Harpo Speaks! Intervista con Martina Biscarini
Giulia Zoppi
HARPO MARX E ROWLAND BARBER, HARPO SPEAKS!, ERGA EDIZIONI, GENOVA, 2017
Dopo aver letto il magnifico memoir Harpo Speaks! uscito in Italia da pochi mesi e ben cinquantasette anni dopo la prima pubblicazione americana, incontriamo la traduttrice nonché curatrice del testo Martina Biscarini per capire come abbia affrontato la mole di fitte informazioni, aneddoti e vicende di cui il libro è ricco e per capire come si approccia un lavoro che ha tutto lo spessore e l’importanza di un valido compendio per chi studia il cinema e lo ama.
Harpo Speaks! è il testamento letterario di Adolph Marx (detto Harpo) che, stanco di stare in silenzio (questo fu il suo ruolo in ogni spettacolo) decise di raccontare la sua vita a Rowland Barber (scrittore e sceneggiatore di: Lassù qualcuno mi ama, dramma diretto da Robert Wise nel 1956, tra gli altri) lasciando ai posteri una testimonianza di indubbio valore documentario e umano.
HARPO SPEAKS! il memoir di Harpo Marx è arrivato da pochi mesi anche in Italia grazie al suo meticoloso lavoro di traduzione e curatela e ad Erga, la casa editrice genovese che lo ha pubblicato. La prima edizione in lingua inglese risale al 1961…A cosa si deve il ritardo dell’edizione italiana, dal momento che è un testo che è stato tradotto in moltissime lingue e non di recente?
Posso solo fare ipotesi sulla base di alcune risposte ricevute quando sono andata a fare la mia proposta editoriale. Un po’ si crede sbagliando, che in Italia sia conosciuto solo Groucho, un po’ i riferimenti culturali interni al libro che rimandano alla storia statunitense forse, li si considera troppo lontani da un pubblico di lettori che, mediamente, non ha presente di chi o cosa stiamo parlando. Erga ha brillantemente risolto questo punto promuovendomi da traduttrice a curatrice e facendomi inserire le schede integrative che trovate all’interno del libro. Debbo dire però che quando ho iniziato a tradurre Harpo Speaks (correva l’anno 2003) ero una normale studentessa liceale che poco o niente sapeva del vaudeville, di Alexander Woollcott, di tante cose. Eppure, mi sono goduta il libro come un romanzo e solo in seguito sono andata a ricercare altrove quello che non sapevo o i personaggi che non conoscevo. Harpo mi ha presentato i suoi amici e ho imparato a volergli bene. Ma credo che Maurizio Nichetti abbia sintetizzato il concetto quando ha detto che Harpo Speaks! è un’autobiografia anomala, dove l’io narrante spesso prova gusto a parlare di altri più che di sé.
Una delle tante ragioni per cui vale la pena immergersi in Harpo Speaks! è la ricchezza di aneddoti e la descrizione di mondi come di rado capita di trovare in autobiografie, biografie o saggi dell’epoca del cinema muto (e del cinema tout court). Per buona parte del libro ho avuto l’impressione di leggere un romanzo di Dickens perché l’infanzia di Harpo, come quella di tutti i Marx, è stata avventurosa, poverissima e rocambolesca come quella descritta dal grande romanziere inglese. La vita dei Marx era stata qualcosa a metà tra Dickens e le comiche del cinema muto. A mio parere il periodo che precede il successo e la ricchezza della famiglia Marx resta il più interessante e commovente da leggere perché permette di avvicinarci alla New York dei bassifondi e dei migranti, dove, come direbbe Scorsese, si è formata l’identità americana, tra fame e violenza. Ci può raccontare quali sono stati i momenti che di quegli anni le sono rimasti più impressi?
Credo che deliberatamente Harpo abbia calato un velo di tenera ironia su un periodo che dev’essere stato tosto. È vero, questo ambiente di immigrati, di gioco d’azzardo, di bande, di locali malfamati, di bambini solitari, di Manhattan d’inizio secolo chiama Martin Scorsese. Harpo stesso sembra un Oliver Twist d’oltre Atlantico, con la differenza che sua madre non solo non era morta di parto ma faceva parte di tutte quelle mamme imprenditrici che, a inizio secolo scorso, avevano tentato la strada del vaudeville per aiutare i propri figli. Nelle biografie dei membri dell’”Hillcrest Round Table” che ho inserito, la figura della mamma-manager ricorre spesso. E mi colpisce molto la forza di queste donne che, nonostante le numerose porte in faccia, alla fine spesso ce l’hanno fatta, e per la strada più difficile. Come mi colpiscono i cambiamenti architettonici di una città come New York – uno per tutti, quell’inquietante scala arrugginita che è l’unica cosa che resta dei Polo Grounds, i campi da baseball demoliti a inizio anni ’60 dove Harpo andava a guardare a scrocco un quarto di partita (quanto consentito dalla visuale) dei Giants. È ancora lì, la scala dedicata a John T. Brush, che scende da Coogan’s Bluff in mezzo ai palazzoni, a ricordare a New York il suo passato.
