, il proprio mestiere. In altri termini, gli indica che ogni azione cattiva è buona, perché gli dà di che vivere.
Eccoci dunque a condannare gli infami desiderata del gendarme: il suo paese di Cuccagna sarà quello in cui ogni cittadino non andrà a caccia, se non quando è vietato e, ovviamente, senza licenza: in cui lo stupro sia pratica di tutti i giorni e l’omicidio la relazione sociale più ricorrente.
Tuttavia, malgrado i nostri tentativi per ottenere delle confidenze più specifiche, ci pare che il gendarme non aspiri ancora, se non confusamente, a questo benedetto avvenire e ricolleghiamo il tutto al suo raro atteggiamento di altruismo. Così, non approva l’omicidio se non quando non lo riguarda per niente, ossia quando è autorizzato dalla legge. Un esempio: la legittima difesa. Il gendarme si rallegra che il borghese chiuso nel suo recinto massacri il bandito che sta saltando il muro. Eppure, per un bizzarro scrupolo, questo medesimo gendarme detesta che si uccidano persone che stanno passando dall’altra parte del muro. Già ci immaginiamo un metodo che metterebbe tutti d’accordo e che consiste nel trascinare da una parte, le persone uccise dall’altro lato del muro.
La cattura di un autentico malfattore è comunque fuori questione: l’uniforme si vede da troppo lontano e bisognerebbe che il gendarme si vestisse con abiti civili, ma in tal modo terminerebbe di essere un gendarme e non avrebbe più psicologia.
[trad. tysm, parte I]
tysm literary review
vol. 12, no. 19
september 2014
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