Uscire dal lavoro? Intervista con Anselm Jappe
Innanzitutto sgomberiamo il campo da un’ambiguità: i pensatori legati alla Critica del valore (Wertkritik) vengono spesso tacciati di “teoricismo”, forse per il testo seminale del gruppo Krisis, il Manifesto contro il lavoro (2002). Una facile obiezione consiste nel dire che, in teoria, si può certo congedare il lavoro, ma la realtà sociale ben presto ci rimette al lavoro. Che cosa rispondi a questo genere di critiche?
Non si può dire che il Manifesto contro il lavoro sia stato “seminale”. In Germania è stato pubblicato nel 1999, una dozzina di anni dopo il primo numero della rivista Krisis. Piuttosto, è stato il primo testo del gruppo a raggiungere un vasto pubblico – e il primo a circolare in Francia. Secondo me, tuttavia, presenta qualche lacuna che riflette certe indecisioni di allora, soprattutto la propensione di una parte del gruppo a considerare la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie come la base possibile dell’emancipazione sociale.
Fin dall’inizio, quello che mi ha interessato nella Critica del valore è la volontà di assumere una posizione teorica che cerca di rifondare la critica sociale dalle sue stesse basi, mentre la tendenza più diffusa a sinistra consisteva nel sostenere che la teoria dovesse mantenersi in una posizione ancillare rispetto ai movimenti sociali (che si trattasse del movimento anti-nucleare, del femminismo, del terzo-mondismo, ecc.). I teorici come Kurz scommettevano invece sulla ricostruzione di una teoria dalle sue fondamenta. Certo, non partivano dal nulla: si basavano su un Marx “esoterico”, contrapposto al Marx “essoterico” del marxismo ortodosso. La Critica del valore non si definiva a priori per la sua iscrizione a una tradizione teorica già esistente: essa non era né “althusseriana”, né “gramsciana”, né “pro-situazionista” e neppure “francofortese”. Inoltre si partiva dall’assunto di doversi liberare da un certo accecamento pragmatico. Seguendo troppo il movimento reale, la “praxis”, ci si limita a un punto di vista parziale. Se si vuole pensare la totalità, una certa distanza è necessaria.
Tuttavia, non si tratta di ritirarsi in una torre d’avorio. La teoria deve essere in presa diretta sul dramma del nostro mondo contemporaneo: il divenire superfluo dell’umanità. Ciò significa che oltre lo sfruttamento classico, esiste un problema più grave ancora: quando gli uomini non sono più necessari per valorizzare il capitale tramite il loro lavoro, essi diventano superflui agli occhi del capitale stesso. Robert Kurz lo mostra molto bene nel suo Schwarzbuch Kapitalismus. Ein Abgesang auf die Markwirtschaft (Il Libro nero del capitalismo. Un addio alla società della merce). Lì Kurz evoca le sofferenze vissute dall’umanità sotto il capitalismo, senza cadere nel discorso della necessità storica di queste sofferenze, per giungere ad uno stadio superiore dello sviluppo delle forze produttive. Ciononostante, non si deve confondere questo approccio con quello del Manifeste des chômeurs heureux (pubblicato nel 1996 da un trio di disoccupati berlinesi) o con un documentario come Attention, danger, travail! di Pierre Carles. Sono degli esempi di ciò che definirei una critica superficiale del lavoro. Una critica che presuppone l’estensione infinita del capitalismo e che si limita a ipotizzare la redistribuzione di qualche briciola di ricchezza alle persone che non avrebbero “voglia” di lavorare (talvolta anche i sostenitori del reddito universale vanno in questa direzione). La critica “categoriale” del lavoro, invece, prende atto che il lavoro sta realmente andando verso la sua fine: il capitale ha sempre meno bisogno di lavoro vivo! Questo genere di critica è quindi molto realista, e si oppone alle proposte utopiche che mirano a “dare lavoro a tutti”. Questa situazione non si verificherà mai più nel capitalismo. Quando i politici di destra e di sinistra ipotizzano che si potrà ancora salvare la riproduzione capitalista attraverso il ciclo lavoro-denaro-capitale accumulato, sono irrealisti malgrado le loro pretese.
