L’Italia dopo la lotta di classe. Appunti sul cinema italiano della crisi
Salvatore Cingari
Al culmine del declino del modello produttivo che, fra anni ottanta e novanta, sembrava proiettare l’Italia verso magnifiche sorti e progressive, in una tetra atmosfera di disfacimento del tessuto civile e antropologico, la crisi economica è divenuta, negli ultimi anni, lo sfondo di alcuni film italiani. L’assenza dell’antagonismo di classe, dell’opposizione culturale e sociale al dominio della finanza e della logica mercificante, rende lo scenario particolarmente drammatico, perchè privo di qualsivoglia prospettiva che ecceda quella della resistenza individuale.
§1. Tutta la vita davanti
Tutta la vita davanti (2008), il film di Paolo Virzì tratto dal libro di Michela Murgia, Il mondo deve sapere, affronta il tema del precariato. Marta si è laureata col massimo dei voti in filosofia, con una tesi su Heidegger, con lo sguardo attento alla lezione di Hanna Arendt: ma, non essendo parte dell’oligarchia economica e culturale della Capitale, vede respinti tutti i curriculum dalle case editrici e dai giornali, è soverchiata dall’immane ammasso di corpi assiepati fuori dal provveditorato, ed è rassegnata a non poter mai vincere il concorso per ricercatore bandito dalla propria università. Finisce perciò a lavorare nel call center di un’azienda che vende dispositivi domestici per sterilizzare una delle migliori acque d’Italia, quella che scorre nei rubinetti di Roma. La fiction, essenza profonda dell’esperienza globale dagli anni novanta in poi, lo “spettacolo”, cioé, in termini debordiani, che ha qualcosa dell’heideggeriana inautenticità, della sartriana “malafede”, della crociana “insincerità”, è già nel prodotto venduto, ma si ripresenta nel lavoro delle telefoniste, tese a vendere un prodotto inutile.
Il luogo di lavoro di Marta è una specie di incubo distopico. Daniela, la team manager, motiva le dipendenti con sms personali, con danze e canzoni propiziatorie, simili all’inno di Forza Italia. Daniela vuol inoculare alle dipendenti l’idea di essere “protagoniste di una storia di successo”, di essere persone “speciali”. E’ messa, qui, in caricatura, tutta la letteratura del new management, che fa leva sull’idea di un soggetto teso a superare se stesso1 in vista di nuovi risultati, mosso da un ritornante desiderio, rivolto a realizzare gli obiettivi, in qualche modo funzionalizzando l’idea della libertà personale e della creatività eversiva alle esigenze del profitto aziendale, come si evince dall’analisi di Boltanski e Chiappello2. Dalla sua pedana rialzata, Daniela sorveglia il lavoro di ognuna, distribuendo premi e pene3. Ogni mese viene celebrata, in un rito pubblico, la telefonista che ha centrato più appuntamenti. Ma, nella stessa occasione, vengono anche messe alla gogna le colleghe che hanno prodotto meno, con una predica su come non si debba essere “perdenti” e farsi prendere dalla negatività. Si tratta di un avvertimento a cui poi può seguire il licenziamento. Nella più chiara logica dell’homo oeconomicus concorrenziale, viene affermato un sistema in cui il dipendente è pura risorsa umana strumentale, ammaestrato con un sistema di premi e punizioni meritocratico, funzionale a tenere i soggetti sotto lo scacco dell’ingiunzione aziendale, mentre nel mondo di fuori, come si è visto sopra, le opportunità di realizzarsi nella vita sono ben lungi dall’essere uguali per tutti. “Siamo protagoniste”, cantano in coro le telefoniste, ma vengono retribuite con 400 euro mensili, così come i ragazzi che vanno a fare la dimostrazione nelle case, a loro volta caricati da Claudio, il capo-azienda, con balli aggressivi tipo gli All Blacks nel rugby neo-zelandese. Alla fine del mese, chi ha prodotto meno deve sottostare a una penitenza umiliante. Lucio, ad esempio, consuma in tre mesi la sua parabola: adrenalinico e convintissimo nelle sue facoltà superumane, finisce assediato dalle nevrosi e da quelle che crede tensioni negative di ripiegamento, costretto a rubare la pensione di un’anziana per l’esiguità della retribuzione, messo alla berlina di tutti nella petinenza rituale e, quindi, coinvolto in un grave incidente stradale dovuto alla rabbia e all’angoscia. Ma la rabbia di Lucio è priva di una lucida coscienza del proprio status: si considera, in azienda, della “vecchia guardia”, rispetto ai nuovi arrivati, quando egli stesso era stato assunto solo due mesi prima. Il lavoro “flessibile” frantuma ormai ogni temporalità narrativa4, schiacciandosi in un eterno presente, che fa apparire “comico” ogni attaccamento alla “maglia”, pur auspicato dal new-management neo-liberista.