E poi… e poi da cantante in gavetta quale sono, circondata da altri musicisti in gavetta, mi viene spesso da citare l’aneddoto nel quale un cinema nickelodeon di New York licenziò George Gershwin come pianista accompagnatore (i clienti lo giudicavano troppo “rumoroso”- mah…!) per assumere Chico Marx. Che fa ridere, è come dire: “Ho un posto di lavoro per un musicista e licenzio Nicola Piovani per assumere Lino Banfi”. Fa meno ridere a chi fa un mestiere artistico: rospi simili (che magari fanno anche spesso dubitare della propria stoffa) li ingoiamo anche al giorno d’oggi.
La madre di Adolph Arthur, detto Harpo, Minnie, è stata colei che ha indirizzato i cinque figli verso lo spettacolo per necessità, sfruttando l’intelligenza dei figli, bambini molto dotati nonostante non amassero la scuola e i suoi precetti. Harpo lascia la scuola in seconda elementare perché la maestra lo getta letteralmente dalla finestra…Lei che è stata a stretto contatto con le biografie di questi cinque straordinari artisti si è fatta l’idea che sarebbe stato quello il loro destino se avessero potuto scegliere?
Ah chissà!!!! Groucho probabilmente avrebbe comunque fatto l’attore sulle orme dello zio Al Shean. Oppure lo scrittore o il giornalista umorista; scrivere era il suo sogno nel cassetto – e si sente leggendo le sue lettere o i suoi libri. A differenza di Harpo (che detta il libro allo scrittore Rowland Barber), Groucho aveva una sua sicurezza con la parola scritta, un suo stile. Il ghost writer non l’ha mai usato. Chico avrebbe probabilmente sbarcato il lunario come pianista, quel che già faceva da solo prima di incrociare il resto dei fratelli in un teatro di vaudeville, unirsi alla compagnia e rimanere Fratello Marx per tutta la vita. A Chico bastava poco per vivere e quel poco se lo giocava d’azzardo. Harpo… chi lo sa. La musica lo aveva attratto fin da piccolo, ma la sua rocambolesca vicenda infantile non gli aveva molto permesso di studiarla – Minnie aveva deciso che la musica, volente o nolente, sarebbe stato il mestiere di Chico. Approfittando del piano in casa, Harpo aveva imparato da solo due canzoni, abbastanza da fargli guadagnare il posto di pianista nel losco bordello di Madame Schang. L’arpa venne dopo, gliela comprò Minnie per “aggiungere classe” al loro numero di vaudeville all’epoca in cui tentava di spacciare i figli per piccoli cantori. Harpo imparò a suonarla a orecchio – sua nonna Fanny era stata un’arpista girovaga, ma era morta prima di potergli insegnare qualunque cosa e la vecchia arpa stava tra le cose del nonno, muta e senza corde. L’altra passione di Harpo era lo sport, in particolare il golf (e il croquet) – probabilmente però senza Minnie avrebbe fatto un lavoro tranquillo, un po’ come suo padre. Con gli altri due si va più sul sicuro: Gummo aveva ereditato dalla madre il senso degli affari, fu manager dei fratelli per tutta la vita. Ma avrebbe potuto benissimo fare il negoziante o il commerciante. Zeppo era il genio del business di casa: in vita sua si mise in affari di generi diversissimi fra loro e, quando li lasciò, ne trasse sempre gran profitto. Il guizzo creativo lo adoperò per le invenzioni di tipo militare di cui aveva il brevetto.
Harpo si era ritagliato nelle famigerate gags dei Marx il ruolo di suonatore di arpa, muto, non diceva una sola battuta durante tutto lo spettacolo teatrale (in verità non è proprio vero, anche se questo racconta la leggenda). La sua performance è stata talmente riuscita da farlo diventare un’icona del mondo dello spettacolo, un mito quasi al pari del fratello Groucho. Ad un certo punto scopriamo che anche grandi arpisti classici lo vollero conoscere per carpirne la tecnica usata per suonare da autodidatta. Può raccontarci brevemente il rapporto di Harpo con il successo e il contesto che si trovò a conoscere quasi all’improvviso, dopo tanta povertà?