Le tesi che sostieni si fondano su una lettura dell’opera di Marx, in particolare del Capitale e dei Grundrisse, influenzata dai lavori di Moishe Postone e di Robert Kurz. In generale, e per restare ai punti comuni delle vostre posizioni, si tratta di proporre una critica del capitalismo a partire dalle sue categorie fondamentali (lavoro astratto, denaro, merce, capitale). Secondo te questa critica “categoriale” rompe con una critica incentrata sulla lotta di classe. Puoi spiegare che cosa vuoi dire quando opponi una critica del lavoro sotto il capitalismo a una critica dal punto di vista del lavoro? Inoltre, se proletari e capitalisti partecipano entrambi a un processo feticista che, al tempo stesso, li oltrepassa e non cessa di essere costituito da loro, che ne è della categoria di sfruttamento?
Lo sfruttamento resta un fatto evidente, anche se in grande misura è stato trasferito in regioni “periferiche”. Ma, appunto, che cosa si intende per sfruttamento? In termini marxisti, significa che esiste un plus-valore che risulta dalla differenza tra il capitale investito e il valore ottenuto (il profitto) e che è il frutto di un plus-lavoro non retribuito. Lo sfruttamento è dunque indispensabile al capitalismo. Ma questa estrazione di plus-valore non riveste necessariamente il volto classico dell’operaio dalle mani callose o quello dell’operaio tessile del Bangladesh (il cui plus-valore prodotto è in definitiva assai scarso sulla scala della concorrenza mondiale, in virtù dell’unificazione del tasso di profitto). Anche gli operai del settore high-tech, piuttosto ben pagati, producono comunque un plus-valore per i loro datori di lavoro.
Pur considerando con attenzione il fenomeno dello sfruttamento, bisogna anche prendere in considerazione la questione del limite interno del capitalismo: la produzione di plus-valore resta troppo ridotta. Non bisogna confondere il profitto individuale di certe imprese e il tasso di profitto medio del sistema nel suo insieme. Grazie allo sfruttamento, certe industrie generano enormi profitti soprattutto nelle regioni del Sud, ma questo non basta a fornire nuova linfa al capitalismo. Bisogna opporsi alle letture che considerano il capitalismo in piena salute perché ha delocalizzato le proprie fonti di plus-valore. Anche se è difficile da calcolare, le industrie europee – nelle quali gli operai sono relativamente ben pagati – contribuiscono all’accumulazione globale del capitale più che le operaie tessili delle Filippine. Ecco perché affermo che la lotta di classe esiste effettivamente, ma sotto la forma di una lotta tra interessi divergenti all’interno del quadro capitalista. D’altronde, questa non è una specificità della società capitalista. Se ne ritrovano esempi in tutte le cosiddette società “sviluppate”. Ma in una società capitalista pienamente sviluppata la lotta di classe non si dà tra una categoria di individui proprietari del capitale e un’altra collocata al di fuori del capitale. Questo potrebbe valere solamente per un periodo ridotto, in una fase di transizione. In una società capitalista realmente sviluppata, il capitale diventa un rapporto sociale nel quale tutti, o quasi, partecipano alla trasformazione globale del lavoro in denaro, poi in capitale accumulato. Evidentemente questa partecipazione si dà secondo retribuzioni e ruoli molto diversi. Ma non c’è una differenza “ontologica”, per esempio, tra quei capitalisti che Marx chiama i “luogotenenti” del capitale e quegli operai che ugualmente traggono interesse dalla riproduzione di questo sistema.
La sinistra ha sempre affermato che è “nell’interesse” degli operai fare sciopero, chiedere migliori condizioni di lavoro, ecc. e si è sempre meravigliata della loro scarsa sollecitudine nella difesa di questi interessi. La sinistra è allora passata a una critica della manipolazione attraverso, per esempio, la pubblicità o i media. Ma una volta che la popolazione, nella sua grande maggioranza, ha accettato l’idea che la vita si svolge dentro le categorie del denaro, del lavoro e della merce, diventa del tutto logico che gli operai possano preferire una riduzione del proprio salario alla perdita dell’impiego.
