“Dai morti si solleva una battaglia”. Addio a Juan Gelman
di Marco Dotti
da il manifesto, 15 gennaio 2014
«Dai morti si solleva una nuova battaglia», scriveva Juan Gelman. Ai vivi restano la polvere e pochi graffi su un muro. Segni deboli da interpretare, se ne saremo capaci. Se «l’utopia non ci si sarà seccata in testa». «Nessuno», leggiamo in una sua poesia della raccolta Valer la pena (traduzione di Laura Branchini, Guanda), «ti insegna a essere mucca», così come «nessuno ti insegna a volare nello spavento».
Ebreo di origine ucraina, comunista da sempre e per sempre, giornalista prima alla rivista Crisis e poi redattore capo del quotidiano Noticias, poliglotta sensibile alle voci del mondo, Juan Gelman si è spento il 14 gennaio scorso a Città del Messico, dove viveva da circa vent’anni.
Nel vortice dello «spavento», Gelman ci era volato davvero e più di una volta, ma sempre con rigore e coraggio. Nel 1975, l’allora membro delle Forze armate rivoluzionarie e della gioventù montonera si era recato all’estero per spiegare al mondo ciò che il mondo non voleva capire, né sapere sui crimini con cui laTriple A, l’Alianza anticomunista argentina, stava «riformando» il paese. Non fece ritorno, perché «condannato a morte» dal regime. Alla madre morta durante il suo esilio, Gelman ha dedicato uno dei suoi lavori più belli (Carta a mi madre), mentre in Salarios del impíos (1993) racconterà il suo male che per il sin tierracoincide con la doppia estraneità delle parole e delle cose.
Ma le cose vanno viste e raccontate, anche con la poesia. Una poesia che, in Gelman, fin dal suo esordio del 1956 con Violín y otrascuestiones, è sempre stata un dialogo con gli amici lontani (la madre, i famigliari, i compagni scomparsi), ma anche il terreno necessario del dubbio. Specialmente negli ultimi anni, quando la sua lettura dei mistici ha riaperto il grande campo dell’esilio. La prestazione fondamentale sottesa alla sua opera appare allora come una cartografia di questo esilio, ovvero di ciò che ci lascia nudi, davvero nudi dinanzi allo sconforto della ragione.
Solo nella poesia è possibile rilanciare infinitamente i propri dadi, soprattutto ora che si sono distratti i signori del marketing e i distratti si accorgono che «non tutto si può pagare incontanti o a credito». Il coup de dés della poesia di Gelman è la prova di questa verità e al tempo stesso la sottrazione a tutte le maschere che questa verità reclama.
La disperazione poetica, in ogni sua forma, compresa quella della riscrittura dei grandi cabalisti spagnoli a cui si è alacremente dedicato (com/posizioni, Rayuela edizioni) appare in Gelman un transito a una rinnovata ispirazione pratica. Una parola senza insediamento, senza luogo, che proprio quando ritrarsi all’interpretazione, si apre sul confine sempre incerto dell’ altro: parola «senz’altro padrone che il cammino».
Qua e là non è difficile cogliere riferimenti al figlio ventenne, Marcello, e a sua nuora Maria, rapiti, torturati e uccisi dai militari.
Maria era però incinta di sette mesi al momento della scomparsa e Gelman non rinunciò mai a rincorrere, inseguire, decifrare le tracce esili – ecco nuovamente, qui, i «segni deboli» da interpretare – della bambina. Nata? Morta? Mai nata? Alla fine, tredici anni fa, la ritrovò in Uruguay dove era registrata come figlia di un poliziotto.
«Nessuno racconta la sospensione dell’uccello in ogni cosa di fuori. E perché allora la poesia dovrebbe raccontare le processioni della memoria terribile dentro la carne che s’incurva?» Parafrasando René Char, Juan Gelman amava scrivere e ricordare che «bisogna saper leggere le regole dello sgomento anche in una città illuminata dal sole». Nei giorni che sembrano felici, i grandi crolli sono annunciati da piccoli cedimenti nelle parole. Il compito del poeta è lavorare con la materia oscura di quelle parole, decifrando, traducendo, riscrivendo.
Anni addietro, intervistandolo per il manifesto ci disse: «comincio a scrivere quando sento un rumore all’orecchio e mi prende un malumore straordinario. Sento dentro di me un’ossessione. Quello che tutti chiamano ispirazione per me è soltanto questo: un’ossessione. Non so di preciso che cosa mi accada. Potrei dire scherzando, ovviamente – che scrivo per leggermi e capire, a posteriori, quello che mi accade.(…) La poesia è una signora molto occupata, poiché ci sono poeti dappertutto. Bisogna aspettarla, non chiamarla. Non è questione di pazienza o di volontà. Si tratta di attendere che arrivi con ciò che ho chiamato ossessione». E ancora, parlando di sua nipote e di desaparecidos: «quando si parla di numeri, il caso sparisce. Si dice che sono stati trentamila, centomila, diecimila. Solo numeri e tutte le storie personali – il dolore, la rabbia, la vita – sono assorbite dalla cifra. Al contrario, quando si sottolinea una caso particolare, allora anche tutti gli altri si illuminano. È il volto che riappare. Non il numero».
Pochi giorni fa, infine, una domanda che ora più che mai suona come una chiamata verso quelle forme di comunità e di pensiero ancora e sempre da costruire. Anche con la poesia: «nella mano che colpì il nemico risiedeva anche il male. Con che bontà, allora, si colpisce l’ingiustizia?».
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tysm literary review, Vol 6, No. 10, December 2013
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