ALL’INCROCIO DEI DISCORSI SUI GENERI CINEMATOGRAFICI: TENTATIVI DI RILETTURA DELLE CATEGORIE FILMICHE
di Maria Cristina Caponi
Il genere cinematografico è una forma legittimata dalla sua stessa popolarità e costruita per essere accessibile a una cultura di massa, che ha internalizzato le sue convenzioni. Sotto una prospettiva semiotica, il genere lega il testo allo spettatore in un accordo di comunicazione preliminare, che consente al primo di utilizzare delle formule comunicative stabili e, all’altro, di impostare un proprio sistema di attese, come ha rimarcato Francesco Casetti parlando degli spazi di negoziazione tra produttore e pubblico[1]. Ciò non toglie che l’idea di genere cinematografico sia passibile di continua ridefinizione alla stregua di un movimento permanente, cosicché ogni classificazione gerarchica è soggetta a una valutazione tutt’altro che neutrale. Il rischio opposto equivale a spogliare il genere dalla sua concretezza e a considerarlo nei termini di un concetto astratto, estraneo a qualsiasi definizione. Ha ragione Jean-Marie Schaeffer nel momento in cui rigetta qualunque classificazione sulla falsariga di quelle scientifiche, allo scopo di distinguere i diversi generi filmici poiché – se l’individuo umano appartiene a una classe specifica – non si può dire lo stesso di un prodotto artistico[2]. Riflettendo sulla problematicità del riconoscimento dei generi, Rick Altman[3] ha scelto al principio di adottare un criterio che fosse contemporaneamente semantico e sintattico: laddove l’aspetto semantico si occupa delle caratteristiche tematiche e iconografiche comuni a più film, quello sintattico si concentra sulle strutture narrative con cui sono articolati. In seguito, per scongiurare il pericolo del genere visto come un oggetto destinato a rimanere tale, l’esperto ha integrato la propria analisi con una dimensione pragmatica. Altman pone così in campo la questione della ricezione da parte della comunità di spettatori, che è chiamata a riconoscere i tratti e le organizzazioni simili presenti in una serie di pellicole affini tra loro. Confrontando le varie dinamiche a cui sono ricorse alcune case di produzione nel corso dei decenni, Altman nota come la genesi dei generi comporti il passaggio da un’attribuzione aggettivale a una natura sostantivale con possibile creazione di neologismi che, a loro volta, sono passibili dello stesso processo evolutivo. A questo punto, Altman parla di due entità distinte: i generi e i cicli, ossia una serie di film di proprietà esclusiva delle case di produzione, contrassegnata da elementi analoghi dal punto di vista testuale. Tuttavia, può capitare che cicli particolarmente fortunati possano trasformarsi in generi condivisibili, dando origine a un processo a cui lo studioso impone il nome di “generificazione”. Altman giunge così alla constatazione che i generi filmici sono più simili a una vasta rete di sfaccettature di senso piuttosto che etichette fissate in modo definitivo una volta per tutte. Anzi, è vero esattamente l’opposto. A differenza della critica, l’esigenza dei produttori si rinviene nel non sottoporre i propri prodotti a un’esplicita ammissione dei generi di appartenenza. Vincenz Hediger[4] prende atto di questa volontaria lacuna, notando tale assenza di demarcazione all’interno dei trailer cinematografici. Nondimeno, sono presenti alcuni segnali indiretti, provenienti da un sistema intersemiotico, che lasciano intendere al pubblico le determinate marche categoriali di un testo filmico. Parimenti, anche attraverso alcune tipologie iconografiche del manifesto cinematografico – quali determinati colori, immagini, situazioni e oggetti – si possono leggere criticamente le immagini promozionali in funzione di una specifica aspettativa generica[5]. Si può citare l’esempio che fa Barbara Klinger[6] delle campagne pubblicitarie statunitensi nell’età post-bellica, volte a far risaltare il contenuto sensazionalistico di alcuni film. Negli anni ’50 questi film trattavano tematiche allora considerate audaci come incroci razziali, relazioni coniugali turbolente e aborti – questioni solitamente associate con il melodramma – e spesso sulle locandine dei film capeggiavano termini come “audace”, “scioccante” e “franchezza”, indipendentemente dal genere di appartenenza della singola opera. Così il western Sentieri selvaggi, il musical Amami o lasciami, la commedia Blue Moon e il crime film Detective story ricadevano sotto la categoria di “film per adulti”, un’etichetta onnicomprensiva accumulante un gruppo eterogeneo di testi filmici, benché tutti caratterizzati dalla presenza di tormenti psicologici, abusi di sostanze stupefacenti o tematiche sessuali.