Se il lavoro è la sostanza stessa dei rapporti sociali nel capitalismo, e se ricomprende il lavoro concreto, eterogeneo, entro un’astrazione puramente quantitativa (ogni lavoratore è produttore di valore e si vede misurato da un tempo di lavoro oggettivamente determinato), serve ancora a qualcosa evocare, come fanno certi sindacalisti rivoluzionari, la dignità del “lavoro ben fatto”, la difesa del “bel prodotto”, come fondamento di una critica anticapitalista? Non si tratta piuttosto di formule mistificatorie? Secondo te, non è a causa di questo genere di considerazioni che la maggior parte del movimento anarchico ha solo sfiorato la critica del lavoro?
La critica del lavoro, sostenuta con argomenti teorici, si è sviluppata solo a partire dagli anni ‘80, almeno negli ambienti marxisti. Le critiche del lavoro precedenti erano avanzate soprattutto da ambienti con una certa componente “artistica”, come i situazionisti o i surrealisti. Negli anni ’60 e ’70 esisteva anche un certo rifiuto pratico del lavoro, nelle fabbriche in Italia o tra gli hippies. All’interno della critica del valore, diversi livelli analitici si intrecciavano all’inizio: un rifiuto dell’etica protestante del lavoro; una critica categoriale fondata sull’analisi del concetto marxiano di “lavoro astratto” (un concetto analizzato in modo corretto solo molto tardi dai marxisti); l’idea di una sostituzione del lavoro vivo con le tecnologie. La critica categoriale non rigetta il lavoro solo perché questo può rivelarsi sgradevole o faticoso. Lo scambio con la natura e la resistenza che essa può opporci restano di arricchimento per l’essere umano. Esiste anche una voluptas laborandi, un piacere tratto da un’attività di cui si possono vedere i risultati. Allo stesso modo, non sono necessariamente portato a un elogio dell’ozio come nel pamphlet (piuttosto sovrastimato ai miei occhi) di Paul Lafargue. Il problema su cui insiste la critica categoriale è che il lavoro astratto mette tutte le attività sul medesimo piano, interessandosi solo al fatto che esse servono all’accumulazione del capitale. Nel sistema capitalista si preferirà fabbricare una bomba piuttosto che un giocattolo nel caso che la prima permetta di realizzare un plus-valore superiore al secondo.
Bisogna rompere questo processo di omogeneizzazione totalitaria di tutte le attività, l’astrazione totale in rapporto al contenuto di tutti i lavori particolari. Questo regno del lavoro astratto ha d’altronde reso superfluo, e allo stesso tempo molto sgradevole, gran parte del lavoro concreto che si svolge al giorno d’oggi. Ma non per questo penso che ciò dovrebbe incoraggiare una sorta di pigrizia totale coadiuvata dai computer. Non condivido neanche l’entusiasmo recente per i fablabs: mi sembra preferibile fabbricare da sé una sedia in legno piuttosto che farla uscire da una stampante 3D. Su questo punto ci si può rifare all’opera di William Morris che, dopo Marx, mi sembra l’autore più penetrante della sua epoca. In News from Nowhere, immagina un futuro nel quale le persone sono molto attive, ma in settori come l’agricoltura e l’artigianato, dove quello che fanno è fatto per l’amore del bello e del piacere. Così, e parlo qui per me e non a nome della Critica del valore nel suo complesso, mi sembra che il superamento del capitalismo debba implicare una forte riduzione delle tecnologie e la riscoperta di una certa lentezza. Un esempio banale: si potrebbe certamente tornare a inviare lettere che impiegano una settimana ad arrivare a destinazione, piuttosto che consegnarsi all’istantaneità dell’e-mail. La difesa del lavoro ben fatto non mi sembra quindi sbagliata se si è attenti a non fare un feticcio del lavoro artigianale; dentro il capitalismo, anche il lavoro ben fatto prende la forma di una merce, il lavoro concreto è sempre subordinato al lavoro astratto. Uscire dal capitalismo significa potersi dedicare al lavoro ben fatto senza entrare in concorrenza con gli altri produttori, perché in questo caso il lavoratore artigiano sarebbe immediatamente schiacciato. Significa anche ripensare il senso del lavoro, ancorché ben fatto: senza dubbio un operaio che produce con grande cura una Ferrari ne trarrà probabilmente orgoglio, ma si può largamente dubitare dell’utilità sociale del suo lavoro.