Deve sapere che quando ho iniziato a tradurre non sono partita dal capitolo 1, ma dal capitolo 11, il mio preferito. Quello dove Harpo conosce il suo grande amico Alexander Woollcott che lo inserisce in una cerchia di intellettuali serissimi di giorno e post-adolescenziali di notte. Gente che parlava in continuazione. E lui, che non aveva terminato la seconda elementare, venne accettato in qualità di “ascoltatore professionista”- in sostanza, divenne il “muto picchiatello” anche nella vita privata. E qua è il momento in cui, nel libro, Scorsese cede il passo a Woody Allen. O ad Alan Rudolph di Mrs Parker e Il Circolo Vizioso – film che racconta della stessa cerchia di amici. Tutti molto ricchi (almeno fino alla crisi del ’29) e nonostante ciò rimasti un po’ bohemien nell’animo. Ecco, l’infanzia e l’adolescenza di Harpo erano state serie e faticose. Il successo gli permise di recuperare una spensieratezza che non aveva vissuto prima – in una cricca di amici composta dagli intellettuali più importanti dell’epoca. E stavolta quell’amico-complice che aveva desiderato tanto a lungo da adolescente (cacciandosi anche nei guai fidandosi di persone poco raccomandabili) c’era. Woollcott fu per lui il miglior compagno di giochi che un bambino cresciuto possa avere.
Quanto agli arpisti, beh immaginatevi lo stupore di chi studia uno strumento a inizio secolo scorso ancora associato principalmente al mondo della musica classica e che improvvisamente si trova davanti un autodidatta che “sbaglia tutto” ma riesce per magia a fare uscire dalle corde dei suoni belli. Alcuni arpisti rimasero affascinati dalla sua tecnica sgangherata, alcuni gli dettero consigli utili, anche se l’unico che gli insegnò quel minimo di tecnica per migliorare il proprio stile fu il figlio Bill, pianista, quando negli anni ’50 Harpo incise alcuni dischi.
Può descriverci a grandi linee quale fu la Hollywood dei fratelli Marx? Scorrendo il memoir siamo travolti da un mondo incredibilmente vivace e ricco di personalità del mondo della cultura, della finanza, della politica e del cinema. Harpo divenne amico di molti di questi personaggi mantenendo un’umiltà rara…
Dal libro si capisce quanto Harpo fosse incuriosito dalle persone, soprattutto dalle persone estrose. La Hollywood che visse fu quella dei primi anni del sonoro, fino agli anni ’50. Un luogo bizzarro con piscine a forma di Mar Nero, intellettuali segnati dalla crisi del ’29 in cerca di lavoro (Lederer, Parker, Benchley, Sherwood), esuli in fuga dal nazismo (Schoenberg), grandi attori in decadenza (Barrymoore), musicisti disturbati (Levant) comici eccentrici, campi da golf e starlettes in cerca di pubblicità. Charles Lederer, suo caro amico, era nipote di Marion Davies all’epoca pupilla di Hearst il magnate della stampa, fonte di ispirazione per Citizen Kane di Orson Welles la cui prima moglie sposò poi Lederer stesso. Hollywood ci appare una piccola stramba città dove tutti conoscono tutti e la “normalità” (qualsiasi cosa sia) proprio non è di casa. Di tutte le donne che gravitavano per Sunset Boulevard, Harpo si legò a Susan Fleming (Million Dollars Legs) una donna forte che non moriva dalla voglia né di continuare a fare l’attrice né di venire stalkerata dai tabloid. Ma di certo non era una persona ordinaria. Se non fosse stata a sua volta un tipo strano, probabilmente fra loro non sarebbe durata.
In che modo i Marx adattarono la loro arte al cinema dopo gli anni consumati sui palcoscenici americani e non solo?