Nel campo dei generi cinematografici è utile quindi procedere con cautela, giacché la classificazione di genere di alcune opere può essere incerta o soggetta a dispute. La questione se aderire o meno a formule ed etichettature di comodo ha spinto il critico Robert Stam a misurarsi con quattro diversi vincoli e inconvenienti tassonomici: la maggiore o minore estensione di un genere cinematografico; il normativismo, ossia la condizione di sottoporsi a idee stabilite a priori; la rete di definizioni monolitiche che non tengono conto del processo d’ibridazione e la tesi del biologismo, per cui un genere segue una dinamica evolutiva che configura un declino parodico[7]. In attinenza a questa specie di essenzialismo proposto da Stam, si rimanda al pensiero di Tzvetan Todorov, il quale sostiene che le etichette cambiano con il passare del tempo per cui «un nuovo genere è sempre la trasformazione di uno o diversi vecchi generi»[8]. Dal canto suo, Andrew Tudor[9] mostra che proprio la nomenclatura di un genere può essere arbitraria, scontrandosi con un dilemma di natura empirica, in quanto per i testi filmici non valgono rigide regole d’inclusione ed esclusione all’interno di un fissato genere. Secondo il punto di vista di Tudor, il problema ruota principalmente intorno al voler classificare i film tramite criteri preconcetti oppure attenendosi a un comune consenso culturale, per cui il genere è ciò che il pubblico collettivamente crede che esso sia. Appellandoci all’operato di antropologi come Bronislav Malinowski e Claude Lévi-Strauss, i generi si potrebbero approssimativamente definire come versioni contemporanee del mito sociale. Di diverso avviso è Barry Keith Grant[10], secondo cui tra i film di genere e l’esperienza vissuta dal pubblico esiste un continuo rimando, che preme fuori verso l’esigenza di esprimere e comunicare i valori della comunità di appartenenza. Altri problemi si presentano nel momento in cui i critici cercano di definire i film di genere in termini dei loro caratteri e delle loro storie oppure qualora (ad esempio Robin Wood[11]) si dimostrano interessati al nesso che collega la “qualità” del cinema d’autore con la “quantità” del cinema di genere, come nel caso di Alfred Hitchcock. Lo stesso dicasi della volontà di attenersi all’intensità delle reazioni emotive e cognitive del pubblico per determinare i confini di genere. È inquadrabile in tal senso lo studio della critica Linda Williams[12], che conia il termine “body genres” per raggruppare nello stesso medesimo insieme generi disuguali tra loro come l’horror, il porno e il melodramma. Questa variegata gamma di generi prospetta, infatti, un unico comune denominatore: il corpo umano – spesso e volentieri quello femminile – in qualità di oggetto di spettacolo, declinabile in chiave violenta nell’horror, sessuale nella pornografia ed emozionale nei “film strappalacrime”. In Laughing screaming: modern Hollywood horror and comedy William Paul si concentra sulle commedie e gli horror gross-out degli anni ’70 e ’80, tipo Carrie, Porky’s e Animal House[13], tanto per citarne alcuni. La caratteristica significante appurabile in tali “film di licenza” – questa è la definizione che usa Paul – è il loro interesse per il corpo e per tutti i suoi aspetti sessuali e scatologici come parte della loro estetica. In questa prospettiva, gioca un ruolo importante l’accostamento grottesco di sensazioni che sollecitano nello spettatore orrore puro, mentre insinuano un sotterraneo senso del comico. Un simile abbinamento è riconoscibilissimo nella serie Nightmare, al crocevia tra horror e comicità. A proposito di violenza, Kevin S. Sandler[14] utilizza il rating system dei media americani per giustificare la nascita di un nuovo genere cinematografico: quello dei film vietati ai minori. Ciò che risalta dalla disposizione a voler classificare un film nei gruppi PG o R è soprattutto una struttura di tipo formale, coniugabile in base al tema, al linguaggio, alla brutalità, al nudo, al sesso e all’uso di droga. A volte può accadere, come è avvenuto per Gremlins e Indiana Jones e il tempio maledetto, che queste pellicole sfidino la comprensione dei consumatori su cosa davvero costituisca il genere PG, dal momento che ogni tassonomia è sempre transitoria. Sulla scia di Cynthia Freeland[15], si potrebbe progettare pure una divisione di genere incentrata sullo sfruttamento dei numeri spettacolari – attimi di danza, sparatorie, crisi di pianto o il raccapricciante irrompere sulla scena di mostri e serial killer – che interrompono l’andamento della diegesi e sono riconducibili in un certo qual modo al “cinema delle attrazioni” teorizzato da Tom Gunning[16]. Infine, una diversa capacità di lettura e di decodificazione del genere può avere attinenza con la sede deputata all’attività di esercizio delle opere cinematografiche. Giova menzionare allora l’esperienza di Peter Wollen[17]: il primo ad abbracciare l’idea di un nuovo genere di film, distinto in base a dove ha luogo la proiezione. Si tratta del “Festival Film”, riconoscibile grazie alla presenza di una giuria, dei critici, del pubblico e in quanto deve attenersi a regole fisse al fine di ottenere dei premi.