In un testo del 2003 (Au-dessous de toute critique), Robert Kurz sosteneva che l’uscita dalla “gabbia di ferro” delle categorie capitaliste sarebbe possibile solo attraverso una società dei consigli e dell’autogestione, oltre la forma-merce e la forma-denaro, oltre il mercato e lo Stato. Ma più recentemente Clément Homs (del quale il sito http://www.palim-psao.fr/ repertoria un certo numero di testi, interventi seminariali, conferenze sulla Critica del valore) ha scritto un saggio intitolato Autogestion, piège à cons?. Lo si potrebbe prendere come una provocazione relativa a una formula libertaria ormai diventata vuota. Per quale motivo l’autogestione sarebbe una trappola da coglioni? E a quali condizioni si può dare un nuovo senso alle parole d’ordine autogestionarie?
A mio avviso l’idea dei consigli operai e quella di autogestione sono due cose ben distinte: A proposito dei consigli Kurz ricorda, giustamente, che una deliberazione collettiva è possibile, in linea di principio, su tutti gli aspetti della vita. E’ possibile interrogare le forme della produzione, l’urbanismo, la circolazione … D’altro canto, per come si è data storicamente l’autogestione rientra nell’idea che all’interno di un’unità di produzione (che resta quindi nel contesto capitalista) gli operai prendano essi stessi in carico la gestione della “cellula” interessata (come nel caso dei Lip, in Francia, negli anni ’70). In questo caso i rapporti gerarchici all’interno dell’unità produttiva sono stati modificati, ma non la dipendenza dal mercato esterno. Per resistere alla concorrenza, bisogna raggiungere lo stesso livello di produttività delle altre unità produttive. Questo significa anche che si deve produrre in base a un immutato rapporto tra capitale costante e capitale variabile. In altri termini, meglio non essere troppi! E, se non funziona, l’autogestione può arrivare a decidere democraticamente i licenziamenti o la riduzione salariale.
Secondo me l’infatuazione per l’autogestione, che ha colto quasi tutti negli anni ’70, si fondava su una lettura molto riduttiva dell’ordine esistente che riconduceva i rapporti capitalistici a rapporti gerarchici di dominio. Era ciò che proponeva, ad esempio, il gruppo Socialisme ou barbarie. Questo genere di critica costituiva una novità in rapporto a una fase precedente della critica del capitalismo che metteva l’accento solo sulla questione della proprietà giuridica. D’altronde, è vero che dopo la Seconda Guerra Mondiale la gestione delle imprese si era fortemente sviluppata attraverso il management, le strutture gerarchizzate (operai, capi-reparto), ecc. Molti anarchici hanno fatto allora l’errore di pensare che se tutti fossero stati messi gerarchicamente sullo stesso piano, la società si sarebbe immediatamente emancipata. Si può certo immaginare un’unità di produzione o una fabbrica la cui proprietà giuridica venga integralmente trasferita ai salariati, senza che questo muti nulla rispetto al fatto che una simile “cellula” debba svolgere la sua quota di lavoro astratto per valorizzare il proprio capitale. A tal proposito mi sembra che per troppo tempo si sia sottolineata la sola dimensione visibile o soggettiva del dominio, e non abbastanza il dominio del “soggetto automatico”, che è il modo in cui Marx qualifica il capitale. Se la necessità di servire gli imperativi automatizzati del sistema è già sempre presupposta o, detto altrimenti, se la necessità di investire e di valorizzare il capitale rimane tale, allora si giunge solo a una differente gestione dell’alienazione. Retrospettivamente stupisce che all’epoca tutto ciò sia stato visto così poco.