Lo stress e la depressione, del resto, sono malattie sociali dilaganti, dato il senso d’inadeguatezza a cui i soggetti son destinati, in un mondo che richiede da loro prestazioni sempre più alte5 e protezioni sempre più basse. La stessa risposta psicotica e omicida di Daniela è il frutto della mancata elaborazione di un fallimento. Daniela e Claudio vengono rappresentati, a loro volta, come vittime della razionalità strumentale in cui vengono ingabbiate le relazioni umane: Daniela è, in realtà, vittima di Claudio, e Claudio lo è della moglie da cui si è separato. Entrambi rappresentati come ignorantissimi, Daniela è fiera di essere sfuggita ad un destino da infermiera a “pulire il culo ai vecchi”, a segnalare come quella razionalità corrisponda ormai ad una dissoluzione dei valori della persona, del lavoro pubblico, del servizio verso l’altro.
Un mondo che Marta attraversa senza moralismo o ideologismi, sebbene con disagio, cercando di trarre beneficio dalla leggerezza delle sue colleghe, per affrontare il difficile presente, ma, soprattutto, per trarne una serie di spunti filosofici, sviluppati in un saggio su Heidegger e il Grande fratello, spettacolo preferito dalle colleghe, ma anche portatore della stessa logica virtuale e falsificante (e competitiva) del call center. Logica che la giovane donna mostrava peraltro di rifiutare radicalmente nel suo vissuto, dato che aveva lasciato il fidanzato, Roberto Lorenzi, ricercatore di fisica precario, perchè non aveva avuto il coraggio di annunciarle per tempo la sua decisione di andare a fare un lavoro ben retribuito negli States, per sfuggire al triste destino dei giovani italiani. L’incontro con il sindacalista Giorgio Conforti, sembra per Marta l’apertura di una nuova vita sentimentale, ma, anche, di una rielaborazione politica della sua vicenda e, quindi, di un conflitto. Giorgio è sinceramente accorato dalle domande rivolte dai precari della Multiple: “ma la team leader può non darmi lo stipendio per motivarmi?”; “Ma è illegale andare due volte al bagno durante il turno?”. E tuttavia sempre Giorgio le nasconde una relazione con Lara, la compagna di casa di Marta, e il fatto stesso di essere sposato e padre di un bambino. Anch’egli, cioé, pratica la fiction, seppure in forme tradizionalissime.
Il sindacato sembra perciò incapace di risolvere i problemi del moderno precariato, in quanto immerso a sua volta nell’epoca fordista e nelle sue patriarcali sicurezze e manipolazioni. Marta trova “anticamente patetica” la rievocazione dei tempi d’oro delle manifestazioni sindacali all’epoca della centralità operaia. La conclusione del film, infatti, apre soltanto un varco alla speranza, legata alle relazioni umane più autentiche. Sonia, la figlia di Lara, la coinquilina di Marta, che, licenziata dalla Multiple, inizia a guadagnarsi da vivere con la prostituzione, vuol fare “filosofia” da grande. Marta, cioé, le ha trasmesso gli stessi valori veicolati dalla madre Luisa, insegnante di lettere antiche al liceo, convinta che il lavoro dell’insegnante fosse quello “più bello del mondo”. La sua morte di tumore col sorriso sulle labbra è come l’ennesimo addio al mondo di ieri.
La bambina, con la madre e Marta, finiscono a pranzo da una vecchia signora, conosciuta dalla protagonista in una delle telefonate di lavoro: a lei aveva inventato di conoscere la nipote, per favorire l’appuntamento, apprendendo poi che la ragazza era morta qualche anno prima, suicida per via della precarietà lavorativa. La donna promette di trovare contatti di lavoro all’azienda per favorire i giovani, quindi riumanizzando il carattere strumentale-commerciale della telefonata, di cui Marta stessa si era fatta protagonista. Si stringe quindi fra lei e Marta una relazione affettiva che chiude il racconto.