Come precedentemente esposto, l’arbitraria etichetta di un film può cambiare, come anche la concezione del genere. È il caso allora di anteporre una ripartizione relativa, poiché determinata sull’asse cronologico, a un approccio astorico che fornisca il beneplacito per la creazione di categorie ideali. Alcuni generi sono definiti in maniera retrospettiva, essendo non riconosciuti come tali dagli originali produttori e pubblici. La pratica di ri-codifica dei generi in una forma di gran lunga più dinamica interessa, ad esempio, la famiglia dei teen movie. Può capitare di trovarsi di fronte a una pellicola come Gioventù bruciata di Elia Kazan che – all’epoca della sua uscita nelle sale cinematografiche – fu valutata un’opera sui problemi della società statunitense, laddove oggi c’è chi tende addirittura ad assorbirla all’interno del canone dei film adolescenziali. È piuttosto difficile invece che, alla luce della recente tipologia dei buddy movies, la sfida epistemologica coinvolga film come Sentieri selvaggi, quantunque l’opera di Ford possa sembrare un antesignano delle coppie di amici on the road viste in Easy rider e Thelma & Louise. Sebbene possa apparire oscillante la ricezione critica di pressoché tutti i film, esplicativo è il caso di The spiral staircase, conosciuto in Italia con il titolo La scala a chiocciola. Nel 1946 molti furono del parere che il lungometraggio di Robert Siodmark fosse uno shocker film. In un secondo periodo la pellicola venne riclassificata secondo la nomea di woman’s film, dal momento che l’opera era orientata a includere una platea femminile, poco incline – secondo le teorie consolidate – a provare piacere per un horror. A detta di Tim Snelson, l’idea che il genere horror sia misogino e indirizzato a un pubblico maschile costituisce un presupposto di senso comune presso i membri della critica femminista (tra cui Caroll Clover e Tania Modleski). Ma, con lo studioso inglese la situazione cambia, tanto da ritornare di nuovo al punto di partenza: infatti, per Snelson[18] La scala a chiocciola rientra a pieno titolo negli slasher film, sfidando l’audience femminile a non chiudere gli occhi e scappare dalla sala.
