philosophy and social criticism

Il calcolo dei dadi. Nota sull’azzardo

"calcolo dei dadi"

di Enea Bianchi

da Agalma. Rivista di studi culturali e di estetica, n. 26 ottobre 2013

Tutti conosciamo il mondo del gioco d’azzardo, almeno per sentito dire, data l’enorme quantità di pubblicità, promozioni su Internet e film al riguardo. Ma questo mondo con cui abbiamo a che fare quotidianamente, come si presentava nei secoli passati? Quando si è incominciato a parlare di “azzardo” nella vita degli uomini, e perché dal Vangelo a Nietzsche passando per Galileo troviamo così importanti e variegati pensieri sul rapporto tra la vita e la casualità del gioco?

Su queste e altre interessanti domande getta luce Marco Dotti nel suo ultimo libro Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana (ObarraO, Milano 2013).

La nozione di azzardo, scrive Dotti, rimanda alla Bistorta rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo da Tiro, redatta intorno al XII secolo, in cui viene descritto un castello denominato Hasart. Successivamente un anonimo diffuse l’opera in Francia tra il 1220 e il 1223, aggiungendo che proprio quel castello fu dove nacque il “gioco dei dadi”.

Di questo gioco (che ebbe un grande successo fra i crociati) non sappiamo niente fuorché l’utilizzo appunto dei dadi come strumento principale, e la condizione di totale perdita dell’abilità del giocatore in favore della cieca casualità. Dunque il termine azzardo deriverebbe dall’etimologia araba az-zahr, ovvero il dado utilizzato in tale gioco. Anche il dado ha un’etimologia che merita la nostra attenzione: “deriva dal latino datum, gettato, lanciato; parimenti, caso deriva da casus, ossia cadere. Il dado è ciò che cade, ma una linea arrischiata e sottile lo approssima a un’altra parola dal doppio taglio: debito. Come un debito, infatti, scade. Anche quando dà l’illusione di non scadere mai” (p. 48). Un dado lanciato deve fermarsi da qualche parte dopo la sua caduta, ma in quanto tale lancio è illimitatamente disponibile, è allo stesso tempo destinato a non smettere mai di cadere. Anche nel medioevo cristiano si era soliti giocare d’azzardo, tuttavia i dadi erano sostituiti col Vangelo! Questa pratica a cui era solito ricorrere anche San Francesco “consisteva nell’aprire a caso, per tre volte, un Vangelo sperando di trovare le indicazioni per uscire da situazioni critiche, dirimere questioni pratiche o dilemmi morali” (p.41). Ed è proprio nel Vangelo che, ricorda Dotti, viene narrato uno degli episodi più conosciuti in cui figura l’azzardo: i soldati incaricati della Crocifissione che tirano a sorte per dividersi le vesti del Cristo.

Il Mantegna come pochi altri nella sua Crocifissione del 1459 ha saputo accompagnare alla drammatica sacralità del momento l’indifferenza profana dei soldati: questi “sono bravi giocatori, buoni soldati, forse persino retti cittadini. Ma nondimeno[ … ] essi non comprendono che si stanno mettendo ben più radicalmente in pericolo” (p .93). I soldati con le stesse mani con cui hanno inchiodato Gesù Cristo qualche minuto prima, giocano a dadi come se nulla fosse, rimanendo per così dire chiusi nel cerchio del demone del gioco.

Per comprendere questa sorta di circolarità della dimensione dell’azzardo, Dotti riprende un racconto di epoca medievale. In questo racconto chi gioca d’azzardo viene paragonato a un arciere che scaglia una freccia verso il cielo con l’intento di colpire Dio: la freccia ritorna indietro e nel racconto cade inevitabilmente su chi l’ha scagliata. Per Dotti la metafora serve ad illustrare come in realtà la “posta in gioco” dell’azzardo sia già in partenza il suo ritorno al giocatore, nel senso di “un oggetto che si fa gioco dell’oggetto che tenta di dominarlo” (p. l8). In questo ritorno enigmatico, nel momento in cui i dadi danzano in aria c’è l’apertura “dei possibili”, il punto di contatto tra finito e infinito, che non è altro che un rimando a un ignoto, e dopo ogni lancio a un ignoto ulteriore.

