Charlie-Hebdo: il principio «due pesi, due misure» e l’universalismo
di Jean-Loup Amselle
In certi settori dell’opinione pubblica, particolarmente tra i ricercatori e gli intellettuali, è oramai comune e prevalente l’idea che lo sviluppo di una destra estrema e di tutto ciò che la accompagna – come il riaffiorare dell’antisemitismo – manifesterebbe il ritorno di un fenomeno tipico degli anni Trenta.
Secondo questa linea di pensiero, la conquista dello spazio pubblico da parte di idee di destra e di estrema destra e la confusione che, oggi, regna sovrana nel dibattito intellettuale altro non sarebbero che la semplice riproduzione di eventi sorti prima della Seconda guerra mondiale: dall’esistenza di leghe faziose alla presenza di una stampa antisemita, fino ai salti di barricata di intellettuali pronti a passare dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Nuovi rancori
L’antisemitismo attuale, che per distinguere dalla sua vecchia forma potremmo chiamare giudeofobia (in francese: judéophobie), sembra però avere caratteristiche peculiari. Si inscrive, infatti, nella nuova congiuntura del dopo-Seconda guerra mondiale, una congiuntura segnata dalla nascita dello Stato di Israel, dall’oppressione subita dal popolo palestinese, dalla decolonizzazione e dall’emergere del multiculturalismo e del postcolonialismo.
Mentre il vecchio antisemitismo era tipico di un’estrema destra «bianca», benché questa forma ancora sussista, va detto che l’attuale giudeofobia è tipica soprattutto di minoranze discriminate, in particolare quelle «black» e «beur», nere e nordafricane, e poggia sul principio che potremmo chiamare dei «due pesi, due misure».
Secondo questo principio, esisterebbe un’ineguaglianza di trattamento fra ebrei e musulmani. I primi godrebbero di un trattamento di favore da parte dell’opinione pubblica e, sempre secondo questo principio, sarebbe impossible torcere un solo capello agli ebrei senza provocare ondate di contestazione e riprovazione sui media. I musulmani, al contrario, sarebbero oggetto di tutti gli insultii possibili (insulti islamofobi e attentati contro le moschee) senza che una sola voce si levi in loro soccorso.
Se questo accade – tale è il ragionamento dei giudeofobi – accade in ragione del fatto che gli ebrei beneficiano della protezione di una lobby sionista, ricca e potente, che controlla i media e l’economia, tanto in Israele, quanto nei paesi occidentali, Francia inclusa.
Nell’orizzonte di un conflitto
Il conflitto israelo-palestinese è l’orizzonte ultimo dell’attuale antisemitismo, a cui dobbiamo aggiungere il passato coloniale della Francia che, proprio perché occultato, è il collante fra neri e nordafricani.
In questo senso, l’attitudine favorevole nei confronti di Israele – espressa negli ultimi anni dai governi francesi, tanto di destra, quanto di sinistra, unita alla politica anti-musulmana di François Hollande in Mali, Repubblica Centrafricana e, in nome della lotta contro il « terrorismo » in Iraq – sono legati agli atti antisemiti che hanno devastato la Francia negli ultimi anni.
Lo testimoniano l’attentato realizzato da Mohamed Merah contro una scuola ebraica a Tolosa, nel 2012, quello a opera del francese Mehdi Nemmouche contro il Museo ebraico di Bruxelles nel maggio del 2014 e, ultimo, l’attacco e il massacro compiuti dai fratelli Kouachi, in nome della lotta contro «giudei» e «crociati», contro Charlie Hebdo oltre a quello del loro complice Amedy Coulibaly contro il negozio di alimentari kosher di Porte de Vincennes, a Parigi.
Tutti questi crimini e attentati, per quanto odiosi e esecrabili, sono stati oggetto di strumentalizzazione e recupero da parte del governo israeliano che se ne è servito per accelerare la migrazione (aliyah) degli ebrei francesi verso Israele. Lo stesso vale per il governo francese che non ha smesso di dare sostegno alle istituzioni ebraiche in Francia e al governo israeliano, durante l’ultima offensiva su Gaza, vietando manifestazioni pro-palestinesi.