Sebbene Virzì faccia correttamente replicare dal sindacalista Conforti a Marta come il presente, sebbene “moderno”, non sembri meno patetico nell’obsolescenza dei diritti e della loro coscienza, il film sembra fermarsi sulla soglia di ogni indicazione politico-sociale. In pellicole come Ferie d’agosto (1995), Ovo sodo (1997) e Caterina va in città (2003), Virzì ha lucidamente anlizzato e denunciato i vizì della cultura radical chic dell’Italia che a cavallo del millennio leggeva Repubblica e l’Espresso, che animava i “girotondi”, mostrando la contiguità sociale delle élites che si contendevano il governo all’epoca di Berlusconi. E, tuttavia, nel mostrare la sovrapponibilità di centro-sinistra e centro-destra, Virzì sembra alla fine appiattirsi egli stesso sull’omologazione rappresentata, non sviluppando mai i potenziali germi di “coscienza di classe” enucleabili nello stesso Ovo sodo e in La bella vita (1994), finendo per aderire ad una – a sua volta piuttosto radical chic – dimensione privatistica della reciproca cura come unica via di uscita. Per comprendere la crisi sociale odierna e il potere “spettacolare”, più di Heideggere e la Arendt, andrebbero riletti Marx, Marcuse e Debord. Non è un caso che Marta, delusa dal comportamento privato di Conforti, lo rimproveri persino di aver fatto peggiorare le loro condizioni di lavoro ed aver causato licenziamenti con la sua denuncia delle pratiche aziendali alla Multipol. Voi avete le spalle coperte – gli dice Marta – ma ora le mie compagne come fanno a trovare un altro lavoro? Insomma, alla fine, il sindacato è rimandato a logiche fordiste deleterie e superate. In tal modo non si danno alternative al Job act. E, a dire la verità, la stessa “flessibilità” di Marta, che attraversa l’inferno del call center pronta a interagire con tutti i suoi diavoli e le sue ballerine, trovando facile la manzogna, sebbene non senza consapevolezza e senso di colpa, in ultima analisi assomiglia al soggetto privo di intransigenza gradito all’azienda post-fordista.
Quanto abbiamo detto potrà risaltare ancora meglio se confrontiamo il testo letterario da cui il film in questione è tratto: e cioé Il mondo deve sapere di Michela Murgia. Il racconto della Murgia, a differenza del film, è ambientato soltanto nel call center. Più ancora di un romanzo è il reportage di un’esperienza, scritto con toni di aspro ed esilarante sarcasmo. Ma la vera differenza rispetto al film è che la scrittura della Murgia non è tanto volta a contrapporre l’integrità morale della protagonista e il suo riferimento a valori positivi, rispetto alla degenerazione antropologica spettacolare-mercatistica. La soggettività della Murgia interviene soltanto per denotare la vicenda con precisi riferimenti critico-politici. La “meritocrazia”6 è dichiaratamente rappresentata come dispositivo autoritario e repressivo, ad esempio. E i sindacati – per la Murgia – una volta erano una cosa “seria” e non patetica da ricordare7. La scrittrice parla dell'”Ernesta Guevara” che è in lei e del suo (a torto o ragione) optare per i sovietici e non per gli americani al tempo della guerra fredda, addirittura sfidando il comune senso del pudore, denunciando l’ancora vivo spirito di Marco Biagi8 e la “flessibilità biagiana”9.
Insomma Virzi sembra sempre più consapevole della disumanizzazione che incede con i processi neo-capitalistici, ma, pur rappresentando vicende di notevole intensità emotiva e narrativa, non riesce ad andare oltre la denuncia degli idoli tradizionalisti (La prima cosa bella, 2010) o la narrazione di evocative storie individuali che però non riescono a dire molto sul contesto in cui sono inserite (La pazza gioia, 2016), perchè all’egregia ed efficace sensibilità etico-sociologica, non si aggiunge una altrettanto penetrante critica sociale. Anche se, forse, un piccolo passo avanti il regista sembrava aver fatto con Il capitale umano.
§2. Il Capitale umano
Se le predette tensioni antagonistiche della Murgia vengono stemperate nell’ “arendtismo” virziano e, ancora, se la chiave umoristica è ancora quella stilisticamente dominante in Tutta la vita davanti, i toni di Virzì si fanno, tuttavia, decisamente più cupi in Il Capitale umano (2013), che sembra perpetuare un più drammatico registro maturato nel potente La prima cosa bella. Il film si ambienta in Brianza, in una delle provincie del Nord Italia, cioé, che ha più di altre sposato la modernizzazione neo-capitalista degli ultimi trent’anni. I miti del neo-liberismo, lassù, si sono più profondamente radicati, diffusamente commisti a un populismo identitario che, se da un lato sembra compensare la frantumazione mercatistica del tessuto sociale, dall’altro ne ripete la stessa visione darwinistica, solo trasposta dagli individui ai gruppi sociali e la medesima avversione per il ruolo formativo della cultura.