Il cinema gli richiese una certa sintesi – anche perché Florey, uno dei registi di Cocoanuts, il primo film, quando iniziavano a improvvisare e a incartarsi nei loro giochi di parole a raffica, si piegava in due dalle risate compromettendo la banda sonora (lo dovettero cacciare in una sorta di box insonorizzato in vetro). Il fatto è che i Marx erano stati abituati dal vaudeville a improvvisare – anche l’avanspettacolo italiano è fatto di comici simili, basti pensare a Totò e a come le sue spalle, ad eccezione di Peppino de Filippo e pochi altri, impazzissero cercando di star gli dietro. George S. Kaufman, autore di alcune delle commedie e dei film migliori dei Marx, durante gli spettacoli del suo Animal Crackers, sbottò (cito a memoria): “Mi è sembrato di sentire una battuta scritta da me”. Per contro, nel passaggio dalla Paramount alla Metro Goldwyn Mayer, Thalberg ebbe la geniale idea di testare Una Notte All’Opera portandolo in giro come spettacolo teatrale. Una delle varie intuizioni azzeccate del produttore, purtroppo scomparso prematuramente, che portò peraltro alla costruzione della famosa scena della cabina come la conosciamo adesso.
Quale tra i loro film reputa sia l’opera più riuscita e perché?
Banalmente, scelgo Duck Soup per gli anni Paramount e A Night at The Opera per gli anni Metro Goldwyn Mayer. Film come Animal Crackers pure sono di un certo rilievo, l’impronta teatrale di fondo però rimane sempre molto viva. D’altra parte il cinema sonoro era agli esordi e Hollywood sperimentava nuovi modelli diegetici rimediandosi col teatro. Duck Soup è stato scritto pensando già al cinema, e si vede. È una farsa politica anarchicamente pungente, ancora oggi. Ai tempi, Mussolini prese il film come un insulto personale e lo bandì dall’Italia – i fratelli ne furono prevedibilmente entusiasti. Al giorno d’oggi, certi personaggi improbabili in posti di comando della politica internazionale ci ricordano un po’ le scaramucce fra Firefly e Trentino. Senza contare che Duck Soup fu finito di girare nel novembre 1933, in quello stesso mese Harpo fu spedito in Unione Sovietica e, passando per Amburgo, assaggiò qualche sprazzo degli effetti del neonato governo nazista. Inutile dire che tutto ciò non gli piacque affatto, anzi lo colpì profondamente tanto che, una volta tornato a New York, racconta che quando gli amici parlavano di Hitler rischiava i conati di vomito. Mi chiedo come avrebbe affrontato un film come Duck Soup se glielo avessero proposto dopo questa esperienza.
A Night at The Opera invece unisce il genio produttivo del leggendario Irving Thalberg e il guizzo dei Marx. È al contempo molto classico e molto marxista – probabilmente il punto più alto della loro carriera cinematografica.
Concludendo, di recente sono scomparsi due tra i grandi attori comici che siano mai esistiti nel cinema occidentale, Paolo Villaggio e Jerry Lewis. A suo avviso, ci possono essere state affinità tra i due attori e i meravigliosi fratelli Marx?
Tra Jerry Lewis e i Fratelli Marx ci sono pochi gradi di separazione – gradi che talvolta hanno anche un nome e un cognome: Frank Tashlin per esempio, uno degli scrittori di Love Happy il film di Harpo, è lo stesso che rialzò Lewis dalla crisi post-Dean Martin. Il mondo dei Marx, Lewis lo ha respirato fin da bambino. In fondo stiamo parlando di un ebreo russo il cui padre era maestro di cerimonie nel vaudeville, anche se ogni volta che sento di attori comici di origine ebraica che si sono formati alle Catskill Mountains, mi viene in mente che Harpo probabilmente avrebbe detto che quel tipo di gavetta è una vacanza rispetto ai circuiti della sua gioventù. Woody Allen stesso, che non rinnega il suo debito con Groucho Marx, si è formato alle Catskill. Jerry Lewis non ha fatto parte dell’”Hillcrest Round Table” per mere ragioni generazionali, certo non avrebbe sfigurato. Quanto a Paolo Villaggio mi viene da citare Veneziani quando sul Tempo il 4 luglio scorso ha scritto: “è stato il Marx degli impiegati. Ma nel doppio senso di Karl Marx e di Groucho Marx, il teorico del comunismo e il mago del comicismo. Perché Villaggio ha rappresentato il riscatto surreale degli oppressi, trasformando una vittima, oscura, anonima e insignificante, in un protagonista assoluto ed esilarante.”
MONKEY BUSINESS (RUBRICA DI CINEMA)
In omaggio alla scimmia che ha ispirato la nascita di questa nostra rivista TYSM e al genio dei fratelli Marx (loro il film Monkey Business, tradotto in italiano in: Quattro folli in alto mare, USA, 1931) a cui dedichiamo il primo articolo della serie.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
issn: 2037-0857
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