philosophy and social criticism

Ana Blandiana, poesia a occhi aperti

Marco Dotti


Ana Blandiana, Un tempo gli alberi avevano gli occhi, a cura e traduzione di Biancamaria Frabotta e Bruno Mazzoni, Donzelli, Roma 2004.

Un tempo gli alberi avevano occhi è una preziosa antologia che raccoglie più di sessanta composizioni, scritte tra il 1966 e il 2000, dalla maggiore poetessa romena contemporanea: Ana Blandiana, nom de plume di Otilia Valeria Coman. Nata a Timisoara, sul confine ungherese, il 25 marzo del 1942, figlia di un prete ortodosso incarcerato per «complotto ai danni dello Stato» – situazione, questa, che segnerà l’inizio del suo percorso travagliato da censure e continui ostracismi da parte delle istituzioni culturali del paese -Blandiana esordì nel 1964, ventiduenne, con un volume di versi titolato Prima persona plurale, a cui fece seguito, due anni più tardi, Il tallone vulnerabile.

Significativamente, quasi a segnare una precoce, ma costante, padronanza dei propri mezzi espressivi, è proprio da questo lavoro che provengono alcune delle liriche più intense ora raccolte, e per la prima presentate in forma compiuta al lettore italiano, nell’antologia curata con sensibilità e rigore da Biancamaria Frabotta e Bruno Mazzoni, – rara figura, quest’ultimo, di specialista che non disdegna i «panni sporchi» del traduttore e a cui si devono versioni da lavori di un altro grande autore romeno, Mircea Cartarescu (dai versi di Quando hai bisogno d’amore, edito dalla romana Pagine nel 2003, fino alle extravagances narrative di Travesti e, soprattutto, del travolgente, visionario, «antiromanzo» del ventre nero di Bucarest, Nostalgia, entrambi editi da Voland nel 2000 e nel 2003).

Fin dall’esordio, Ana Blandiana dichiara di preferire toni e parole chiare, capaci, in altri termini, di tagliare il nero della malinconia, aprendo il campo a quella «successione di visioni» che costituisce il cuore stesso del suo neomodernismo poetico. Parole e toni “scombinati” ad arte nel verso libero, cifra di una poesia che, sottolinea Mazzoni nella nota che accompagna il volume, «di fronte al reale degradato e alle intrusioni del politico, ha coltivato con orgoglio il proprio spazio di fuga, uno spazio di comunione lirico-metafisica con il mito e con la tradizione», attivando, nella sensibilità dei lettori, in virtù del drammatico contesto socioculturale in cui si trovava a operare, un surplus di scambi mentali, di resistenze implicite, di richiami, in absentia, a una tradizione letteraria carsicamente sopravvissuta al fin troppo solerte attivismo dei funzionari del realismo socialista che, uno dopo l’altro, con la libertà di espressione, avevano tentato di cancellare dalle cronache letterarie, e dalla memoria dei più giovani, autori del calibro di Lucian Blaga, Ioan Barbu, George Bacovia e Tudor Arghezi.

Forse per questa ragione, Blandiana mostra, più che delusione e sconforto, disagio nei riguardi di un mezzo espressivo come la parola che le appare logoro, abusato, privato di ogni referente vitale, destituito di senso e ragione. Accanto a una indomita «lotta contro l’inerzia» (secondo l’espressione di Nicolae Labis, poeta tra i maggiormente rappresentativi della cosiddetta generazione degli anni Sessanta, a cui la scrittrice, al di là di ogni ragione anagrafica, legittimamente appartiene), Blandiana è stata però capace di coltivare, magistralmente, «un’istanza di verità assoluta», volta alla «rifondazione del senso» perduto, ridando dignità alle parole, e al loro margine bianco, «il silenzio». «In un mondo in cui si parla e si scrive così tanto», dichiara, «lo scopo della poesia è diventato quello di ripristinare il silenzio, la capacità di tacere», di indicare e simbolizzare.

Poesia bianca su sfondo nero, dunque, ansiosamente in bilico tra la ricerca di una purezza stilistica e la piena consapevolezza del pericolo di rendere sterile, attraverso un eccesso di forma, la libertà che ogni sincera vocazione poetica non solo richiede, ma, severamente, esige. Scrive Blandiana: «Lo so, la purezza non frutta, / dalle vergini non nascono figli, / è la suprema legge dell’impuro / la tassa sulla vita». Una tensione lirica, quella di Ana Blandiana, sospesa «tra silenzio e peccato», tra l’impotenza dinanzi al silenzio ineffabile che circonda le cose e la sua, necessaria, profanazione attraverso una parola che inscrive la “colpa” di averlo sfidato, quel silenzio, nella chiave gnostica della caduta. Non è un caso che la poetessa, nel suo percorso artistico, abbia sempre teso – commenta ancora Mazzoni – «a essenzializzare sempre più il proprio linguaggio e ad allontanare la già misurata strumentazione retorica». Per lei, «compito della poesia è andare al di là della fisicità della forma verbale, per cogliere l’ombra delle parole, la loro essenza: “Non sono mai corsa dietro alle parole. Tutto ciò che ho cercato / E’ stata la loro ombra… E non hanno più ombra, / Le parole che hanno venduto la propria anima”».

Purezza e pericolo, orfismo e diffidenza estetica sembrano chiudere il cerchio di una ricerca per definizione impossibile («talvolta pensare la poesia significa negarla»), al limite «assurdo», dell’inoperosità, del désœuvrement e del silenzio, marcata da suggestioni che ricordano tanto «libro bianco e assoluto» di cui vagheggiava Mallarmé, quanto la chiave che Marcel Schwob, ne Il libro della mia vita, “incautamente” offriva a sé e ai propri lettori: «bisogna imparare a leggere solo il bianco tra le righe». La densità orfica di Ana Blandiana potrà infine ricordare, al lettore più smaliziato, alcune tra le pagine migliori di Catherine Pozzi (poetessa di grande talento e influenza, ingiustamente ricordata solo come compagna di Paul Valéry), in quell’ansia di tenere sovranamente gli occhi aperti (come un tempo gli alberi, a cui la lirica, da cui prende titolo il volume, rinvia) sul mondo e sul suo ineffabile mistero, verità segreta, elementare, esposta però in piena luce: «Nemmeno un istante oso chiudere gli occhi / per paura / di stritolarlo tra le palpebre il mondo, /di sentirlo ridursi in frantumi / come una nocciola fra i denti. / Quanto tempo potrò rubare al sonno? / Quanto tempo potrò tenerlo in vita? / Guardo angosciata / e soffro come un cane / per l’universo / che non ha riparo / e morirà nel mio occhio chiuso».

[Articolo apparso su il manifesto del 8 dicembre 2004, con il titolo “Un tempo gli alberi avevano occhi”]

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ISSN:2037-0857

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