Lo scenario è nevoso e freddo, percorso dalle litanie dolorose della colonna sonora. La storia ruota attorno ad un mortale incidente avvenuto il giorno della proclamazione del premio Cottafavi, per il miglior studente di un prestigioso istituto religioso della città, frequentato dalla crema economica della locale comunità. La vittima è un cameriere, appena smontato dal lavoro. Impiegato nel catering della costosissima cena servita per festeggiare i premiati, l’uomo tornava a casa in bicicletta, per una strada a doppio senso e diretta fuori città, pestando pesantemente sui pedali. Il regista indugia sulla respirazione del ciclista, rappresentandone la fatica. Con tutta probabilità, benché già in età matura, seriamente dedito al lavoro e “padre di famiglia”, egli non può permettersi l’automobile. Viene così urtato da un Suv e muore dopo alcuni giorni di agonia.
Del Suv è proprietario il diciottenne Massimiliano, figlio di un ricchissimo finanziere, Giovanni, e di un’ ex attrice, Carla (interpretata dalla Bruni, che nel film porta quindi il nome della sorella, come si sa, nella vita reale, esponente dell’aristocrazia politico-mediatica europea). Massimiliano ha lunghi capelli biondi, è bello e robusto ed ha tutto dalla vita: una villa smisurata, la piscina, i campi da tennis. Ma qualcosa assedia la sua felice adolescenza: Serena, la sua amata girl-friend, lo ha lasciato. Massimiliano è uno dei tanti figli del privilegio, senza troppi scarti dalla norma comune, mentre Serena, all’opposto, vive ai confini dell’etica, anche perchè sua madre se ne è andata di casa qualche anno prima, dopo aver scoperto un tradimento del marito, e si è trasferita in Romania, assieme ad un ex compagno di liceo che aveva delocalizzato laggiù le sue attività imprenditoriali. Serena la sente a telefono solo per il suo compleanno. La ragazza capovolge, così, quella dinamica dolorosa, facendo accettare a Massimiliano di continuare il rapporto affettivo e di reciproca cura, sebbene senza più implicazioni erotico-sentimentali.
Giovanni, il padre di Massimiliano, è l’incarnazione dell’ homo economicus neo-capitalista. Prevalere nella competizione è il valore di fondo che cerca di trasmettere al figlio, afflitto per questo da un sottile disagio. Quando sono nella sala stessa dove lavora il cameriere, che poi avrebbe perso la vita, ad attendere che venisse dichiarato il nome del vincitore, Giovanni carica il figlio con incitamenti aggressivi, espressi con un ghigno animalesco nel volto, per poi salutarlo bruscamente con durezza, facendogli pesare la mancata vittoria. Al tavolo, con loro, sta anche Roberta, la compagna del padre di Serena, che fa la psicologa e che considera come gli istinti competitivi e la paura di essere “perdenti” accrescano le patologie legate all’ansia. L’avvocato di famiglia di Giovanni commenta dicendo che lei avrebbe dovuto essere la prima ad esserne contenta, dato che ci avrebbe guadagnato: al che Roberta obietta perplessa, ricordando ai presenti di lavorare in un servizio pubblico (dunque non rispondente a logiche di profitto ma, appunto, di aiuto sociale).
Il padre di Serena, Dino, è invece totalmente immerso nella logica acquisitrice di Giovanni (tanto che forse una sbavatura del film è, appunto, nell’incongruenza del rapporto fra Dino e la compagna, data l’abissale differenza di valori fra loro). Dino decide che il proprio lavoro di agente immobiliare non sia abbastanza remunerativo e cerca di farsi amico Giovanni per entrare nel suo fondo finanziario, che promette guadagni del 40 per cento. Per farlo, però, si fa prestare 700 milioni dalla sua banca, ipotecando la casa e frodando sulla clausola del contratto che prevede di investire solo al massimo il venti per cento di un più grande patrimonio. Come il protagonista di Reality di Garrone (2012), egli disinveste le energie dalla propria attività lavorativa, in questo caso di agente immobiliare, finché Giovanni non gli dice che i mercati son più volubili del previsto e si stavano riprendendo, anziché crollare, come aveva prefigurato, invece, la loro scommessa e che, quindi, erano in perdita del 90 per cento.
