philosophy and social criticism

Sisifo che risponde alle e-mail

di Francesco Paolella

Nota su: Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino 2015.

Potremmo fare tutto, e non riusciamo mai a fare nulla di importante. Del resto, nessuno potrà mai mettere davvero in pratica ciò che vorrebbe fare. Non pensiamo soltanto alle grandi aspirazioni. Nessun romanticismo. Ogni singolo giorno aumenta il feroce senso di colpa per non essere stati in grado – nel poco o nel molto di possibilità e responsabilità – di realizzare tutto quanto ci eravamo prefissati. La “lista delle cose da fare” rimane lì a condannarci.

Pare sempre che manchi il tempo. Ci vorrebbero giornate di 40 ore! Ma non sarebbe questa la soluzione, anzi. Rispetto ai nostri “fratelli maggiori”, vissuti nei secoli passati, sappiamo (e dobbiamo) fare molte più cose, e anche contemporaneamente. La nostra vita è incredibilmente più produttivi. E’ stato calcolato che dormiamo in media due ore in meno ogni notte rispetto all’Ottocento. La tecnologia ha invaso ogni ambito della nostra vita, anche il più insignificante, e – in teoria – essa avrebbe dovuto liberare molto del nostro tempo, prima occupato in faccende e compiti manuali o meccanici. Il tempo dovrebbe abbondare nelle nostre esistenze, e invece… E invece è logico che non è così, né potrebbe esserlo. Perché la liberazione è parziale e non a costo zero.

Bisogna correre. Bisogna saper essere multitasking, altroché. Bisogna essere produttivi e competitivi sempre, stare in guardia e stare sul mercato: lavoratori performanti, consumatori performanti, amanti, genitori e amici performanti. Competere sempre, e in primo luogo con (contro) se stessi. Migliorarsi, “tenersi in forma”, essere capaci di cambiare al momento giusto, aggiornarsi, per non rimanere indietro, per essere fiacchi, anacronistici e “fuori mercato”. E ciò non vale soltanto per il nostro lavoro, ma è certo che lo spettro della disoccupazione o del fallimento ci spinge a migliorare sempre le nostre prestazioni (e a sentirci in colpa non essendo mai abbastanza produttivi).

Questo – almeno – sarebbe il modello ideale. E sarà sempre il nostro dovere indiscutibile. Ideale, perché questa velocità, questo affanno, questa accelerazione crudele dei nostri ritmi di vita (provocata e sostenuta a sua volta dall’accelerazione tecnologica e da quella dei mutamenti sociali), non è un accidente. E’, all’opposto, la forza stessa, ciò che fa muovere la nostra società. E chi non riesce o non vuole stare al passo, chi finisce fuori sincrono, cade ai margini, si trova costretto a decelerare, finendo povero e disprezzato e cadendo anche nella depressione e nel burn-out. Nessun antagonista concreto è ancora apparso: non ci sono le illusioni degli anarchici di varia scuola.

Ormai pochissimi aspetti della nostra vita si sono conservati fuori da questa accelerazione totale (anzi – si può essere d’accordo con Rosa – totalitaria): per venire al mondo servono ancora nove mesi di gravidanza, dopo tutto… E talvolta, anzi spesso, ci troviamo in mezzo a delle “disfunzioni accidentali” causate dall’incontro di troppe velocità (pretese) concomitanti: come in un ingorgo nel traffico metropolitano. Per non dire delle comunicazioni: quanto in meno occorre per scrivere-spedire-ricevere una lettera rispetto a una e-mail? Ma oggi quanto tempo spendiamo (sprechiamo) per tenere dietro alle nostre caselle di posta?

«Se il lettore vuole cercare un esempio di questa sindrome nella sua vita di tutti i giorni, gli basti pensare ai suoi account di posta elettronica: con impegno notevole possiamo venirne a capo, leggendo e rispondendo a tutte le e-mail importanti, ma non appena ci dedichiamo a un’altra attività andiamo di nuovo sotto: alla fine della giornata avremo probabilmente più posta inevasa di quanta ne avessimo al mattino. L’account in silenzio torna a riempirsi senza sosta e noi ci sentiamo con un novello Sisifo. Stando così le cose, gli individui si sentono obbligati a sentirsi al passo con la velocità di cambiamento di cui fanno esperienza nel loro mondo tecnologico e sociale per evitare di perdere opzioni e connessioni potenzialmente preziose e mantenere la propria competitività» (p. 31).

Potremmo e non possiamo. Richiami al dovere, urgenze sempre troppo urgenti (perché di immediata realizzabilità), ci impediscono di vedere appena più in là dell’immediato. Il tempo si svuota. Subiamo una specie di inflazione delle opportunità, delle nostre potenzialità e ci troviamo fra le mani brandelli di esperienze di cui poco o nulla intendiamo il senso. Il tempo passa e non si accumula. Il presente – sempre più modesto – incombe e ci fa paura, perché può essere il momento in cui qualcosa si rompe e non riusciamo a stare al passo. Precarietà, insicurezza, volatilità dell’esperienza, perdita di riconoscimento: ogni ora, ogni minuto dobbiamo dimostrare di meritare quello che abbiamo. Chi è lento o inefficace devo solo accusare se stesso o il suo povero talento o la sua incapacità.

Per chi è lento, non c’è salvezza possibile, c’è solo disprezzo. Ecco perché – a pensarci – il welfare(forse l’unico ambito nel quale non domina ancora la competizione) è visto sempre più come antiquato e antieconomico, perché sarebbe un peso che bloccherebbe lo slancio di chi è forte, di chi è giovane, di chi è veloce.

È fin troppo facile vedere nella nostra politica tardomoderna (e la sua tardiva declinazione italica del renzismo) il simbolo stesso di questa accelerazione inarrestabile.

La svolta estetica della comunicazione politica, la sua trasformazione in giochi di immagini e slogan, con l’appello continuo a istinti e rancori: non ci troviamo soltanto di fronte a una certa forma del “fare propaganda”. Sono modi forse indispensabili per cercare di adattare la democrazia (ma snaturandola ahimè) alla velocità del mondo. Le regole, il dibattito, la formazione del consenso, la mobilitazione dei cittadini-elettori, è un armamentario di pratiche che rallenta e non risolve i problemi.

Da tutto ciò deriva una infinita alienazione, che segna il nostro rapporto con lo spazio, con il nostro sé e il nostro agire, e anche con le cose che compriamo e che vorremmo possedere. Si compete anche comprando. Per noi non ha più sempre riparare nulla: ogni oggetto invecchia prima che ci si possa appropriare di lui. Il “consumo morale” prende il sopravvento su quello fisico. Da ciò viene il continuo rilancio dei “falsi bisogni”. L’“usa e getta” è la risposta tardomoderna ai nostri limiti e alla morte – ed è una risposta che in realtà non serve a nulla.

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism

vol. 28, issue no. 28

september 2015

issn: 2037-0857

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