philosophy and social criticism

Assolutamente contemporaneo. Intervista a Robert Guédiguian

di Giampiero Raganelli

con la collaborazione di Giulia Zoppi

Dodici anni di carriera, con all’attivo diciassette film, e una vita artistica dedicata agli umili, a coloro che sono messi ai margini della società. Tutto il cinema di Robert Guédiguian pulsa attorno alla sua città, Marsiglia, e al quartiere popolare Estaque. Tutti i suoi film sono interpretati dallo stesso gruppo di attori, che rappresentano la sua famiglia allargata, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Jacques Boudet, Pascale Roberts e la moglie Ariane Ascaride.

Abbiamo intervistato Robert Guédiguian, in compagnia di Ariane Ascaride, a Bergamo in occasione della personale a lui dedicata dal Bergamo Film Meeting.

 

Il suo cinema si distingue per la grande sensibilità e interesse che nutre verso la classe operaia, di cui racconta da sempre le storie, con uno sguardo di forte empatia e affetto. Oggi la classe operaia sta attraversando un momento di grande difficoltà in tutta Europa, ma si è affacciata sulla scena un’altra categoria sociale che sta subendo le conseguenze di questa crisi economica, la media borghesia che fino a qualche tempo fa non era così indebolita. Che pensa di questo fenomeno, crede di poter includere in questa poetica questo cambiamento sociale?

Il cinema che ho fatto è sempre stato assolutamente contemporaneo. Ho sempre lavorato sulle classi sfavorite, quelle che Hugo chiamava “le pauvres gens”. Ho sempre seguito l’evoluzione di quel mondo, sono sempre con le antenne puntate sulla povera gente, che non più quella di prima. Per fare un esempio, pensiamo al cementificio che ho ripreso in tre o quattro dei miei film. Nel primo, Dernier été, il protagonista non voleva lavorarci. Era il 1980 e c’erano in Francia 300 000 disoccupati. Vent’anni dopo, in Marius et Jeannette, il personaggio principale è costretto a ricorrere allo stratagemma di fingere di avere una gamba rotta per farsi assumere nel cementificio.

Quello che non cambia è il mio modo di raccontare quel mondo. Io continuo e non si tratta di una scelta estetica, lo faccio quasi mio malgrado a dare a quel mondo e a quei personaggi una certa grandezza, a farne degli eroi. Conferisco loro tutte le qualità e tutti i difetti del mondo. Ritengo che il solo fatto di raccontare quell’ambiente sia una scelta politica. Infatti il popolo perlopiù è ridotto a comparsa nel cinema, dove c’è l’eroe e la folla rimane sullo sfondo, nello sfumato. Il gesto che ho fatto fin dal mio primo film, inizialmente mio malgrado e poi in modo sempre più consapevole, è stato quello di riportare questo popolo in primo piano, di farlo uscire dall’indistinto, dallo sfumato.

Ci sarà sempre povera gente. È evidente che adesso la classe operaia non è più quello che era. La classe operaia adesso sono gli impiegati, sono i colletti bianchi, anche se non hanno il grasso sulle mani, con tutti i loro problemi. Pensiamo ai suicidi per lavoro ce ne sono stati molti in Francia come quelli di France Telecom che non hanno nulla da invidiare alle morti sul lavoro dei minatori. Cambia solo la divisa, cambiano molte cose solo all’esterno. Per contrappeso devo sempre essere dalla parte degli ultimi.

Nel film Mon père est ingénieur lei cita la frase del poeta turco Nazim Hikmet «Io sono comunista, sono amore dalla testa ai piedi». Che cosa può ancora dire oggi il comunismo e che cosa rappresenta nella sua visione del mondo?

Il comunismo francese, quello italiano e, credo, anche quello spagnolo, si sono costruiti su un humus cristiano, quindi con rapporto forte con l’amore verso il prossimo, per usare una formula cristiana. Di conseguenza è un comunismo che ha un legame naturale con il lirismo, con il mistero, l’eternità e la trascendenza. Non è un comunismo unicamente razionale ma partecipa in qualche modo all’ordine della fede, dei pensieri e dei sentimenti poetici ed estetici.

film

Nel film Le voyage en Arménie affiora il ricordo del genocidio armeno mentre nel suo unico film storico L’armée du crime rievoca le gesta di un gruppo partigiano che ha combattuto contro l’occupazione. Spesso lei tratta il tema della memoria e del rapporto e della trasmissione del sapere tra le generazioni.