Le azioni in perdita determinano per Giovanni la necessità di vendere e far vendere ai soci per riprendere liquidità. Fra le proprietà da vendere c’è anche il teatro che Carla stava cercando di far ristrutturare, e per evitare che al suo posto ci costruiscano supermercati o appartamenti o banche. “Non c’è più un teatro in tutta la provincia” dice Carla a Giovanni, che risponde con aspra ironia: “ma è un problema grave?”. Risposta forse più eclatante di quella dell’esponente leghista nel costituendo consiglio d’amministrazione, che voleva fare del teatro un’esibizione di cori alpini a beneficio di chi è stanco dal lavoro della giornata. Carla chiede al marito di fare un regalo a “tutti”, ristrutturando il teatro, ma Giovanni precisa che il regalo lo fa a “lei”. Carla soffre del fatto che Giovanni la tratti come una proprietà, nel più classico patrimonialismo familiare, del tutto assorbito dal proprio streben nichilistico. Ma non va al di là di un’ipocrita presa di distanze superficiale. Quando prende visione della rovina del teatro “Politeama”, si chiede ingenuamente perchè non se ne occupi il comune o la provincia, lamentandosi di non vivere in un “paese civile” e di “essere indignata”. E’ abbastanza sensibile per capire il male in cui è immersa, ma non abbastanza forte per rompere con esso e con tutti i benefici materiali che questo procura a sé e a suo figlio. Questo le rimprovera l’amante, un professore universitario di teatro, che vive in un modesto appartamento pieno di libri. Una delle scene più efficaci del film vede Carla cambiare continuamente la destinazione indicata al proprio autista, passando dal manicure al massaggio shatzu, alla boutique di scarpe all’antiquariato indiano, dibattendosi nel vuoto di una vita dorata ma priva di senso e di passioni. Giovanni alla fine deve far bloccare i lavori di ristrutturazione per la necessità di vendere l’immobile con lo scopo di riprendere liquidità per rilanciare gli investimenti. Nella vicenda del teatro viene peraltro rappresentata la storia recente di distruzione di tutti i beni pubblici e comuni, ad opera, appunto, di una progressiva privatizzazione finanziaria, che canalizza le risorse nel gioco di borsa, di cui pochi godono volubili vantaggi. Un gioco che può speculare sulla rovina di tutti. Alla fine del film Giovanni celebra la propria vittoria. Carla gli ricorda che lui e gli altri avevano scommesso sulla “rovina di questo paese” e lui, correttamente, le risponde che anche lei aveva vinto con lui, sulle spalle degli altri.
Ma veniamo al nucleo più drammatico del film. Serena conosce un ragazzo, Luca, che va in terapia da Roberta e che le aveva disegnato un penetrante ritratto. Di modesta estrazione sociale, senza padre, aveva perso la mamma, ammalatasi qualche anno prima. Rimasto solo con lo zio, era finito in carcere per coprirne l’attività di mercante di droga. Finito sui giornali come pericoloso spacciatore, Serena scopre in lui un’umanità del tutto sconosciuta nell’ambiente di Massimiliano, popolato di replicanti figli dell’élite locale, incapaci di empatia, di pensiero, di sacrificio. La notte che Serena ha il coraggio di far capire i suoi sentimenti a Luca, Massimiliano e i suoi amici sono in un locale a parlare della finale per il premio Cottafavi, commentando che gli altri due pretendenti, oltre a Massimiliano stesso, sono un “frocio” e una “negra”, competitor poco credibili quindi. E’ quest’ultima che vince, non senza prima aver attirato l’ironia dello stesso Giovanni. Per il resto l’intolleranza razzista è parte del mondo plastificato di piccoli superuomini, la cui mancanza di empatia li assimila allo stereotipo lombrosiano del criminale. Uscendo dal locale fanno in tempo a vedere Luca e a scherzare sulla sua presunta devianza.
Nasce quindi una grande passione fra Serena e Luca. La notte della mancata premiazione di Massimiliano, Serena evita di andare con lui a una festa per stare con il suo nuovo ragazzo. Le telefonano che Massimiliano si è ubriacato e chiede solo di lei. Luca e Serena vanno quindi a recuperare il ragazzo. Luca si chiede se davvero nella villa sontuosa, teatro della festa, “qualcuno ci abita”, a rimarcare il fossato di classe fra la sua esperienza e quella dell’elité di figli di papà intenti ad intrattenersi. Ed è sempre Luca, guidando il SUV di Massimiliano, mentre Serena porta quest’ultimo a casa, a investire il ciclista. La polizia sospetta che sia stato Massimiliano, che grida la sua innocenza, peraltro inveendo contro la sfortuna di essere stato coinvolto nel dramma di quello “sfigato di merda”. Il padre di Serena, venendo a sapere la verità da una mail della figlia, coglie l’occasione per risolvere i suoi problemi finanziari. Ricatta Carla chiedendogli 700 milioni più 280.000 (cioé il promesso 40 per cento) e, in aggiunta, gli chiede anche un bacio. Anche Dino, infatti, rappresenta la stessa logica acquisitiva che alimenta Giovanni. Rispetto a quest’ultimo, però, in Dino tale logica scade a consumismo buffonesco: egli viene infatti sempre – si direbbe feuerbachianamente – rappresentato a mangiare o a masticare qualche alimento commerciale. Luca, l’ultimo della scala sociale, senza superavvocati al fianco, finisce per pagare per tutti. Tenta così di uccidersi tagliandosi le vene, ma nella scena finale lo si vede in carcere a scontare la sua pena, fiducioso perchè ha Serena a fianco. Tuttavia, la parola fine la dà, appunto, la notizia del risarcimento alla famiglia del ciclista, più o meno quanto il quaranta per cento pagato a Dino. Un computo fatto sulla base delle caratteristiche del danneggiato, fra cui l’età, i legami affettivi e la capacità potenziale di guadagno. Appunto quello che la compagnia assicurativa ha stimato essere il suo capitale umano.