Come si può facilmente evincere, risulta oltremodo arduo trovare film che siano esenti da forme d’ibridazione, in quanto a Hollywood i generi puri non esistono. Al contrario, quella della mescolanza appare una pratica primaria di costruzione e rappresentazione di una trama narrativa. Vero è che il mito del genere allo stato puro ha cercato di resistere all’urto del tempo, ma nel corso degli anni la critica si è resa conto delle relazioni strutturali tra due o più generi. Può capitare che questa strategia non riguardi esclusivamente gli elementi testuali, ma si pieghi alla volontà di attingere a differenti paradigmi stilistici e musicali per poi negoziarli tra loro. A livello sonoro, simile correlazione sinergica è evidente in Via col vento, soprattutto nei frangenti in cui il tema lirico da melodramma romantico si tramuta in marcia militare, impiegando convenzioni melodiche familiari ai film di guerra. L’indebolimento dei confini di genere suggerisce l’eventualità che vi siano molteplici punti di contatto tra differenti specie di film. Per questo motivo è ammissibile la ricerca di presupposti di connessione tra le screwball comedy, tanto per fare un esempio, e le commedie musicali degli anni ’30. Allo scopo di conquistare sul piano commerciale l’attenzione di un largo pubblico, infatti, frequentemente si attua la modalità del dual plot. Per motivare l’esistenza di un sotto-intreccio, Thomas Schatz rammenta che «fare lungometraggi, come la maggior parte della produzione di mass media, è un’impresa costosa. Quelli che investono il loro capitale, dallo studio importante all’indipendente che si dibatte, incappano in un curioso problema: da una parte il loro prodotto deve essere sufficientemente inventivo da attirare l’attenzione e soddisfare la richiesta di novità del pubblico e, dall’altra parte, devono proteggere il loro investimento iniziale, contando in qualche modo sulle convenzioni costituite che hanno dato prova attraverso precedenti esposizioni e ripetizioni»[19]. Per conquistare una fetta sempre maggiore di mercato, può inoltre entrare in gioco l’esigenza di seguire una logica filmica che amalgami dottrine politiche contraddittorie. Vale allora la pena di rievocare la posizione di Wood, allorché riscontra in alcuni prodotti hollywoodiani degli anni Settanta la presenza d’ideologie in aperta contraddizione tra loro. Fra i vari film che il critico canadese cita vi è Taxi driver. Wood qualifica questo controverso psicodramma un “testo incoerente”, nato dal binomio fra il regista liberale Martin Scorsese e lo sceneggiatore «quasi fascista»[20] Paul Schrader, che considera il protagonista Travis Bickle un eroe solitario impegnato a protestare contro un mondo ingiusto. Essenzialmente, però, una garanzia per i produttori risiede nella decisione di mescolare elementi tratti da differenti generi con risultati atipici. È fuorviante ritenere che la commistione dei generi sia una caratteristica imprescindibile del postmoderno, poiché è un aspetto abitudinale e comune nel campo cinematografico. A questo proposito, Veronica Pravadelli[21] prende in esame il lungometraggio Le ragazze di Harvey con Judy Garland e Angela Lansbury, in quanto esempio di un certo tipo di folk musical ibridato con il genere western. In questo testo filmico si può osservare come gli elementi semantici propri del western si fondino e generino una certa empatia con la sintassi tipica del musical. Nella pellicola di George Sidney è possibile riscontrare l’aggiunta di parti più leggere e brillanti provenienti dal musical, che subentrano allo statuto di violenza e morte dei western. Al primo genere è riconducibile anche la presenza di parallelismi formali tutti al femminile fra la protagonista e la sua acerrima rivale del saloon; mentre, al secondo, fa riferimento una forma di rappresentazione basata sulla conflittualità.
Il piacere del film di genere proviene dagli elementi inattesi, che vanno a inficiare la riaffermazione delle convenzioni. Sul fatto che la prevedibilità del genere si fondi su un sistema di ripetizioni e varianti dissertano anche Bordwell e Thompson, secondo i quali «il pubblico si aspetta che i film di genere offrano qualcosa di familiare, ma pretende anche che presentino delle novità. Il cineasta può inserire qualcosa di discretamente o radicalmente diverso, ma comunque si richiamerà alla tradizione. Il gioco della convenzione e dell’innovazione, della familiarità e della novità è vitale per i film di genere»[22]. A ciò si può aggiungere il piacere di trasmutare e rovesciare i generi, usando l’arma eterogenea della parodia. Nel 1981 Gérard Genette[23] ha esposto una classificazione comprendente le varie relazioni intertestuali segnalabili in campo