Un etnologo nel bistrot
Francesco Paolella
Il bistrot è un genere di locale di cui non è facile trovare equivalenti fuori di Francia, e lontano da Parigi in particolare. Marc Augé, facendo del bistrot in questo piccolo libro un ritratto che fonde assieme memoria personale, osservazione sul campo e immaginazione, non può che sottolinearne la coessenzialità con Parigi e il suo mito. Gli amanti della vita intellettuale francese, o dei fotografi “laureati” come Doisneau e Cartier-Bresson, o ancora gli amanti delle inchieste del commissario Maigret, non potrebbero mai separare l’oggetto della loro passione dallo sfondo di un bistrot.
Eppure, anche per noi italiani, abituati a vedere nel bar un luogo dove prendere un caffè in piedi al banco, queste riflessioni di Augé sul bistrot possono essere utili. Io le leggo anzitutto come un invito – ovunque ci capiti di vivere – ad avere ancora un proprio locale, a scegliersi un posto da frequentare, imparandolo a conoscere e farsi riconoscere da chi ci lavora e da chi pure lo frequenta.
Si tratta – quella di avere un proprio bar – di una esperienza minima, quotidiana, ma non per questo senza significato. Si tratta di una abitudine essenzialmente popolare – e per questo caduta un po’ fuori moda –, abitudine che una volta aveva le osterie come luoghi d’elezione. Le osterie che, fin dall’Ottocento, le classi dirigenti di ogni colore hanno sempre temuto, perché considerate ricettacoli naturali di sedizione e di dissipazione.
In un bistrot, e particolarmente nel proprio bistrot, si può fare facilmente l’esperienza di un rifugio rassicurante. Un angolo comodo e familiare lungo la strada. Un posto accogliente, e allo stesso tempo discreto, dove chi ne ha voglia può soddisfare il proprio bisogno di contatto umano, di riconoscimento, concedendosi brevi conversazioni estemporanee ma prevedibili, assolutamente superficiali, ma non per questo meno importanti. Oppure – a seconda di come vada l’umore del momento – si può restare nell’ombra, ignorati.
Il bistrot è in questo senso uno spazio duttile, flessibile, in cui le ritualità (le “chiacchiere da bar”) permettono di recitare un ruolo sicuro in società, senza rischi e senza doversi impegnare troppo. Si dirà che è solo apparenza più o meno naif, ma ha ragione Augé nel ricordarci che è importante per tutti poter godere ogni tanto di una identità riconosciuta, e ottenere una parte, magari solo da comparsa occasionale, da recitare.
Ancora, il bistrot è allo stesso tempo una specie di “focolare” momentaneo e un luogo di incontri, di possibili avventure, nel quale – lasciando correre l’immaginazione – ogni giorno potrebbe entrare un personaggio memorabile o accadere chissà quale avvenimento.
So benissimo che la realtà, specie nei polverosi bar di provincia, si adatta male a interpretare discorsi come questo. I bar sono molto spesso luoghi tristi, dove rimangono a impolverarsi uomini che non saprebbero come passare altrimenti il tempo. E dove sempre sempre più spesso si consumano le ore (e i soldi, e la vita) giocando davanti a una slot. Eppure, è ancora possibile ritagliarsi una piccola parte in quel teatro naturale che è talvolta un bar, e rubare qualche momento di umanità e di consolazione.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34, may 2016
issn: 2037-0857
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