Insomma Virzì, anche in questo caso, sembra valorizzare soltanto la possibilità di reciproca cura fra soggetti che riescono individualmente a resistere ai processi di disumanizzazione. Tuttavia, in questo film, a differenza che In tutta la vita davanti, non c’è alcuna ironia su un’opposizione finta o omologata al potere. C’è – forse significativamente – solo smarrimento per l’onnipotenza di quest’ultimo.
§3.L’industriale
L’industriale, di Giuliano Montaldo, si svolge in una Torino dei nostri giorni, cupa quanto la Brianza di Virzì. Nicola, il protagonista, è l’erede di un’industria meccanica sull’orlo del fallimento, assediato dagli operai e dalle loro famiglie, spaventati dalla catastrofe. Nicola non vuole chiuderla. Egli è legato alle memorie fordiste degli anni gloriosi della ditta paterna, è intimo con gli operai più anziani e vuole dimostrare a se stesso e agli altri di essere capace di rilanciare l’azienda. Le banche non intendono più finanziare le sue scommesse tecnologiche legate alle energie alternative. Nicola ricorda loro con rabbia come esse siano pronte a finanziare squadre di calcio e simili futilità, ma non “chi lavora”. Un vecchio capannone del padre, da tempo in disuso, accasciato come un’archeologica carcassa sulle rive del Po, ricorda gli antichi splendori: le lettere della “meccanica Ranieri” si sfarinano corrose dalla ruggine nelle mani di Nicola, che ha pochi giorni per trovare il finanziamento per rilanciare l’azienda. La banca, in realtà, sarebbe disposta a sostenere l’industria, ma solo con la garanzia della moglie (Laura) o della suocera (Beatrice) di Nicola. Quest’ultima, infatti, è una proprietaria terriera e produttrice di vino, dedita alle speculazioni. Ma Nicola vuole dimostrare di poter fare da solo, nel più puro spirito del self-help e del patriarca primo-capitalistico. Il dirigente della banca è severo con Nicola, mentre è cerimonioso e sottomesso con Beatrice e Laura. E’ la rendita che comanda, non il profitto produttivo.
Alla crisi della ditta si sovrappone, per Nicola, la crisi familiare: un declino congiunto, cioé, delle due istituzioni solide della modernità sempre più liquida10. Nicola, per orgoglio, non comunica a Laura, brillante e avvenente giovane architetto, le sue difficoltà, e il dramma lavorativo lo divora e consuma tutto il suo tempo. Laura si allontana e Nicola si sente solo ad affrontare i problemi. Lei, in realtà, lo ama, ma a sua volta è interdetta dalla sua chiusura. Così comincia ad interessarsi al corteggiamento del garagista rumeno Gabriel. Gabriel è del tutto estraneo, ovviamente, al suo mondo dorato. Non possiede nulla che somigli a una rendita, nè è animato dall’agonismo lavorativo di Nicola. Gabriel, interiormente raffinato e aperto all’altro, vive in una periferia degradata, costruisce oggetti artigianali e a sera, quando lava le auto, si esibisce solitario in uno spettacolo danzante al suono della musica classica. Egli cerca, cioè, di disalienare il suo lavoro. Laura inizia a frequentarlo, ma platonicamente. Pur desiderandolo, preferisce puntare a ricostruire il suo rapporto con Nicola. Quando Nicola scopre l’infatuazione della moglie, già roso dall’insicurezza, precipita in un’aspra gelosia, ritenendo che la moglie l’abbia tradito e che lo voglia abbandonare. Inizia, perciò, a seguire i due, vedendo Laura immergersi nella marginalità sociale: cenare felice con Gabriel in una bettola o chiacchierare affettuosamente in auto. Nicola decide perciò di parlare con Gabriel e proporgli di andar via dall’Italia in cambio di 40.000 euro. Con questi – gli dice – ci campi cinque anni al tuo paese. Ma Gabriel rifiuta di commercializzare le sue scelte di vita e i suoi sentimenti. Aveva anche tentato di aprire una relazione umana con Nicola: aveva provato a spiegargli, cioé, di non aver mai avuto una storia con Laura e che Laura è una “persona eccezionale”. Ma Nicola rifiuta risolutamente ogni dialogo: “non sei tu a dirmi come è fatta mia moglie”, gli dice. Nicola non è lì per parlare con Gabriel, per riconoscerlo come essere umano: è lì per comprarlo. Alla fine i due vengono alle mani e Gabriel batte mortalmente la testa sul selciato.