letterario, una tassonomia che è stata recuperata in un secondo tempo pure dalla teoria cinematografica. La suddivisione proposta dal saggista francese annovera: l’intertestualità o presenza effettiva di un testo in un altro; la paratestualità o relazione di un testo con ciò che lo accompagna (il paratesto); la metatestualità o commento dell’opera; l’architestualità o appartenenza di un testo a una categoria di opere; l’ipertestualità. Quest’ultima è senza dubbio la più interessante, poiché concerne la relazione di un testo primo con un’opera precedente, ipotesto, che può realizzarsi sulla modalità della citazione, della parodia e – in alcuni casi – del plagio. La parodia e il pastiche si osservano in particolare in quelli che Steve Neale[24] definisce i “film genericamente segnati” (generically marked films), che puntano a forme di conoscenza pre-acquisite dal pubblico per avere un senso e per i quali il genere condiziona sia la produzione sia la ricezione senza determinarli completamente. Nella nuova Hollywood post 1975, l’estensione alla quale è arrivata la pratica d’ibridazione tra generi diviene per Jim Collins un atteggiamento impulsivo con esagerata razionalità esplicativa. A riprova, basti ricordare le rimostranze esternate da Roger Ebert, secondo cui: «Predator inizia come Rambo e finisce come Alien e, nella Hollywood di oggi, questa è creatività»[25]. Nel contesto della condizione postmoderna, Collins afferma che questi nuovi tipi di generi si focalizzano intenzionalmente su “ibridizzazioni ironiche”[26] fondate sulla dissonanza. Sospinto dalle sue idee, Collins descrive come esempio la scena di Ritorno al futuro Parte III in cui Michael J. Fox guarda nello specchietto gli indiani a cavallo e, frattanto, conduce la Delorean attraverso i canyon della Monument Valley, lo scenario preferito dei film western. Pure i film realizzati da alcuni gruppi minoritari come quelli costituiti dalle femministe americane, dagli afroamericani, dagli ispanici, dagli indipendenti e dalle avanguardie artistiche trovano nella pratica dell’ibridazione e nella parodia l’occasione per dialogare in maniera autonoma con la cultura dominante. Il problema risiede nel fatto che questi prodotti audiovisivi fanno parte della stessa famiglia linguistica della cultura occidentale, che cercano di criticare dall’interno.
La discussione subirà ora un restringimento di campo, affrontando l’esame delle difficoltà insite nel circoscrivere gli orizzonti dei generi attraverso il caso problematico del melodramma cinematografico. L’analisi di questa categoria critica si colloca, infatti, all’intersezione fra i problemi legati alle condizioni della sua stessa esistenza e il ripensamento di tale genere nell’ambito dell’ibridazione di differenti tipologie filmiche, come ne Il romanzo di Mildred dove strategie estetico – comunicative proprie del woman’s film sono calate all’interno di una cornice da film nero. La componente attrazionale atta a permettere l’incorporazione del plot noir all’interno della pellicola di Curtiz è soprattutto l’illuminazione fortemente contrastata per il presente, relativamente all’omicidio e al successivo interrogatorio dentro una centrale di polizia. Simile condotta stilistica, invece, non si rinviene nelle sequenze strutturate per mezzo del flashback e incentrate sulle vicissitudini melodrammatiche del personaggio di Joan Crawford. Del resto, la dicotomia tra il genere noir e le regole del woman’s film affiora già dalla stesura della sceneggiatura de Il romanzo di Mildred: infatti, mentre a Catherine Turney è affidato il nucleo tematico ruotante intorno al melodramma domestico, Albert Maltz lavora a sviluppare una trama d’azione, più affine ai gusti e agli interessi del pubblico maschile. Anche in un western come Duello al sole di King Vidor può prendere consistenza e terreno l’intreccio melodrammatico raffigurato dalla storia d’amore fra la meticcia Pearl e il geloso cowboy Lew, che si concluderà con una tragica vendetta della donna. Per capire come si possa parlare di sottotrama melodrammatica in Duello al sole, bisogna approfondire il discorso teorico di Laura Mulvey secondo cui «è come se l’obiettivo della narrazione avesse “zoomato” sulla chiara funzione “matrimonio” (“e vissero felici…”) e l’avesse aperta, chiedendo così “e poi?” e per mettere a fuoco la figura della principessa che attende impaziente il suo momento d’importanza, per chiedere “e lei che cosa vuole?”»[27]. Nel testo filmico di Vidor, invero, il principale personaggio femminile appare diviso tra la volontà di realizzarsi in termini di contenimento sociale e il desiderio di esprimersi sessualmente, muovendosi in direzione di una riacquistata “fase attiva” di natura pre-edipica.
