“DE ROUILLE ET D’OS”. LA POTENZA DEL CORPO MUTILATO
di Elisa Fiorucci
Nota su: Un sapore di ruggine e ossa (Francia, 2o12) di Jacques Audiard
La pluricodicità del cinema è fatto noto.[1] Poiché “non c’è opera che non abbia il suo seguito o il suo inizio in altre arti”[2] anche questo piccolo diamante grezzo di Audiard stabilisce un dialogo aperto con la raccolta di racconti da cui è tratto: “Rust and bone” di Craig Davidson, ovvero otto storie, otto vite a cui rimane solo il corpo come forma di interazione e di scambio con l’altro. Ed è proprio quel corpo, logorato, insanguinato, maltrattato, a regalare alle anime che lo abitano la possibilità di una sperimentazione affettiva. Dal libro al film, pur nella permanenza del corpo come soggetto centrale – tutto il cinema di Audiard è un cinema dei corpi, come testimonia l’aderenza della cinepresa alla fisicità. – gli spostamenti sono evidenti e significativi. I fisici brutali di un’umanità di lottatori, alcolizzati, giocatori d’azzardo e ninfomani confluiscono nel corpo algido di una donna (Marionne Cotillard) in cui convivono quelle forze ancestrali ed una sensibilità morbida benché solida, tali da proiettare la protagonista oltre il dimorfismo stereotipizzato di genere, oltre la configurazione somatopolitica del genere,[3] con una straordinaria carica erotica che trapassa lo schermo.[4]
Così mutilato, quel corpo naturalmente sensuale, arricchito di tatuaggi e protesi, assume le fattezze di un postmoderno cyborg, un ibrido fra macchina e organismo,[5] che mantiene una sua naturale umanità insieme alla grazia di una bellezza non convenzionale. La forza di quel corpo giace nella sua ambiguità informata da una mancanza, quella stessa mancanza che in “Sur mes levrès” intaccava l’udito di Carla (Emmanuelle Devos) segretaria stakanovista quasi autisticai[6]. Ma è proprio quel limite fisico ad offrire alla donna la possibilità di un’altra vita e di un altro universo affettivo. Se la capacità di leggere le labbra permette a Carla di superare il suo handicap fisico e sperimentare la passione di incontro inaspettato, la mutilazione di Stéphanie è il deterrente per la scoperta di un mondo sconosciuto e pulsante e di uno scambio sessuale paradossalmente più intenso di una logora relazione di coppia. Quel corpo nuovo assume una potenza espressiva dirompente, estranea all’autocompiacimento e ai patetismi di ogni sorta, e sospinto verso nuove forme dell’esistenza, l’attaccamento alla quale è forza propulsiva inscindibile dalla passione erotica.
Al di là di questa dimensione “sociologica”, il film possiede anche un valore intrinseco (ovvero estetico) che ruota attorno ad un concetto del bello, incurante di finalità specifiche e del valore di scambio del prodotto cinematografico. Audiard insiste nella realizzazione di un’opera che rivendica l’importanza del bello tout-court, espresso da immagini sempre curate fin nel dettaglio, ostinatamente contrario alla direzione, annunciata da Andrew Dudley, di una crisi, e relativa cancellazione, della dimensione estetica nell’indagine filosofica di un film[7].
