Senza partito. Simone Weil e noi
di Marco Dotti
Pubblichiamo un estratto dalla nota di edizione di Simone Weil, Senza partito. Obbligo e diritto per una nuova pratica politica (Feltrinelli/Vita, 2013→QUI), in libreria dall’8 marzo, con una nota di Andrea Simoncini e la premessa di Marco Revelli. Il volume verrà presentato con Dario Borso – unitamente al Leviatano. Il migliore dei mondi possibili (Mimesis, Milano 2013) di Arno Schmidt – il prossimo 21 marzo, alle h 21, presso la Libreria Popolare di via Tadino 18 a Milano (la locandina →QUI).
II 14 dicembre del 1942, Simone Weil poteva finalmente considerarsi libera. La sua permanenza in un campo di smistamento alla periferia di Londra si era infatti protratta, oltre ogni aspettativa, per una ventina di giorni. Ben più dei quindici che le erano bastati per raggiungere il porto di Liverpool da New York, città dove aveva trascorso quattro mesi nella speranza di potersi impegnare nel réseau antihitleriano che si andava costituendo un po’ ovunque, tra i confini e oltre i confini di un’Europa sempre più tinta di nero.
A Londra, Francis-Louis Closon, uomo chiave della resistenza antinazista, le procurò un lavoro e un ufficio tutto suo al n. 19 di Hill Street.1 Impiegata come redattrice nella sezione “servizi civili” della France Libre – il movimento fondato da Charles de Gaulle il 18 giugno del 1940 – Simone Weil aveva il compito di esaminare proposte sul futuro assetto istituzionale e politico da dare al Paese dopo la liberazione. Ovviamente non si limitò a quel che le veniva chiesto. I pochi mesi che separano l’arrivo a Londra dal suo ricovero in ospedale – dalla metà di dicembre alla metà dell’aprile successivo – la videro infatti impegnata in un intreccio quanto mai vitale di riflessione, attivismo e progetti per la gran parte incentrati su un tema chiave: la giustizia e il suo radicamento. La scrittura di appunti e note, «quasi senza cancellature, dominata da un’ispirazione sicura e continua», mostra una grafia «ben formata, tracciata lentamente, regolare e pulita»: il segno è oramai tutt’uno con quella nuova e piena consapevolezza di pensiero che si sarebbe spenta solo nel sanatorio di Ashford, il 24 agosto 1943, quando le complicazioni di una tubercolosi male o mai curata posero fine alla vita della trentaquattrenne, solitaria allieva di Alain.
Nel volgere di pochi mesi, quasi senza mangiare e dormire, la Weil aveva trovato la forza per redigere non solo i testi pubblicati postumi nel 1957, nella collana “Espoir” diretta da Albert Camus per l’editore Gallimard, con il titolo Écrits de Londre et dernières lettres, ma anche una serie di frammenti, appunti, traduzioni, il Carnet de Londres e il suo lavoro forse più articolato e compiuto, di certo l’unico da lei pensato in forma di libro: L’enracinement. Prélude à una déclaration des devoirs envers l’être humain. Scritta nel corso di quei mesi, forse nei primi del 1943, la Note sur la suppression générale des partis politiques, conoscerà pubblicazione autonoma e notorietà postuma: solo nel febbraio del 1950, infatti, la Note apparve in apertura di una rivista di orientamento vagamente cattolico, “La Table ronde”. La traduzione italiana fu quasi immediata. Franco Ferrarotti se ne fece carico, pubblicando l’anno successivo in forma di editoriale per numero 10 della rivista olivettiana “Comunità”.
Lontano dalle critiche antidemocratiche, antisistema e antipartito della destra, ma al tempo stesso lontano dall’accettare il binomio democrazia-partito di massa, quasi l’uno non potesse esistere senza l’altro, Adriano Olivetti, editore e direttore di “Comunità”, fondatore dell’omonimo movimento politico, trasse non pochi spunti dal testo di Simone Weil per porre le basi di una – utopica? – «democrazia senza partiti». Nel novembre del 1951, l’eco della Note sur la suppression générale des partis politiques, pubblicata nove mesi prima sulla rivista, si avvertirà forte: al Quadrangle Club dell’Università di Chicago, davanti a Leo Strauss, Herman Pritchett, David Easton, Edward A. Shils, Ernest W. Burgess e a un sorpreso Friedrich von Hayek, prendendo alla lettera l’insegnamento della Weil, Olivetti esporrà, destando un certo scalpore, la propria idea, che a tutt’oggi non ha perso radicalità, di “democracy without political parties”.
«Il regime politico attuale – scriverà Olivetti – prende il nome, non a torto, di partitocrazia, retto da un occulto e complesso ingranaggio di interessi e di personalismi. E l’apogeo è l’inizio della decadenza». Rispetto alle notissime critiche di Roberto Michels, che nella prima decade del Novecento aveva parlato di una legge ferrea che inevitabilmente tendeva a trasformare le organizzazioni aperte in oligarchie presiedute da élite, la Weil si spinge più a fondo. Muovendo da una matrice politica rousseauiana, Simone Weil individua nei partiti una fabbrica di passioni e conformismi che distolgono da quella stessa volontà generale che pretendono di rappresentare. L’attenzione della Weil si concentrerà così sui cosiddetti “quaderni di rivendicazione” del 1789, protocolli rappresentativi spontanei, popolari e quasi improvvisati, pronti a tradurre in pensiero le aspirazioni comuni in nome di una giustizia e di una rettitudine che, a suo avviso, mal si sarebbero sposate con le maglie ritenute troppo strette delle procedure e della burocrazia.
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tysm literary review, Vol 1, No. 3, “Teologie impolitiche” – march 2013
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