Nicola lo getta nel fiume e dopo alcune ore di disorientamento riprende la sua vita: invita Laura a cena, la riconquista, rifà l’amore con lei. Anche sul lavoro le cose si risolvono. La ditta tedesca con cui Nicola era in trattative accetta di acquisire tutta la quota di minoranza. E Nicola esulta, godendosi la vittoria senza pesi sulla coscienza. Egli pensa di raccogliere così il frutto della sua inizativa e perseveranza, ma, in realtà, è Laura che ha comprato le azioni, con una semplice firma in calce ad un assegno. Glielo confessa in lacrime mentre gli rivela d’aver scoperto il suo delitto, proprio durante la grande festa in cui tutta la Torino bene (compreso il dirigente di banca che gli aveva negato il credito, compresa la suocera che non aveva mai creduto in lui) celebra il rilancio dell’azienda. Laura non lo denuncia e lascia a lui tutto il peso di decidere se consegnarsi alla polizia o tornare dagli ospiti: ma, in entrambi i casi, senza più lei al suo fianco.
Questo epilogo va a mio avviso letto in due direzioni, peraltro convergenti. Innazitutto la vicenda sembra voler mostrare come se anche la deriva sociale odierna sia stata determinata in buona parte dalla finanziarizzazione del capitalismo, è vero anche che i meccanismi di sopraffazione e sfruttamento fanno parte, più in generale, del sistema di produzione capitalistico. In fondo, Nicola combatte una battaglia per salvare se stesso ed essere riconosciuto nel mondo signoreggiato dall’alta finanza. L’operaio più anziano è invitato nel salotto buono, per la festa finale, ma è quasi un’esibizione che ricorda più l’omaggio del padrone terriero al mezzadro, che una reale testimonianza di inclusione sociale.
Laura spiega bene a Nicola cosa è successo, mentre è sconvolta dal dolore. “Tu – gli dice – hai combattuto la tua lotta contro il mondo, ma alla fine sei stato capace solo di distruggere il più debole”. Così Nicola diventa rappresentativo di tutti quei “nazionali” che, rischiando di perdere il proprio status, sfogano il loro disagio sui soggetti marginali. “Tossici di merda” – grida Nicola ai ragazzi che cercavano di forzare la portiera della sua macchina, poco dopo aver scoperto la frequentazione della moglie. “Rumeno di merda” – grida Nicola a Gabriel, poco prima di provocarne la morte.
§4. Terraferma
Il confronto fra gli italiani assediati dalla crisi e i migranti che sembrano volerli gettare nel precipizio, come umane zavorre, diventa il tema centrale in Terraferma di Emanuele Crialese (2011), ambientato in un’isoletta siciliana. Ernesto è un anziano pescatore, che non si rassegna a rottamare il suo peschereccio per le 100.000 euro promesse dallo Stato. Le insistenze di suo figlio Nino, diventato imprenditore turistico, non hanno risultato, dato che il vecchio identifica la sua esistenza nel lavoro tramandatogli da generazioni e nei suoi antichi saperi. L’altro suo figlio, Pietro, è morto in mare e a lui ha lasciato la nuora, Giulietta, e il figlio Filippo, ormai adolescente. Filippo va in mare con il nonno, ma è molto attratto dalla figura dello zio, che gli regala una vespa fiammante e gli insegna a difendersi, colpendo per primo l’avversario.
Giulietta – per reagire alla crisi – decide di affittare la propria casa ai turisti, nei mesi estivi, adattandosi a vivere con il suocero e il figlio nel grande garage della casa, meditando a sua volta di raggiungere la “terraferma” per dare una prospettiva a se stessa e a Filippo, facendogli conoscere altre realtà.