In questo senso il cinema di Audiard apre il dibattito sulla questione autoriale, non tanto legata alla qualità tecnica o allo spessore culturale del regista, quanto ad una sorta di marchio di riconoscibilità che pervade le pieghe del racconto, le sfumature di uno stile altamente personale. L’identità forte e immediatamente riconoscibile è il segno visibile di questa autorialità legata ad elementi ricorrenti, facilmente individuabili anche a partire da un’unica inquadratura. Jaques Audiard è, a tutti gli effetti un autore. Figlio d’arte – Michel, suo padre, è stato un nome di primo piano del cinema francese, dissociatosi dalla politiques des auteurs, orgoglioso della sua posizione di anarchico di destra – Audiard è fine scrittore e consapevole autore, prima che regista. Lo si riconosce da quella prossimità stabilita fra la cinepresa e i corpi, da una potenza espressiva che travalica, senza troppo rumore, le forme logore di un immaginario riciclato, da un’esplorazione appassionata dell’uomo che gli permette di entrare nei soggetti, di scavare al loro interno senza psicologismi, indagando le loro percezioni sensoriali e, soprattutto, emotive, restituendocele in tutta loro complessità. Ciò che rende conto della natura autoriale di quest’opera è la sostanza stessa dell’emozione, un’emozione liberata, che inventa nuove forme, lontane dai modelli emotivi prefabbricati del mercato. Anche l’elemento della violenza, disseminato trasversalmente nel film, non solo nelle scene di combattimento, si distacca da una certa gratuità della visione e da immagini standardizzate che ingabbiano lo spettatore in un tedioso deja vu. Confermando, se ce n’era bisogno, quanto scriveva Deleuze sul vero e sul cattivo cinema : “Il cattivo cinema utilizza sempre circuiti già belli e fatti della sottocultura, della violenza e della sessualità in ciò che è rappresentato, una mescolanza di crudeltà gratuita e di stupidità organizzata. Il vero cinema raggiunge un’altra violenza, un’altra sessualità, molecolari, non localizzabili.[8]
Un sapore di ruggine ed ossa sembra, nel suo complesso, un atto di resistenza alla morte, riferita tanto allo spegnimento emotivo dei protagonisti, quanto alla morte del cinema, di un certo tipo di cinema. Forse Audiard, come Deleuze, disconosce la funzione informativa dell’arte per concepirla esclusivamente come atto di resistenza, resistente alla morte[9] Resistenza e liberazione sono i due moti che informano tutto il cinema di Audiard, prendendo forme diverse e complementari: l’istinto di sopravvivenza in “Regarde les hommes tomber”, il movimento del desiderio in “Sur mes levres”, il potere redentore della musica in “De battre mon coeur s’est arrêté”, l’appropriazione delle regole carcerarie in funzione liberatoria ne “Il Profeta”. Fino al rumore dei denti rotti che rotolano sull’asfalto e a quello sordo di ossa che si rompono, segnali di una tragedia da cui nasce nuova vita.
Note
[1] “Il cinema è maggiormente aperto alle contaminazioni di quanto non lo siano le altre arti”. Cfr C. Metz: Langage et cinéma, Librairie Larousse, Paris 1971 (Trad. it. Linguaggio e cinema, Bompiani, Milano, 1977).
[2] Ivi, p. 30.
[3] B. Preciado, Testo Yonqui, Espasa Libros, s.l.u., 2008.
[4] Fra gli altri spostamenti prodottisi dal libro al film vi è da rilevare l’invenzione di nuovi personaggi non presenti nella storia originale, la centralità conferita all’elemento amoroso e lo stravolgimento del finale, dettato, quest’ultimo, dalla volontà di Audiard di non cadere nelle grinfie della tragedia perché “la tragedia è il prodotto della mancanza di immaginazione”
[5] La figura del cyborg risulta dall’incrocio fra cyberg e organism, mix di carne e tecnologia che caratterizza il corpo modificato da innesti di hardware, protesi ed altri impianti. Ciò che più rileva in questa figura è l’attraversamento dei confini che il cyborg opera, realizzando così un reale cedimento della barriera fra umano/animale, macchina/organismo, fisco/non fisico. I cyborgs, invece, non sono riducibili alla logica binaria, strumento di conoscenza e ordine della realtà, “instead of either/or, they are neither/both”. Vedi D. Bell, Cyberculture Theorists. Manuel Castells and Donna Haraway, New York, Routdledge, 2007, p. 107.
[6] Pare che Audiard si sia accorto del parallelo fra i due film solo in fase di montaggio, quando il suo sguardo si è posato su di un corpo femminile mutilato che, proprio attraverso questa mancanza, stabilisce un contatto con l’altro, un contatto che si trasforma in esperienza affettiva.
[7] Dudley Andrew sostiene che la parola estetica è stata praticamente cancellata dalla teoria del film. Cfr D. Andrew, Concepts in Film Theory, Oxford University Press, New York, 1984, p. 10.
[8] G. Deleuze, Le cerveau, c’est l’écran, in Cahiers du cinéma, febbraio 1986 (trad it: A Moscati, Che cos’è l’atto di creazione, Edizioni Cronopio, 2003, p. 29).
[9] “L’arte è la sola cosa che resiste alla morte”. G. Deleuze, Ivi, p. 23.
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tysm literary review, Vol 6, No. 10, December 2013
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ISSN:2037-0857