François Hollande, in difficoltà nei sondaggi è preoccupato per la sua rielezione nel 2017. Non ha pertanto esitato a lanciarsi in una operazione di comunicazione sfociata nelle mega-sfilate che si sono tenute l’11 gennaio in tutta la Francia.
Queste manifestazioni sono state « presenziate » dalla maggior parte dei capi di Stato occidentali e seguite dalla partecipazione di Hollande, al fianco di Benjamin Netanyahu, alla preghiera della grande sinagoga di Parigi, in onore delle sole vittime ebree.
Questo ultimo gesto, non poco ha fatto per minare il principio di laicità e neutralità religiosa a fondamento della Repubblica francese e per alimentare il già citato principio dei «due pesi, due misure».
D’altronde, non si sono fatte attendere le reazioni provenienti dagli ambienti postcoloniali antisemiti, ad esempio quella del polemista Dieudonné. Alcuni suoi spettacoli erano già stati vietati dal Ministro dell’Interno e a caldo, nei giorni scorsi, Dieudonné si è lanciato in un: « Je suis Charlie Coulibaly », dal nome del jihadista che ha commesso l’attentato al negozio kosher.
Anche se Dieudonné è stato sottoposto a custodia cautelare e dovrà essere giudicato per apologia di terrorismo, è fuori da ogni dubbio il fatto che la sua dichiarazione troverà eco favorevole negli ambienti discriminati «black et beur».
E questo, sempre in ragione del principio «due pesi, due misure» applicato alla libertà di espressione : perché accusiamo Dieudonné di fare umorismo fuori luogo a proposito dei recenti massacri, mentre Charlie Hebdo ha pubblicato e continua a pubblicare caricature di Maometto?
In effetti, attraverso la rivendicazione del rispetto del principio dei «due pesi, due misure», ciò che viene chiesto dai milieux discriminati è in effetti una discriminazione positiva, ossia il trattamento di favore di una religione – l’Islam – che appare sempre più la religione degli oppressi.
La lezione o l’equivoco
Ma l’equivoco resterà totale, finché i laici di Charlie Hebdo o del Canard enchaîné non avranno compreso che la loro rivendicazione universalista del diritto di «mangiarsi i preti», fossero pure musulmani, non può passare in settori dell’opinione pubblica che reclamano particolare considerazione, in rapporto allo statuto di religione discriminata che attribuiscono all’Islam.
Poiché l’Islam, che lo si voglia o no, è diventato al pari di altre confessioni (Pentecostali) la religione degli oppressi, non solo dei neri o dei nordafricani, ma anche dei francesi che vengono da famiglie non musulmane e che in esso trovano un sostituto a ideologie universaliste scomparse dal campo politico e sociale.
Se possiamo trarre una lezione da questi avvenimenti, è che gli attentati e i massacri commessi dai jihadisti Chérif e Saïd Kouachi e da Amedy Coulibaly, il 7 e 9 gennaio 2015, avranno paradossalmente avuto come effetto quello di riunire la popolazione francese, fino a ora profondamente divisa, attorno a valori come la laicità e la libertà di espressione.
Non di meno, resta il fatto che le reazioni a questi medesimi avvenimenti, nel contesto attuale, possono apparire come manifestazioni di ostilità nei confronti dei soli musulmani di Francia, poiché proprio loro sono chiamati a giustificarsi per atti che non hanno commesso (come testimonia il recente dibattito tra il giornalista Ivan Rioufol e la militante antirazzista Rokhaya Diallo).
D’altronde, non può darsi il fatto che il fine di questi jihadisti fosse proprio quello di mostrare l’impossibilità dell’esistenza di un Islam pacifico, dato che i loro « fratelli » palestinesi sono schiacciati dall’esercito e dai coloni israeliani e lo Stato islamico viene bombardato da aerei della coalizione Occidentale?
traduzione di marco dotti
da il manifesto, 17 gennaio 2014
L’autore
Jean-Loup Amselle, antropologo e autore del recente Les nouveaux rouges-bruns. Le racisme qui vient (Editions Lignes, 2014), è direttore di studi all’Ecole des Hautes Etudes di Parigi. Tra le altre cose, ha dedicato importanti studi e ricerche al meticciato e all’arte africana.
tysm literary review
vol. 16, issue 21
january 2015
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