L’anti-Platone
Alfonso M.Iacono
Il decennio che va dal ’68 al ’78 è probabilmente tutto da riscrivere. Sembra passato un secolo. E, per la verità, sembra passato un secolo dal tempo della pubblicazione di libri come L’Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari (1972) o come Sorvegliare e punire di Michel Foucault (1975). Certo, molto di questi libri è penetrato nella cultura europea e americana, ma poi se ne è dimenticata l’origine, così come, forse, se ne è perso il contesto.
Con la guerra del Vietnam il confine tra buoni e cattivi , in un mondo diviso in due, non appariva più così netto come lo volevano da una parte e dall’altra. Libri come L’Anti-Edipo o come Sorvegliare e punire operavano esattamente all’interno di quel confine. Piuttosto che un luogo della divisione e della separatezza quel confine cominciava a diventare lo spazio di una critica al rapporto tra verità e potere. Uno spazio che il terrorismo alla fine rese impraticabile devastandolo.
Deleuze e Foucault si mossero, ciascuno per la sua strada, in direzioni parallele. Vi fu un dialogo assai vivo soprattutto negli anni ’70. Assieme avevano preso, nel 1966, la direzione della traduzione francese delle opere di Nietzsche secondo l’edizione di Colli e Montinari. Come ricorda Foucault nella Prefazione che scrisse per l’edizione americana dell’Anti-Edipo, i nemici che il libro intendeva combattere erano: 1) i cupi militanti e i politici asceti; 2) gli psicoanalisti e i semiologi; 3) il fascismo. Non soltanto il fascismo di Hitler e di Mussolini, ma quello che in tutti noi rende desiderabile il potere e permette che esso domini e sfrutti. Per questa ragione, secondo Foucault, l’Anti-Edipo è un libro di etica. Parafrasando l’Introduzione alla vita devota di S. Francesco di Sales, Foucault chiamò l’Anti-Edipo una Introduzione alla vita non fascista. Certamente in una Introduzione siffatta sarebbe considerato un abominio ciò che sta accadendo ai nostri giorni e cioè il ritorno del fascino della punizione.
Oggi un vento restauratore imperversa sulle coscienze e la critica delle istituzioni totali (carceri, manicomi, ospedali) impallidisce di fronte a un individualismo perverso che omologa tutti. Deleuze aveva cercato di criticare le forme totalizzanti della cultura e della società e di lottarvi contro, ma nello stesso tempo aveva visto, come Foucault, che l’individuo è esso stesso frutto del potere. Quest’ultimo aspetto è quello che scompare oggi silenziosamente dietro le quinte.
Gilles Deleuze ha scritto libri come Differenza e ripetizione, Logica del senso , si è misurato con Spinoza, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, ma anche con la letteratura, il cinema, la pittura, con Proust, Kafka, Francis Bacon. In un certo senso, per lui non c’era differenza tra un filosofo, uno scrittore, un pittore, un regista; in un altro senso la filosofia, invece, che pure evidentemente non è e non deve essere l’espressione dei soli filosofi, rivendica una sua autonomia ben caratterizzata.
In Che cos’è la filosofia?, un saggio del 1991 scritto anch’esso in collaborazione con Felix Guattari, la filosofia appunto è definita come la disciplina che consiste nel creare dei concetti. La fonte dichiarata di questa definizione è Nietzsche, il quale in un bellissimo frammento del 1885 dedicato al diffidare afferma che i filosofi “non devono limitarsi a ricevere i concetti, a purificarli e rischiararli, ma devono cominciare col farli, col crearli, col porli, e cercare di inculcarli. Finora si è riposta fiducia nei propri concetti, come in una dote miracolosa proveniente da un mondo miracoloso, ma si trattava infine dei concetti ereditati dai nostri antenati più remoti, i più stupidi e i più assennati insieme. Questa pietà per ciò che si trova in noi costituisce forse l’Elemento morale del Conoscere. Occorre anzitutto scepsi assoluta verso tutti i concetti tramandati”.
In queste considerazioni di Nietzsche c’è a mio avviso molto di Deleuze e delle sue convinzioni filosofiche. Se la filosofia si definisce per la sua capacità di creare concetti e se il concetto viene definito come autoreferenziale, cioè non ha referente alcuno che non sia se stesso e crea il suo oggetto nello stesso momento in cui è creato, allora ci si viene a trovare in una situazione affascinante e ambigua al contempo. Da un lato, infatti, il richiamo a Nietzsche e la definizione della filosofia come la disciplina che crea concetti si oppongono come una critica dello storicismo e della fusione tra la filosofia e la sua storia.
Sotto questo aspetto, per Deleuze, Hegel e Heidegger hanno in comune il fatto di aver concepito il rapporto con la Grecia e con la filosofia come un’origine e di conseguenza come il punto di partenza di una storia interna all’Occidente. In questo modo sia Hegel sia Heidegger confondono la filosofia con la sua storia. Deleuze oppone una visione spaziale, geografica della filosofia. In Qu’est-ce que la philosophie? l’idea di storia risulta troppo appiattita sulla tradizione e sulla continuità, e l’alternativa proposta da Deleuze e Guattari, che contrappongono divenire a storia, troppo distante dalla temporalità. Eppure Deleuze stava dalla parte degli Stoici, di Spinoza e di Nietzsche, gli unici che – come ha scritto in Critique et clinique – sfuggono al platonismo. Il quale ha fatto un “regalo avvelenato” alla filosofia occidentale moderna, e cioè l’idea ossessiva che vi sia un qualcosa che sta altrove e che costituisce un riferimento normativo per la nostra esperienza.
Era questo uno dei problemi filosofici di Deleuze, che lo avevano portato, assieme a Guattari, a criticare e a rifiutare da sinistra ogni forma di semplificazione ideologica atta a giustificare un’azione di potere. Deleuze appartiene a quella generazione di filosofi che aveva sentito la questione della critica al potere come un’urgenza filosofica militante e era fra quelli che avevano compreso come la forza attrattiva e desiderante del potere potesse sedurre gli individui ben al di là di ogni copertura ideologica, politica o morale.
In fondo appartiene alla schiera, sempre più rara, dei filosofi che hanno pensato il loro compito nei termini del suscitare inquietudine, piuttosto che in quelli del rassicurare, nei modi della critica piuttosto che nell’apologia diretta o indiretta dei molti aspiranti o realizzati consiglieri di quei piccoli re, che hanno reso oligarchica la democrazia e l’hanno fatto per giunta in nome del pluralismo.
[da il manifesto, 7 novembre 1995]