Tuttavia, quando esiste una rete di strutture produttive autogestite, come in Argentina all’inizio degli anni 2000, la situazione può essere diversa. Queste strutture produttive iniziano a scambiarsi tra di loro prodotti e servizi. Allora si può tentare di sottrarre intere aree alla produzione capitalista. Dove questo non accade, si corre sempre il rischio di ricadere in una semplice gestione alternativa dei meccanismi del mercato. Purtroppo non mi pare di ricordare che in Argentina si sia arrivati fino a questo punto. Ciò detto, simili situazioni sono pressoché inevitabili data l’estrema difficoltà di uscire dalla logica del denaro. Evidentemente bisognerebbe andare nella direzione di tentare scambi diretti dei prodotti, ma allora sarebbe necessario poter fare affidamento su numerose strutture produttive, per evitare che tutto si riduca alla semplice sopravvivenza.
Bernard Friot, con il quale hai discusso, propone un salario a vita e un ampliamento delle conquiste della lotta di classe (in primo luogo della Sicurezza sociale). Afferma di basarsi su una “convenzione salariale del lavoro”, promuovendo la produzione di valore non-capitalista attraverso la qualificazione delle persone (fa l’esempio della funzione pubblica) e contributi sociali capaci di finanziare gli investimenti al posto del credito bancario. Così, l’eredità delle lotte renderebbe permanente, dentro il capitalismo, alcuni settori che gli sfuggono fin d’ora. Si tratterebbe di riprendere la lotta di classe per liberarsi dal mercato del lavoro e dalla condizione di persona in cerca di impiego. Ai tuoi occhi, la sua posizione è tipica di un “anticapitalismo a metà” (anticapitalisme tronqué, Verkürzter Antikapitalismus). A che cosa si riferisce esattamente quest’ultima espressione?
In realtà le idee di Friot rappresentano solo una piccola parte, d’altronde assai strana, di questo “anticapitalismo a metà”. In generale, con “anticapitalismo a metà” richiamo una visione del mondo che denuncia alcuni misfatti del capitalismo ma si astiene da ogni critica del modo di produzione. La colpa è sistematicamente attribuita a ciò che nella terminologia dell’economia politica va sotto il nome di “sfera della circolazione”, più precisamente il commercio (se ne trova l’illustrazione ordinaria nell’attribuzione popolare dell’aumento dei prezzi alle manovre dei commercianti), e ancora più alla finanza. Si tratta di una tradizione dalla storia assai lunga, quella dell’odio dell’usuraio – con tutte le sue implicazioni antisemite -, che nel XIX secolo diventa una critica delle banche e della speculazione. Le disfunzioni del capitalismo sono imputate in modo pressoché sistematico alla sfera finanziaria, al “capitale fittizio”, in altri termini a quei meccanismi in virtù dei quali il denaro potrebbe direttamente “far figli” senza passare dalla sfera della produzione. Ora, Marx ha dimostrato molto bene che un’analisi di questo tipo non è ricevibile, poiché il capitale commerciale e il capitale usuraio (Wucherkapital)? non sono che deduzioni in rapporto al capitale produttivo. In realtà il capitalista deve condividere il proprio profitto con la sfera commerciale e quella usuraia-bancaria.
Per l’“anticapitalismo a metà” le cose si presentano esattamente al contrario: da una parte si troverebbero gli investitori industriosi che offrono lavoro e i lavoratori onesti, utili alla società, e dalla parte opposta quelli che rubano questo lavoro attraverso il credito, l’interesse e la speculazione. Questa griglia di analisi, che come ricordavo trova le sue radici nel XIX secolo, si sviluppa tra le due guerre mondiali con il movimento fascista e l’antisemitismo, che vi trovano un modello esplicativo molto comodo. Con l’epoca neoliberale e il decollo della finanza, questo “anticapitalismo a metà” è tornato in forza fornendo una lettura superficiale e semplificata dei profitti enormi realizzati dalle banche. Non si tratta di dubitare che i banchieri e gli speculatori siano brutta gente, ma è falso credere che siano all’origine della crisi. Piuttosto, essi hanno fornito le “stampelle” senza le quali il capitalismo sarebbe già crollato da molto tempo per deficit di redditività – e con esso tutti i posti di lavoro e gli investimenti “utili” ai quali anche le diverse posizioni di sinistra tengono tanto. È troppo semplicistico, nel migliore dei casi, e troppo pericoloso, nel peggiore – non si è lontani dall’opposizione stabilita dai nazisti tra il capitale “produttivo” e il capitale “rapace” -, ipotizzare che esista un 1% di cattivi speculatori e di politici corrotti in opposizione al 99% di lavoratori onesti. Così si confondono le conseguenze del problema con le sue cause.
