philosophy and social criticism

Piccoli e ingenui

Francesco Paolella

A tratti sembra di essere davanti a un horror padano, di essere ad esempio dentro le atmosfere pesanti dei primi film di Pupi Avati. La vita, squallida e puzzolente, di un paesino nella bassa in riva al Po, rimane immobile, immutata negli anni e nei decenni. Le persone crescono, invecchiano, solitamente si disperano, ma nulla cambia e nulla passa. I bambini, soprattutto, non crescono davvero: rimangono tali, con le loro doti innate di crudeltà, di odio, di invidia.

È raro che un romanzo, come questo di Paterlini, un romanzo che vuole essere un romanzo, riesca ad essere anche un saggio – e le diverse citazioni sparse nel libro, da Pasolini a Twain ad Agostino, sembrano dimostrarlo. Paterlini sembra qui, attraverso le parole del protagonista – l’unico che ricordi qualcosa di una infanzia così violenta in quel paese così desolato – assumere il tono del moralista, allo stesso tempo indignato e rassegnato. Più che un saggio, si tratta di un pamphlet, che denuncia ciò che tutti sanno, ma che nessuno può mai sapere: gli innocenti, i bambini sono tutt’altro che innocenti: non esiste al mondo chi nasca davvero buono. Verità terribile e banale, ma comunque inaccettabile. Si può essere più o meno aggressivi, più o meno timidi, più o meno vigliacchi; ma la violenza, brutale e assoluta, gratuita e quasi sacra, appartiene a pieno titolo al mondo dell’infanzia.

Tutti lo sanno perché tutti sono stati bambini e hanno compiuto o subito (anzi: compiuto e subito) gesti ignobili, a volte persino sadici.

Paterlini ci vuol far compiere un viaggio nel tempo, ci mostra un lavoro doloroso di recupero di memorie vergognose, di delitti “innocenti”, delitti che non sono «contemplati da alcun codice» (p. 95). Il tempo non cura e non guarisce. Come per ogni trauma subito, anche la violenza subita dai propri pari – nelle aule della scuola o in campeggio – non può essere cancellata. Semplicemente, si smette di piangere; semplicemente, si cerca di dimenticare e, purtroppo dovremmo dire da un certo punto di vista, si riesce a farlo.

Ciò che accomuna tutti gli adulti in questo romanzo (tutti tranne il protagonista appunto) è la cecità.  Maestre, genitori, preti, nessuno vede ciò che ognuno ha davanti agli occhi: le torture, verbali o fisiche, continue, che gruppi di ragazzi infliggono alle loro vittime. E – cosa spaventosa – anche quei bambini di un tempo, che ormai sono cresciuti, non capiscono, non ricordano o comunque non riconoscono la gravità dei loro gesti. “Erano solo scherzi…”; “Lo prendevamo di mira, ma, in fondo, gli volevamo bene…”.

Il protagonista, che ha fatto fortuna in America, torna a casa dopo cinquanta anni di assenza, perché è ancora ossessionato da un episodio di violenza a cui ha assistito e a cui ha, in qualche modo, partecipato. Non ribellandosi. A tratti persino ridendo, pur senza volerlo. Una volta di più, emerge davanti ai nostri occhi l’ingiustificabilità di Pilato, dello spettatore. Gli altri, i compagni di allora – che il protagonista seguiva talvolta nei loro “scherzi” quotidiani, pur riconoscendo, seppur inconsciamente, che alcuni di loro erano dei veri mostri in miniatura – sono rimasti fermi: vite tristi e fallite. Solo apparentemente sono immemori e, anche se lo dicono, finiscono tutti per ricordare. Anche per loro, che pure non sanno ciò che hanno fatto, in un certo quel modo il passato non può passare. Davanti al minimizzare – passato ed attuale – della brutalità, del conformismo e della sudditanza verso lo spietato capobranco-bambino, non possono che riemergere nel protagonista, che è in cerca di una liberazione dal passato, l’odio e la rabbia, anche se inutilmente. Il male ormai si è instaurato e non può essere redento, né davvero vendicato.

Già Il signore delle mosche, come mille altri libri, raccontava bene una verità antropologica scandalosa e che non sarà mai realmente accettata: il dover vedere nei propri “cuccioli” (e specie in quest’epoca, che non fa molti figli ma idolatra quelli che fa) persone già in grado di ferire e di ferire per il puro piacere di farlo.

Davanti ai suoi ex-compagni di classe, il protagonista non vede che bambini invecchiati, i quali, ovviamente (e magari in buona fede), mostrano di rimpiangere l’infanzia e le sue gioie. Ma è una nostalgia di facciata, che dura poco. Del passato, di quel passato che sarebbe stato dorato, a loro non interessa nulla, forse (sarà banale il pensarlo) per riuscire a sopportarsi.

Alla fine, è solo il male compiuto che davvero resta per sempre.

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