Adriaan van Dis… De wandelaar
Marco Dotti
«Nella letteratura cerco una seconda possibilità, mi interessa il senso del possibile, per questo scrivo». Giornalista, popolare conduttore di trasmissioni televisive, autore di libri di successo, trentasettenne Adriaan van Dis fece il suo debutto nel campo letterario. Era il 1983 e con Nathan Sid raccontò un’infanzia tormentata nelle ex colonie olandesi. Dall’impostazione dell’esordio e dai successivi Zilver o la perdita dell’innocenza e Le dune delle Indie (quest’ultimo tradotto da Baldini e Castoldi nel 1994), i critici hanno tratto la convinzione che la sua scrittura sia, essenzialmente, autobiografica. «Come tutti, io costruisco i miei romanzi e i personaggi che li abitano a partire dall’esperienza», tiene a precisare van Dis, ma «parlare di autobiografia è eccessivo. Che cos’è in fondo un’autobiografia se non una menzogna di secondo grado? Scrivendo si fa bricolage, e io faccio bricolage fra i ricordi, i mie, quelli degli altri, quelli che credo attinenti al vero e, forse, sono solo mie proiezioni su altrui fantasie. Prendo il dieci per cento delle mie ossessioni e le mischio a quelle degli altri».
Lo incontriamo a Milano, nella sede della casa editrice Iperborea, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, Il vagabondo (traduzione e postfazione di Fulvio Ferrari, Iperborea, 2009).
Lei è un viaggiatore esemplare e ha dedicato oltre a romanzi, anche reportage, saggi e cronache all’Oriente, alla Cina e, soprattutto, all’Africa postcoloniale, concentrandosi molto sul problema del contrasto fra idiomi, modernità e tradizioni. Perché allora continuare a scrivere, a dispetto di questa sua vocazione per il confronto, l’incontro e persino per il meticciato fra culture, in una lingua come il nederlandese che ha, tutto sommato, un bacino potenziale di lettori molto basso?
Perché mi sento a casa. Ma viaggiando mi sento a casa diversamente che se lo fossi davvero. La scrittura e il viaggio, l’essere sempre altrove anche quando si viaggia, anche quando si scrive, anche quando si viaggia scrivendo o si scrive viaggiando. Non è un semplice calembour, ma una sfida vera che presuppone una distanza. Per me è molto importante scrivere nella mia lingua madre, una lingua piena di melodie e suoni che si trascinano dietro altrettante associazioni mentali. Scrivo in nederlandese anche – per non dire soprattutto, visto che viaggio spessissimo, la mia vita intera è un viaggio – quando attorno a me non ci sono olandesi. La lingua acquista così una sonorità diversa, cade in una sorta di stato di veglia che ridisegna confini, prima di tutto mentali, del rapporto fra me e la mia origine. Non mi interessa il “bello scrivere”, sfoggiato da molti autori che primeggiano in un poliglottismo da grafomani. Mi interessano i suoni sottili, le variazioni d’accento e lo scricchiolio della lingua. Succede quindi che scrivendo da lontano, osservando da lontano, il nederlandese mi aiuti a capire meglio quello che è o quello che rimane del mio paese.
Anche il suo ultimo lavoro ha per tema un viaggio. Il vagabondo che dà il titolo al libro compie una sorta di tragitto iniziatico, guidato da un cane, nei meandri di Parigi, una città che già Balzac definiva come «una succursale dell’inferno».
È un viaggio iniziatico, certamente. Ma in fondo, tutti i viaggi lo sono, quando non si riducono a meri spostamenti di corpi da quella prigione volontaria che chiamiamo “lavoro”, “ufficio”, sempre più spesso “famiglia” a quell’altra più colorata e all’apparenza innocua, ma non meno pervasiva e organizzata, che sono le vacanze nei villaggi, nei gran hotel, e via discorrendo. Mulder, il protagonista del romanzo, è un camminatore invisibile. Invisibile, perché gli altri non lo vedono, ma anche perché lui non vede gli altri. Ama la bellezza, è molto ricco, esce tutte le mattine a camminare, nelle strade e nelle piazze della Parigi dei nostri giorni, ma lo fa un po’ per esigenze da salutista, un po’ per abitudine. E l’abitudine è una sorta di rito profano, vuoto, che ha luogo quotidianamente, non solo nella vita di Mulder. La sua peggiore abitudine, però, è quella di non vedere chi gli sta accanto, di non sentirne gli odori. Mi chiedo se esistano ancora strade, in quella città. Se ci si possa ancora perdere senza avere paura di incrociare lo sguardo di un altro uomo, fosse pure di pelle e con accenti diversi dal nostro.
Mulder, però, non è un flâneur, ma un promeneur. Non a caso la traduzione francese – dove il vocabolo d’arrivo avrebbe tirato dietro se tutta una serie di malintesi semantici – del suo libro De wandelaar ha per titolo Le promeneur. Eppure, ad un certo punto qualcosa si rompe nelle abitudini alto borghesi del protagonista….
Sì e a romperle è un cane. O per meglio dire, lo sguardo di un cane, che rappresenta una sorta di doppio rimosso di Mulder e lo trascina come farebbe un Virgilio a quattro zampe nell’inferno della città. È così che Mulder comincia a vedere e a essere visto. No, quest’uomo non è un flâneur, gli manca la “superficialità” per esserlo. È un camminatore senza fantasticherie, che cammina solo per abitudine e per non stare fermo, vive solo, ha paura di tutto, ha paura soprattutto dell’altro inquanto tale.
Per questa ragione non lo vede e non vede nemmeno la città. Ma tutto a un tratto, uscendo per strada col cane, cade in una condizione diversa e comincia a sentire gli odori, a osservare le cose, a incontrare invisibili di nome e di fatto: barboni, sans-papier, gente di colore sfruttata ma tenuta ben nascosta nelle cucine dei più grandi ristoranti, e un incendio. Perché è attraverso il fuoco di una casa abitata da immigrati irregolari, nel cuore della Parigi più “in”, che avviene l’incontro con l’altro e con l’altra vita della città. Da quella casa di irregolari viene il cane, e sarà lui a guidarlo, come fosse un angelo della realtà. Mulder viveva nella sua torre d’avorio con una paura folle del mondo, ma ad un certo punto il mondo lo sfiora con i suoi occhi di cane, le sue case in fiamme, la sua puzza di fognatura e cumino e inizia allora il viaggio.
Perché proprio un cane per incarnare un moderno Virgilio?
Perché solo un cane poteva mostrare in silenzio, senza chiacchiere vane, a un uomo come Mulder che proveniva quasi da un altro mondo, come si vive letteralmente da cani, in questa città. Un cane vive di sensazioni, fiuta gli odori, sente ciò che la follia degli uomini non sente, guarda dove gli intellettuali non si sognerebbero mai di guardare, e abita quella sorta di infra mondo che gli permette di non appartenere a una società con tante, troppe classi e ingiustizie.
Lo sguardo del cane è uno sguardo carico di umanità e questo è il paradosso su cui dobbiamo riflettere. Una città d’inferno, abbiamo detto di Parigi. Ma chiediamoci perché lo è diventata, perché non solo a Parigi ma in ogni città d’Europa ci sono – ma chi li vede? – ragazzi africani costretti a vivere segregati, nascosti, destinati a rendersi invisibili agli occhi della politica, della polizia, ma anche della letteratura e del giornalismo. Perché letterati e giornalisti, spesso, hanno meno intuito e fiuto del “mio” cane, me lo lasci dire. Abbiamo bisogno di altri cani, di molti cani, perché i Mulder addormentati in giro sono ancora troppi.