Bisogna ancora richiamare il ruolo che l’“anticapitalismo a metà” assegna allo Stato e, a fortiori, alla Nazione. In molti casi – certo non sempre – l’“anticapitalismo a metà” tende verso qualche forma di sovranismo (di destra, di sinistra o trasversale). In Francia i suoi rappresentanti sotto la luce dei riflettori sono numerosi. Li si vede con Frédéric Lordon, gli “économistes atterrés”, le proposte di uscire dall’Unione europea per il recupero di una sovranità nazionale… Non difenderò certamente l’Unione europea, ma bisogna ricordare che una Francia sola sarebbe ancor più preda dei mercati finanziari internazionali. Nessuno Stato attuale si finanzia da sé, tutti vivono grazie ai prestiti che possono ottenere sui mercati internazionali, dipendendo in ciò dalle agenzie di rating.
Quanto a Friot, confesso di non comprendere ciò che immagina. Non intraprende alcuna critica del salariato né del lavoro, piuttosto auspica di estenderlo al mondo intero! Mi sembra che ciò somigli a quanto è accaduto nei paesi dell’Est, dove esisteva un obbligo di lavorare in cambio di una specie di salario minimo. Diciamo che proposte del genere, o anche quella sul reddito universale, eludono totalmente il fatto che esiste un limite interno al processo di valorizzazione del capitale. Si crede che si continuerà tranquillamente a produrre denaro che “vale” e che l’unico problema sia in fondo quello di assicurarne una diversa distribuzione. È un approccio simile a quello proposto dalla scuola della “regolazione”, l’idea keynesiana secondo cui bisogna dare più denaro ai salariati perché essi possano meglio riacquistare la paccottiglia che producono. E quasi tutto ciò a cui oggi si affibbia il nome di “sinistra” (sinistra “radicale”, sinistra “della sinistra”, sinistra “estrema”) è racchiuso all’interno di quest’ottica keynesiana, in difesa esplicita del lavoro.
Quanto al reddito universale è una proposta irrealista. Essa fa affidamento su un prolungamento indefinito della macchina capitalista. Non ha nulla di rivoluzionario. Non è un caso che il primo ad averla proposta fosse Milton Friedman. Storicamente, d’altronde, esisteva qualcosa di simile alla fine del XVIII secolo in Inghilterra, con il sussidio ai poveri assegnato, generalmente, dalla parrocchia. Ne La grande trasformazione Karl Polanyi ha mostrato bene come questo sussidio venisse in sostegno del capitalismo, favorendo la spinta al ribasso dei salari. Oggi anche la destra difende questa misura come uno strumento che permette di eliminare tutte le altre forme di aiuto. Non si tratta che di distribuire in un altro modo la stessa paccottiglia oggi suddivisa in forma di RSA (revenu de solidarité active. Se venisse instaurato, il reddito universale rinforzerebbe il funzionamento a due velocità della società: una parte vivrebbe piuttosto miseramente con il suo reddito universale, mentre l’altra lavorerebbe. Al prossimo aggravarsi della crisi economica, il primo taglio colpirebbe questo reddito. Il suo solo merito, ai miei occhi, è che permettere almeno di discutere della centralità dell’etica del lavoro.
Una delle specificità della Critica del valore consiste nel prevedere il collasso del capitalismo, non tanto – come molti rivoluzionari hanno ripetuto – sotto i colpi dei suoi avversari, ma per autodistruzione. Il capitalismo avrebbe infatti attinto i limiti di valorizzazione del valore. L’onnipotenza della finanza, in questo senso, sarebbe il sintomo e non la causa della crisi profonda del capitalismo. Lungi dal perturbare un’economia sana, la speculazione avrebbe così permesso di continuare negli anni la finzione della società capitalista mentre si svuotavano le categorie di base del capitalismo stesso. Ma oggi se ne vedono i limiti. Allora, a quando questo crollo? E, soprattutto, cosa facciamo?