Credo sia estremamente grave che si siano se non rotti quantomeno allentati i fili che collegano le generazioni. Sicuramente il cinema può contribuire a ristabilire questi legami. In Les neiges du Kilimandjaro il conflitto tra le generazioni non ha ragione di essere. E se il conflitto si verifica comunque è perché il giovane non sa cosa ha vissuto il vecchio operaio sindacalista e l’operaio sindacalista non sa come vive il giovane. Penso che il movimento operaio in Francia, credo come in Italia, negli ultimi trent’anni si sia dedicato troppo nella lotta per difendere le conquiste raggiunte. Per quest’atteggiamento è rimasto in difesa ma non è andato “à l’attaque”, all’attacco, per citare il titolo di un mio film. È riuscito a frenare la regressione sociale ma ha smesso di fare proposte e quando non si fanno proposte alle generazioni giovani, necessariamente si verifica un loro allontanamento.

La trasmissione della memoria, per riannodare questi fili, non penso si possa fare a scuola anche se la scuola è molto importante. In Francia, in questi ultimi anni, c’è stata una diminuzione costante delle ore di storia, e in generale delle materie umanistiche, nell’insegnamento a beneficio di materie quali la contabilità. La trasmissione comunque si fa attraverso le pratiche comuni, il camminare gli uni accanto agli altri, l’agire insieme, le generazioni fianco a fianco. L’importante è stare gomito a gomito e non darsi la schiena.

Centrale nel suo cinema anche il tema della morte. C’è in tutti i film e diviene centrale in Le promeneur du champ de Mars.

C’è una ragione molto soggettiva della quale però non parlerò. Riguarda il mio rapporto personale con la morte di cui non ho niente da dire. Da un punto di vista più razionale la morte, la scomparsa, la fine, anche la fine di un film, mettono in prospettiva, danno importanza. Il punto finale di un racconto dà importanza al racconto stesso. E poi naturalmente questo apre la domanda di cosa rimane dopo, che traccia lasciamo. Parlavo prima del rapporto con la trascendenza. Dopo la nostra storia da persone vive, che cosa rimane? La morte di un personaggio fa di questo personaggio il protagonista di una storia. E quindi fa di quella storia una storia da raccontare. Faccio fatica a immaginare una storia in cui non ci siano una storia d’amore e una morte.

Sembra che ci sia una differenza di stile tra una prima fase del suo cinema, caratterizzato da un approccio più immediato con la realtà, che equivale a un’osservazione della stessa, e una seconda fase dove la narrazione è più complessa, mediata e didascalica per l’uso frequente della voce off.

ariane ascaride

Quando ho iniziato a fare cinema, non sapevo che avrei continuato. Facevo quindi film con una specie di urgenza di raccontare la mia vita, per salvarla. C’era la necessità di archiviare questa vita che sarebbe scomparsa. Rouge midi si può leggere come una specie di albero genealogico di Dernier été oppure, rovesciando la prospettiva, Dernier été è una specie di proseguimento di Rouge midi. Poi c’è stata la fase di Ki lo sa?, dove racconto cose nerissime, in cui tutti si suicidano. Poi mi sono svegliato e ho sentito la necessità di fare proposte e questo è avvenuto dieci anni dopo l’esordio. Ho fatto L’argent fait le bonheur, in cui il titolo è tutto un programma. Ho deciso che bisogna mostrare di nuovo alla gente che la fatalità è possibile, che la solidarietà è possibile, che ci sono dei momenti in cui si può anche sperare. Questo film infatti è come una favola. La realtà non è così, ma potrebbe esserlo e in questi casi bisogna essere onesti con lo spettatore. Ho iniziato un ciclo di film in cui si racconta la realtà non com’è ma come potrebbe essere, L’argent fait le bonheur, À la vie, à la mort!, Marius et Jeannette, tutti film che finiscono benissimo. Sono film incoraggianti e poi si tratta anche anche di conquistare il pubblico perché si dicono delle cose, ma si dicono delle cose a qualcuno, quindi non si può semplicemente dirle senza preoccuparsi della forma con cui le si dice e del numero di persone a cui le si dice.

Come mai nei suoi film usa spesso la musica classica?

I personaggi hanno diritto a questa musica. Da un lato c’è l’influenza di Pasolini che ha usato Bach per Accattone e Vivaldi per Mamma Roma, da un lato rientra nel creare uno shock di due mondi, per riprendere proprio le parole di Pasolini. Questa musica sulle borgate romane o sulle case degradate del quartiere Estaque di Marsiglia, mi sembra uno shock che produce senso, che dice delle cose. Rientra nel mio partito preso di dare grandezza al popolo associandolo a questa musica, che è considerata la grande musica, la musica per eccellenza. Oltretutto l’accostamento di questa musica, che non è un pleonasmo rispetto a quello che si vede, ci obbliga a guardare le cose diversamente, per contrasto.