Dopo aver rivisitato la struttura dualistica alla base de Il romanzo di Mildred e di Duello al sole, si vuole affrontare il discorso relativo all’evanescenza delle marche di genere partendo da Melodrama: Postmortem for a phantom genre di Russell Merritt. Qui lo studioso si prefigge lo scopo di dar luogo all’“autopsia di un genere fantasma”, come recita il sottotitolo del suo saggio che riflette sulla presunta indefinitezza del concetto di melodramma: «la mia opinione è che il melodramma in quanto categoria drammaturgica coerente non sia mai esistito, che non sia mai giunto a essere un’estetica globale o coerente ma neppure un catalogo circoscritto di meccanismi teatrali»[28]. Una conferma alla tesi di Merritt proviene dalla disamina di fonti giornalistiche quali «Moving Picture World», «Exhibitors Film Exchange», «Exhibitors Herald» e «the Biograph Bulletins» per l’epoca preclassica e «Film Daily», «The Hollywood Reporter», «Motion Picture Herald» e «Variety» per il periodo classico. Dopo un attento esame delle testate stampa sopracitate, Neale[29] nota che il termine “melodramma” non era deputato a indicare generi femminili o woman’s film, ma drammi d’azione comprendenti film di guerra, di avventura, horror e thriller per un target maschile. Meditando sul rapporto che connette la modernità con il cinema seriale americano dagli inizi fino agli anni ’10, Ben Singer guarda al melodramma come cluster concept, per la possibilità di una stratificata serie di configurazioni che calibra il pathos con le emozioni sovraccariche, la polarizzazione morale con la struttura narrativa anticlassica e il sensazionalismo: elementi tutti rientranti nel repertorio melodrammatico. Solitamente, però, solo alcuni di essi si organizzano tra loro per riempire le fila dei diversi sottogeneri del melodramma[30]. Pertanto, è utile analizzare la relazione che i testi intrattengono con il proprio contesto sociale, secondo una prospettiva storica.
Ma cos’è il melodramma, genere trans-storico e trans-nazionale che a partire dagli anni Settanta ha destato tanto interesse nel settore dei Film Studies? Per rispondere a questo interrogativo, è innanzitutto necessario precisare la natura di tale oggetto sulla scorta di due studiosi della stregua di Peter Brooks e Thomas Elsaesser. Concepito come un testo di critica letteraria, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess di Brooks analizza l’origine del melò, trovando preciso riscontro in modelli drammaturgici simili. Brooks finisce per coniare la locuzione “immaginazione melodrammatica”, una volta scoperto il ruolo cruciale che ha in queste opere la potenza degli esasperati conflitti, coniugata con una qualità alquanto eccessiva dal punto di vista espressivo[31]. Solo quattro anni prima di The Melodramatic Imagination, usciva quello che era destinato a divenire il primo importante saggio sul melodramma cinematografico a firma di Elsaesser. Il critico tedesco s’incentra sull’importanza che acquisisce nel melodramma filmico l’enfatizzazione di elementi come la colonna sonora, l’uso antinaturalistico del colore e una ricostruzione scenica sovraccarica. Il provocatorio saggio di Elsaesser consente di tratteggiare i family melodrama come subversive texts, tesi da un lato a supportare l’ideologia alla base della loro stessa esistenza, dall’altro a contraddirla mediante la produzione di rotture stilistiche e discontinuità espressive. La funzione auspicata da quelli che la Klinger ha definito “testi progressivi” [32] acquista così una posizione antagonistica rispetto ai film che adottano un linguaggio classico, caratterizzato da una messa in scena che opera al mantenimento dell’illusione rappresentativa, in funzione della concezione dominante. La trattazione di Elsaesser è scandita dalle opere di registi come Douglas Sirk o Nicholas Ray, sotto i quali hanno visto la luce celebri melodrammi familiari, risalenti agli anni ’50 ovvero all’ultima stagione del cinema classico hollywoodiano. Secondo l’autore: «le qualità stesse di questo tipo di cinema dipendono dai modi in cui si dà ‘melos’ al ‘drama’ attraverso il montaggio, le luci, il ritmo delle immagini, l’ambientazione, lo stile di recitazione, la musica – cioè dei modi usati dalla regia per tradurre il personaggio in azione (non diversamente dal romanzo prima di James) e l’azione in gesto e in spazio dinamico (similmente all’opera e al balletto del XIX secolo)»[33].