Diciamo che il crollo era ieri! Nel senso che sta già prendendo forma, certo con grandi differenze e a diverse velocità, a seconda delle regioni del mondo e delle fasce sociali. Questo processo è iniziato verso il 1972. La crisi si manifesta sotto tre aspetti principali: con la fine del sistema aureo, nel 1971, il capitalismo inciampa su un limite interno alla valorizzazione. Questo scatena la finanza, ormai indipendente dalla produzione reale. Salta l’ultimo parapetto. Le economie occidentali entrano in una recessione da cui non sono praticamente più uscite, salvo in brevi momenti. Allo stesso tempo, nel 1972, compare il rapporto del Club di Roma, che fa entrare la crisi ecologica nella coscienza generale e illustra il secondo limite a cui il capitalismo deve far fronte. Infine c’è lo choc petrolifero che, pur inizialmente legato soprattutto a una posta in gioco geopolitica, suona la campana a morto dell’abbondanza energetica. Non è un caso se queste tre crisi compaiono nello stesso momento: sono i sintomi del crollo.
Oggi, anche nei paesi più ricchi il numero delle persone che vivono in condizioni peggiori che in precedenza aumenta. Prendiamo ad esempio il caso dei giovani: quando chiedo ai miei studenti se gli sembra di scivolare su un piano inclinato nel quale la sola cosa a cui si può aspirare è quella di scivolare un po’ meno velocemente degli altri, molti mi rispondono di sì. Senza dubbio ci sono differenze tra paesi e diverse velocità. Alcuni riescono a cavarsela arricchendosi a spese di altri. Il “miracolo economico” tedesco non è dovuto tanto al fatto che i tedeschi “lavorano sodo”, quanto al fatto che la Germania riesce a scaricare le proprie difficoltà sui partner europei. In Grecia, invece, il crollo ha già avuto largamente luogo. Continenti interi, come l’Africa, sono crollati. Non si tratta quindi assolutamente di una profezia per il futuro. D’altronde l’elezione di uno come Trump simboleggia bene una politica disperata: di fronte all’idea che tutto crolli, si porta al potere uno del quale si pensa che potrà provvisoriamente salvare qualche briciola per qualcuno.
Per quanto riguarda la parte “pratica” della questione, bisogna ricordare che l’idea che esista un interno del capitalismo era poco presente nella storia del movimento operaio e del marxismo classico. Si pensava che il capitalismo potesse svilupparsi all’infinito sulle sue stesse basi e che solo la volontà cosciente dei suoi avversari fosse in grado di porgli fine. Ora, il capitalismo ha minato alle fondamenta queste stesse basi perseguendo la propria logica cieca. Ciononostante non c’è alcuna garanzia che qualcosa di meglio prenda il suo posto. Oggi il problema non è tanto quello di sovvertire il sistema, ma di sapere come evitare che il suo crollo diventi una catastrofe definitiva. Come sviluppare delle alternative? Come sottrarre intere aree della produzione della vita ai settori capitalisti? Qui per fortuna le dimensioni “macro” e quella “micro” possono incontrarsi. Non si può fare sempre tutto su piccola scala (come nell’esempio citato dell’Argentina, in una situazione di crollo in cui inizia a generalizzarsi un’altra forma di vita), ma è possibile, per ciascuno, cominciare nell’immediato. Anche se non sono veramente d’accordo con i portavoce della decrescita, credo comunque che nell’idea ci sia del buono: si può, personalmente, iniziare a vivere con molto meno, rifiutare la logica consumista. Valori come la convivialità possono contribuire a ridurre forme di dipendenza quali la necessità di lavorare sempre di più per pagare il genere di confort vigente.