In La ville est tranquille c’è poi questo rapporto del bambino con la musica classica che è particolare ed è un modo per affrontare quello che ritengo essere un gravissimo difetto del mondo in cui viviamo, il rapporto con la bellezza. L’arrivo alla fine del film di questo pianoforte nel quartiere rappresenta una disalienazione, una vittoria totale.

Lei usa spesso anche le canzoni e il rap.

La musica è una cosa fondamentale per le generazioni che mi seguono e il rap marsigliese ha un posto molto importante nel panorama francese. A Marsiglia ci sono i gruppi più seguiti. In La ville est tranquille ho citato Ya Rayah di Dahmane El Harrachi, che ha dato l’impulso iniziale a questa vitalità. Questa canzone è di cinquant’anni fa ma il panorama è ancora molto vitale. Per esempio il rapper, sempre marsigliese, Soprano vende milioni di click, milioni di file, milioni di qualcosa. E poi ci sono anche altri gruppi: è un settore molto vivace. Il rap è l’espressione più forte dei giovani, più della musica classica, per non parlare della politica e del sindacalismo.

Tutti i suoi film sono interpretati sempre dallo stesso nucleo di attori, quasi una famiglia cinematografica. C’è un’interazione con loro, e in particolare con sua moglie Ariane Ascaride, nella genesi e nella lavorazione dei film?

Ariane Ascaride: Io preferisco definirmi una “comédienne” piuttosto che un’”actrice”. C’è una sfumatura tra i due termini in francese. La parola actrice è associata a un contorno di glamour e d’immagine, in cui non mi riconosco assolutamente, mentre comédienne è un riferimento a un lavoro, a una persona che lavora. Il mio piacere è quello di dare carne e senso a dei personaggi che sono scritti su carta e su computer e dare loro un’evidenza.

Per quanto riguarda i film di Robert è vero che sono sempre la stessa faccia, la mia faccia, ma non sono mai io, sono sempre personaggi scritti, ai quali io mi metto a disposizione.

Sia con Robert che con altri registi, accetto solo personaggi che giudico interessanti e indispensabili. Ogni volta quello che mi importa è che, nel momento in cui mi vedo nel personaggio, non si possa pensare a un’altra attrice. Il mio obiettivo è che non ci si chieda qual è stato il mio percorso per arrivarci.

Un piccolo aneddoto. Per trovare i miei personaggi incomincio dalle scarpe. Perché nei piedi c’è qualcosa che risale fino al cervello, nessuno cammina allo stesso modo, si può riconoscere qualcuno per strada, anche da molto lontano, dalla sua andatura. Poi bisogna scegliere un tipo di scarpe particolare, in base al personaggio. È un problema cruciale. Se è un personaggio che lavora, che deve fare in fretta, avrà un particolare tipo di calzature. Prendiamo a esempio la protagonista di La ville est tranquille: questa donna è l’unica in famiglia che ha ancora un lavoro e nello stesso tempo deve combattere contro molte cose, ma vuole comunque restare una donna e quindi finisce per camminare con dei tacchi alti. La protagonista di Le voyage en Arménie è diversa perché il padre faceva scarpe, è cresciuta con l’amore delle scarpe ed è una persona che ha soldi, vive nel lusso, è arrivata in Armenia con tutto quello che la rappresenta, i suoi vestiti, le sue scarpe, di cui possiede varie paia dello stesso modello. Al limite si può dire che cambierà scarpe dopo la fine del film perché avrà capito, ma il film è tutto il suo percorso per capire e quindi per tutta la sua durata rimane con le sue scarpe. In L’armée du crime il commissario comincia a invaghirsi della ragazza ebrea partendo proprio dalle scarpe.

Robert Guédiguian: Io non scrivo per loro, non scrivo cose che so che sanno fare. Il personaggio di Michèle in La ville est tranquille e quello di Jeannette sono completamente opposti. Naturalmente so che saranno loro ma questo non ha influenza sulla mia scrittura, hanno più influenza le nostre conversazioni.

Ariane Ascaride: Non conosco molti registi che hanno una fiducia così grande negli attori. Robert pensa che possiamo interpretare tutto. Questa fiducia corrisponde per noi a una grande responsabilità e a una grande libertà. Bisogna sapere che quando giriamo Robert è il nostro primo spettatore, non è un regista direttivo è un regista spettatore. Noi appunto recitiamo per lui e per noi è una cosa straordinaria vederlo che ci guarda.

 

(Conversazione raccolta durante la conferenza stampa tenutasi a Bergamo il 15 marzo 2013 da Giampiero Raganelli con la collaborazione di Giulia Zoppi per TYSM).

 

tysm literary review, Vol 2, No. 4 – april 2013

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