La questione più spinosa da risolvere nell’affrontare la definizione di melodramma, riguarda il nesso tra questo genere cinematografico e il woman’s film. In Film/Genre Altman ricostruisce l’operazione critica attraverso la quale si è fatto rientrare il woman’s film nell’ambito del melodramma, risaltando le connessioni fra questa categoria di genere e le correnti culturali a cui i critici appartengono. Per Karen Hollinger[34], i woman’s film degli anni ’30 e ’40 erano indirizzati a un pubblico femminile, il cui discorso narrativo verteva su problemi di particolare interesse per le donne, rivissuti sul grande schermo da female characters che cercano – in opposizione alla famiglia e alla società – di infrangere la barriera dei ruoli precostituiti. Di essi fanno parte racconti gotici come Il castello di Dragonwyck di Mankiewicz, noir come il già menzionato Il romanzo di Mildred, pellicole sentimentali tipo La donna proibita di Stahl e il sottogenere maternal melodrama che annovera al suo interno film come Stella Dallas di Vidor, Perdutamente tua di Rapper o Venere bionda di Sternberg. Un passo importante in questa prospettiva è stato fatto da Molly Haskell nel 1974[35]. È stata proprio una delle esponenti della Feminist Film Theory a osservare – con una certa avversione – come Hollywood nel corso della sua storia si sia attenuta a una deliberata divisione tra le linee del gender, con la nozione di woman’s film ricollegabile a una audience prettamente femminile. Si tratterebbe quindi di un genere trattato con negligenza da parte dei critici maschili, come ha d’altronde rilevato Andrea S. Walsh[36]. Il volume The Desire to Desire: The Woman’s Film of the 1940s[37] di Mary Ann Doane ha seguito la valutazione riabilitante della Haskell e ha dato un contributo rilevante a quest’area di studio, giungendo alla conclusione che i film per le donne diventarono essenziali per l’industria hollywoodiana degli anni ’40, poiché il pubblico femminile era predominante durante la Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, la Doane è stata una dei primi critici a non perseverare nell’usanza di mettere le virgolette di fronte all’espressione woman’s film, dando così uno statuto differente e implicitamente superiore a una categoria finora confusa con il melodramma. Nel 2003, nel tentativo di proporre un’esplicitazione universalmente riconosciuta del genere chick flick, la Haskell cerca di far confluire alcuni elementi di base del woman’s film in questo filone appena comparso all’orizzonte. Ugualmente al woman’s film, il chick flick si articola sulla «centralità della donna che ruota intorno alla vita delle emozioni, un’arena nella quale gli uomini esistono puramente come oggetto ausiliare delle donne, e solo per essere amati». Stavolta, però, la protagonista femminile non subisce necessariamente la legge che le ha riservato il fato ma, pur avendo la facoltà di esprimersi attraverso le maggiori possibilità di opzioni organizzative, soffre.[38]
Nel corso del tempo, il melodramma si è trasformato da genere controverso a modalità extra-testuale, manifesta in tutto il cinema hollywoodiano. In Melodrama and Modernity: Early Sensational Cinema and Its Contexts, la Williams è del parere che il melodramma sia una forma peculiarmente democratica e americana, suffragata da una contrapposizione tra pathos e azione con conseguente palesamento di verità morali ed emotive. Pertanto, la Williams si riconnette alle meditazioni sull’“immaginazione melodrammatica”, ravvisabili anche nel lavoro della Gledhill improntato sul divario tra i generi maschili inclini al realismo e il melodramma, una categoria confinata in un’identità distinta in base al genere sessuale[39]. Per la Williams il melodramma non è né una “deviazione” della narrazione classica realista, né tantomeno può essere localizzato solo nei woman’s films, nei “weepies” o nei melodrammi familiari. Tra le pagine del suo saggio, invero, la studiosa americana cita film come Philadelphia e Schindler’s List, particolarmente popolari presso una audience maschile. La critica statunitense sostiene che «i climax delle pellicole d’azione possono essere scrupolosamente motivati o sconsideratamente non plausibili, a seconda del film. Comunque, sebbene di solito fedele alle leggi di moto e gravità, questo realismo dell’azione non ci dovrebbe ingannare e far pensare che il modo dominante di tali film sia il realismo. Né dovrebbe la virilità dell’azione stessa ingannarci a pensare che non sia melodrammatico»[40]. Per avvalorare il suo pensiero, la Williams punta il dito sul personaggio di Rambo, presentato al pubblico come una vittima di guerra dalla perduta innocenza e, quindi, alla stregua di un eroe sofferente. A distanza di trentacinque anni dal saggio Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodrama, Elsaesser torna a parlare del melodramma come di una “modalità del sentire” e di “una visione del mondo”, libera di dispiegarsi fuori dai bordi del cinema e ancora oltre. La tesi affrontata da Elsaesser riguarda «la stessa modalità melodrammatica [che] si offre come un nuovo “universale”, un universale che richiede però ogni volta un’attualizzazione assai specifica e circoscritta»[41], rintracciabile tanto nei talk show di Oprah Winfrey, quanto nei reality show televisivi o nella cronaca nera.