È per questo che, scrive Dotti, è impossibile rispondere alle domande “Ma chi gioca? Chi ci gioca?” perché sono domande che al pari dei dadi, ogni volta che vengono poste rimandano per così dire ad altre domande in continuazione. Una possibile risposta alla domanda sul “Chi” del giocatore è stata intravista da Nietzsche con il suo amor fati. Tutto quello che accade attorno a noi secondo Nietzsche non solo va accettato in quanto nostro proprio destino, ma va voluto come tale, ardentemente e giocosamente – non a caso la figura dello spirito libero nietzscheano sarà poi quella di un danzatore che ha tra le proprietà fondamentali quella del riso per smascherare gli ideali metafisici, e dunque ecco “chi gioca” secondo Nietzsche.

Risposte differenti sono state date invece da Galileo nello scritto del 1612 intitolato Sopra le scoperte dei dadi, e da Gerolamo Cardano nel Liber de ludo aelae. Entrambi hanno tentato di dare una spiegazione scientifica ai risultati della sorte nel lancio dei dadi. Più in particolare Cardano arriva a questa conclusione: “Se un dado può cadere su ognuna delle sue sei facce, i sei esiti formano uno spazio campionario, sul quale calcolare l’esito di una probabile scommessa per legare la sorte” (p.39). Anche due eminenti scienziati si devono comunque fermare di fronte ai colpi del caso e accontentarsi di un calcolo delle probabilità al fine di ottenere esiti favorevoli. 

Dotti prende poi in considerazione l’intuizione dell’imprenditore francese François Blanc, progettista del casinò di Montecarlo, il quale togliendo gli orologi nelle sale da gioco, alterò i meccanismi di reazione e di azione dei giocatori, dilatando il tempo in una sospensione irreale, e relegandolo semplicemente a estensione ludica del giocatore.

Il problema principale su cui pone l’accento Dotti, è che nel corso degli ultimi due secoli con l’avvento dell’industrializzazione globale, e più recentemente con l’espandersi dell’azzardo di massa è venuta meno quella separazione tra gioco e vita ordinaria che invece sussisteva nei secoli precedenti. Il gioco è e deve restare uno spazio altro rispetto al quotidiano. Se invece, come appunto accade oggi, questo spazio esclusivo del gioco viene a fondersi “nella totalità ordinaria dell’esistenza, sottoposto a esigenze funzionali e non accidentali, da estasi rischia di diventare metastasi non meno del soggetto, che dell’oggetto” (p.l8). Non a caso Dotti scrive che in passato è stato possibile incorporare il tempo nel gioco, e cioè era possibile individuare un momento preciso dedicato al gioco, ora è invece proprio il gioco a essere incorporato nel tempo, vale a dire il gioco “irretisce” il giocatore, “si fa gioco” di lui. In altri termini prima accanto al tempo della normalità esisteva il tempo della festa – il tempo del gioco –, oggi siamo passati a un “tempo senza festa” in cui paradossalmente si gioca in ogni momento! L’uomo non è più homo ludens, adesso è homo illudens, “integralmente schiacciato su un presente eterno perché senza tempo” (p. 51 ).

Questo schiacciamento, potremmo dire uni-dimensionale e uni-temporale, ha secondo Dotti delle similitudini con la condizione del lavoratore salariato descritta da Benjamin: il lancio del gioco d’azzardo, così indifferente e ripetitivo, è analogo alla condizione dell’operaio sulla catena di montaggio, costretto a mettere sempre fuori gioco novità e creatività e proprio per questo abitabile dai demoni dell’alienazione.

C’è quindi una relazione tra la mercificazione e la reificazione del reale e il gioco d’azzardo contemporaneo? Secondo Dotti sì, la mercificazione del tempo ha invaso di tavoli da gioco le nostre vite, ed è attraverso il denaro che si è dato impulso alla cosiddetta gamification: il consumo che diventa attività pseudo-ludica. Ogni momento della vita è potenzialmente ludico, visto che non si dà più la separazione fra il tempo ordinario e quello della festa.

Nella “società eccitata” – Dotti qui riprende le analisi del filosofo tedesco Christoph Türcke – il gioco non è nient’altro che un anestetico: anestetizza il profitto nel ludico. In quest’ottica va seguita l’esplosione dei casual games, ossia dei videogiochi per smartphone, PC e non solo, i quali dilatano e trasformano il nostro modo di rapportarci con noi stessi e con gli altri, sotto il segno dello pseudo-ludicità. Vi si può giocare in ogni momento, ed è proprio per questo motivo che si gioca quando si lavora, mentre si consuma un pasto oppure in compagnia di amici.

Più si gioca e più tuttavia ci si allontana dal mondo che ci circonda, perché si è inevitabilmente sempre da un’altra parte: appunto, nella dimensione della completa disponibilità del gioco/ denaro.

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tysm literary review, Vol 6, No. 10,  December 2013

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