Nel capitolo sulla “traiettoria di produzione” contenuto in Temps, travail et domination sociale, dopo aver analizzato la contraddizione interna del capitalismo tra incremento della massa di ricchezza reale e diminuzione della produzione del valore, Moishe Postone esamina una forma di vita sociale fondata sulla tecnologia avanzata, divenuta strumento a disposizione degli uomini e non più vettore di dominazione astratta. Quello che si prefigura qui sembra ambiguo: si potrebbe infatti immaginare una versione “tecnofila” della Critica del valore. Tu invece scegli un approccio più critico della tecnologia, perché?
Storicamente l’automatismo tecnologico e l’automatismo del valore sono andati di pari passo. Il capitalismo ha spiccato veramente il volo solo nel XVIII secolo, quando si è alleato con lo sviluppo tecnologico. La dinamica del capitalismo è stata portata avanti da invenzioni tecnologiche che hanno permesso di risparmiare lavoro e ottenere un plus-valore supplementare o, ancora, di controllare le popolazioni. Inoltre queste tecnologie si sono sempre presentate come una specie di fatalità di fronte alla quale la società nel suo insieme doveva confessarsi impotente, come doveva farlo di fronte all’economia. Il detto “il progresso non si ferma” lo dice chiaramente! Questo non significa che, in assoluto, non esistano tecnologie di cui si potrebbe fare un uso differente, ma ciò sarebbe possibile solo in un contesto totalmente diverso e ricominciando da capo.
Le lotte sociali più promettenti sono spesso quelle che si battono contro gli aeroporti, contro i villaggi turistici, contro le dighe, la TAV o gli O.G.M. Non si tratta solo di preservare l’ambiente, ma anche di difendere altri modi di vivere, nuove forme di autonomia; di rompere con l’eteronomia totale nei confronti delle tecnologie e del mercato. L’autonomia è un’idea importante, che si concretizza nel fatto di dipendere nel modo minore possibile da tecnologie su cui non avremmo alcun controllo. Autonomia non significa autarchia, ma almeno possibilità di scegliere. Evidentemente è più comodo riscaldarsi spingendo un bottone che andando a tagliare la legna nella foresta per alimentare il camino, ma se spingiamo il bottone dobbiamo accettare le conseguenze. Essere autonomi è tanto più difficile quanto più ci si è asserviti a quella che Lewis Mumford chiamava la “Megamacchina”, dalla quale non è possibile astrarsi completamente, pena la ricaduta in posizioni primitiviste che non condivido in alcun modo. È comunque possibile ridurre considerevolmente la nostra dipendenza dalla “Megamacchina”, tanto nei suoi aspetti tecnologici quanto in quelli economici.
Ponendo i problemi della felicità individuale, del ritmo di vita, ecc., il discorso della decrescita va molto più lontano di quasi tutte le forme di marxismo tradizionale. Tuttavia non è esente da problemi – e anche facendo subito astrazione dai sostenitori di una decrescita che si limita, grosso modo, al fatto di raccattare gli ortaggi gettati dai commercianti alla fine del mercato. Ad esempio, raramente è il capitalismo in quanto tale ad essere criticato. Più spesso lo sono i suoi effetti più visibili: la “società dei consumi”, la pubblicità… Ora, per me l’essenziale è vedere come la logica del valore richieda che la quantità di valore sia sempre maggiore. Il capitalismo è quindi necessariamente produttivista: con l’aumento della produttività, un’ora di lavoro deve realizzare dieci camicie, poi venti camicie, ecc. Se non si attacca questo meccanismo di base, non è possibile uscire dalla logica della crescita. I “decrescenti” esitano, in generale, a farlo o lo ammettono solamente in linea teorica, ricercando molto velocemente una realizzazione politica immediata. Ecco perché finiscono spesso per flirtare con partiti come il Partito Socialista, per avanzare ricette neo-keynesiane o per proporre i loro servizi all’Unione europea. Tutto questo rischia di condurre a un’altra forma di “anticapitalismo a metà”, anche se la loro idea di convivialità è ben più simpatica di quella di Bernard Friot, che sembra voler ridurre la società a un’immensa cantina sociale dell’amministrazione comunale!
* Intervista pubblicata inizialmente sulla rivista “Réfractions. Recherches et expressions anarchistes”, 38, 2017 e rivista dall’autore per l’edizione italiana. La traduzione è di Alessandro Simoncini.