philosophy and social criticism

Teologia biopolitica. Liberarsi dai monoteismi?

di Marco Dotti

Rivolgetevi a due talmudisti e vi ritroverete con tre interpretazioni diverse. Una battuta che dice molto. Non a caso Peter Sloterdijk, che ama mischiare serietà, ironia e paradosso, la ricorda nel capitolo centrale del suo Furore di Dio (Cortina, Milano 2008).

Un lavoro dedicato a quel fenomeno che, da almeno una decina d’anni, passa sotto il nome di «clash of monotheisms» e in qualche misura racchiude in sé il tema forse altrettanto controverso, ma di certo più trito e abusato dello «scontro di civiltà».

La battuta sui talmudisti serve a Sloterdijk per introdurre un diverso piano del conflitto: quello fra interpretazioni e, soprattutto, fra intenzioni ed esiti delle interpretazioni all’interno di uno stesso canone religioso. Le interpretazioni, si chiede, possono essere considerate al pari di un farmaco per mitigare il furore religioso che sembra implicito nella nozione stessa di monoteismo?

Addomesticare i monoteismi

Possono, queste interpretazioni, dare corpo a quello che l’autore definisce un vero e proprio «addomesticamento dei monoteismi»? La nozione di «monoteismo» viene intesa qui in termini elementari e diretti, riferita in particolar modo alla portata «missionaria» e al «contenuto universalistico» delle tre religioni dell’unico Dio: ebraismo, cristianesimo e Islam.

Sloterdijk tiene a precisare che il suo percorso nel campo, quanti altri mai minato, della sfera religiosa va inteso attenendosi (tutti: autore e lettori) a una sorta di «clausola di blasfemia», a un principio elementare di fraintendimento, quasi si fosse sempre in due, come i talmudisti già ricordati, ma le intepretazioni sfuggissero di mano, per numero, intensità e specie.

Questa «clausola di blasfemia» Sloterdijk la estrapola da un’affermazione di Jacques Derrida, secondo il quale «la guerra per “l’appropriazione di Gerusalemme” è oggi la guerra mondiale. Ha luogo dappertutto, è il mondo». Pronunciata nella primavera del 1993, nel corso di una conferenza a Riverside, in California, l’affermazione appare a Sloterdijk troppo perentoria ma, in qualche misura, decisiva. «Premetto alle mie argomentazioni la dichiarazione di Derrida – scrive – non perché la intenda come uno slogan programmatico quanto, piuttosto, perché è un segnale d’allarme che dirige la nostra attenzione su un luogo semantico e politico del mondo attuale particolarmente pericoloso, addirittura esplosivo».

Allontanandosi non poco dalle intenzioni di Derrida, senza tuttavia cadere nel tranello di considerare il medio e il vicino oriente solo come luoghi in cui «tre escatologie messianiche» entrano in conflitto fra loro, Sloterdijk sviluppa un lungo, interessante percorso di riflessione sul fenomeno religioso, servendosi di alcune intuizioni del biologo e sociologo Mülmann in tema di stress e ricordo sociale. Mülmann – e Sloterdijk con lui – considera le «civiltà» al pari di tante unità autonome capaci di apprendimento i cui simboli e rituali – la cui «cultura» – è determinata direttamente da grandi reazioni collettive a stress altrettanto grandi.

L’ira mitica, il furore divino, l’autoafflizione mistica, la possessione e tutti quei contrassegni fisici «di fede» spesso estrema che Rudolf Otto faceva ricadere nella categoria del mysterium tremendum rientrerebbero invece in quella dello stress e dei meccanismi endogeni di reazione generati dalle esperienze limite, individuali e, soprattutto, collettive.

Teologia biopolitica

La riflessione di Peter Sloterdijk si sposta quindi su quelle particolari forme di esperienza che, fin dal titolo, egli definisce del «furore di Dio», esperienze e forme caratterizzate dall’idea che i loro «attori» hanno di essere attraversati o abitati da una trascendenza e che, nel corso della storia, dalla Pesah ebraica passano attraverso fasi di riadattamento cristiano e giungono infine alla «prosecuzione dell’universalismo cristiano con mezzi non cristiani» tipico di alcune dittature del XX secolo.

Eppure, conclude l’autore, quella che sembrava essere una questione religiosa è in realtà la ripetizione della questione sociale al livello di una teologia biopolitica globale. Come venirne a capo, come trovare «antidoti» a vecchi, nuovi e nuovissimi fondamentalismi, è tutta un’altra questione.

[cite]

da: il manifesto, 9 gennaio 2009

tysm literary review

vol. 16, issue 21

january 2015

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