La casa viene così affittata a tre ragazzi del centro-Nord Italia, che familiarizzano con Filippo, specie una certa Maura. E’ in quei giorni che Ernesto e Filippo, mentre sono in mare, si imbattono in un gruppo di migranti clandestini. Ernesto, senza nemmeno pensarci, dopo aver avvertito le autorità, rifiuta di obbedire all’ordine di non avvicinarsi a loro e si getta in mare, nonostante avesse il cuore affaticato, per salvare una donna con il suo bambino. La donna, eritrea, risulterà poi in cinta e partorirà in garage. Giulietta, la sua levatrice, è divisa fra un’istintiva solidarietà e la paura di essere scoperta ad aiutare clandestini, incorrendo nelle sanzioni penali della legge Bossi-Fini. Ma come Ernesto e Filippo cede il suo letto ai clandestini, dormendo piegata sul tavolo assieme al figlio e al suocero.
Il dramma viene completato dal sequestro della barca di Ernesto, sorpreso a offrire un giro turistico agli ospiti della casa, senza avere la licenza e sospettato di aver aiutato i clandestini. La legge imposta dalla guardia di finanza, che si accanisce contro i deboli che cercano di resistere alla crisi, è la stessa che ne persegue la solidarietà verso i migranti.
Come una sorta di greca agorà, l’assemblea dei vecchi e dei giovani pescatori, contrappone l’antica legge del mare a quella dello Stato neoliberista, rinnovando il mito di Antigone. A me – dice Ernesto – hanno insegnato ad aiutare i “cristiani” (cioé le persone) che hanno bisogno. Al padre si contrappone Nino, sopraggiunto come un corpo estraneo, a rappresentare le ragioni della “pubblicità” e cioè quelle del marketing turistico che rifiuta la vista del dolore e della povertà.
Il dramma della famiglia d’Ernesto, che continua ad ospitare clandestinamente la donna eritrea con il neonato ed il figlio più grande, pensando a come aiutarla a raggiungere il marito a Torino, è ben messo a contrasto con la patina di sicurezza con cui Nino cerca di avvolgere i suoi clienti al bagno che gestisce. Egli nega la presenza dei migranti e intrattiene i bagnanti facendoli ballare Maracaibo: i corpi nudi dei turisti appaiono ridicoli e futili rispetto alla realtà imposta da quelli dei migranti che, improvvisamente, irrompono sulla riva a smascherare la fiction di Nino. Pochi corpi arrivati a nuoto con l’ultimo respiro.
La notte prima Filippo aveva portato Maura a fare un giro in barca. Proprio quando lei, dopo avergli offerto una canna, si spoglia e si tuffa in mare invitandolo a fare altrettanto, passando improvvisamente dall’eros alla morte, si avvedono di ombre nuotanti, come luttuosi uccelli marini. Filippo, per evitare che la barca si capovolgesse e traumatizzato per la rovina del nonno a causa del sequestro del peschereccio, colpisce i disperati con i remi, e li respinge nell’acqua infernale, provocando lo sdegno dell’amica, che, pure, aveva temuto per la sua stessa vita. Risvegliatosi in spiaggia (fra scene di spontanea solidarietà dei bagnanti con i migranti, riprese con i telefonini e guardie di finanza con le mascherine) e incontrato lo zio, Filippo, assalito dai sensi di colpa acuiti dal dolore per la fine dell’amicizia con Maura e i suoi due amici, indignati dalla sua azione notturna (un politically correct, in fondo, esso stesso parte del distacco dalla vita del più generale popolo dei turisti, solo un po’ più ammantato di stile), lo butta in terra con una spinta, come lui stesso gli aveva insegnato che bisognava fare con i nemici.
Filippo ha fatto la sua scelta, cioé quella di stare dalla parte di chi soffre: nottetempo si impadronisce del peschereccio sequestrato e vi carica la donna con i bambini, cercando di portarli in Italia, inghiottito, con loro, dal cielo nero confuso col mare.
Note
[1]C. Laval – P.Dardot, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neo-liberista (2013), Derive e Approdi, Roma, 2013.
[2]L. Boltanski – E.Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), Mimesis, Milano, 2014.
[3]V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli, 2012.
[4] R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (1998), Feltrinelli, Milano, 1999.
[5] Cfr. A. Simone – F. Chicchi, La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017.
[6] M .Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Milano, ISBN edizioni, 2006, p.19, 24, 38, 47, 59, 76-77, 115-117.
[7] Ivi, p.20
[8] Ivi, pp.80.
[9]Ivi, p.112.
[10] Z. Bauman, Modernità liquida (2000), Laterza, Roma-Bari, 2002.
* Ringrazio Erika Pompili (per il suo supporto) e gli altri studenti del Laboratorio Leggere e scrivere di politica (2014-2015), dell’Università per Stranieri di Perugia (corso di laurea in comunicazione internazionale e pubblicitaria), con cui ho avuto modo di discutere questo testo, già uscito in “Diacritica” (fasc. 10, 2016) e qui riproposto con poche limature.
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