Per concludere, come ha dato prova la dissertazione sul melodramma, ripensare la storia di un genere significa per prima cosa vagliare il processo generico stesso, i flussi continui d’interazione tra generi e il prendere atto di come i modi di produzione/espressione cinematografici si siano modificati nel tempo. In aggiunta a ciò, è doveroso riflettere sui processi di transculturazione a cui è soggetta una cinematografia e riallacciarsi alle teorie della ricezione spettatoriale, senza omettere una visione integrata e ad ampio spettro sul periodo storico in generale, vagliandolo in tutti i suoi aspetti sociali, culturali e politici.
[1] Francesco Casetti, Film Genres, Negotiation Processes and Comunicative Pact, in Leonardo Quaresima, Alessandra Raengo, Laura Vichi (a cura di), La nascita dei generi cinematografici, Atti del V Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Udine, 26-28 marzo 1998, p. 29-30.
[2] Jean-Marie Schaeffer, Che cos’è un genere letterario?, Parma, Pratiche, 1992, p. 26.
[3] Rick Altman, Film/Genere, Milano, Vita e Pensiero, 2004, p. 92
[4] Vincenz Hediger, La cartografia degli affetti. A proposito delle marche di genere nei trailer cinematografici, in Ruggero Eugeni, Luisa Farinotti, Territori di confine: contributi per una cartografia dei generi cinematografici, in «Comunicazioni sociali», n. 2, 2002, p. 202-211.
[5]Aa. Vv., Anselmo Ballester e le origini del manifesto cinematografico, CSAC dell’Università di Parma, Parma, 1981.
[6] Barbara Klinger, “Local” genres. The Hollywood Adult Film in the 1950s, in Jacky Bratton, Jim Cook, Christine Gledhill (ed.), Melodrama: Stage Picture Screen, London, BritishFilm Institute, 1994, p. 135-136.
[7] Robert Stam, Film theory: an introduction, Blackwell Publishing, Oxford, 2000, p. 128.
[8] Tzvetan Todorov, I generi del discorso, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 47.
[9] Andrew Tudor, Theories of Film, New York, Viking Press, 1973, p. 139.
[10] Barry Keith Grant, Experience and meaning, in Barry Keith Grant (ed.), The Film Genre Reader III, Austin, University of Texas Press, 2003, p. 116.
[11] Robin Wood, Ideology, genre, auteur, in Barry Keith Grant (ed.), Film Genre reader III, cit., p. 60.
[12] Linda Williams, Film bodies: gender, genre and excess, in Julie F. Codell (ed.), Genre, gender, race, and world cinema, Oxford, Blackwell, 2007, p. 23-37.
[13] Paul William, Laughing screaming: modern Hollywood horror and comedy, New York, Columbia University Press, 1994.
[14] Kevin S. Sandler, Movie ratings as genre: “The incontestable R.” in Steve Neale (ed.), Genre and Contemporary Hollywood, London, British Film Institute, 2002, p. 201-217.
[15] Cynthia A. Freeland, The Naked and the Undead: Evil and the Appeal of Horror, Boulder, Westview Press, 2000.
[16] Tom Gunning, The Cinema of Attraction: Early Film, Its Spectator and the Avant-Garde, in Thomas Elsaesser (ed.), Early Cinema: Space, Frame, Narrative, London, Bfi, 1990.
[17] Peter Wollen, Paris Hollywood: writings on film, London, Verso Books, 2002, p. 9.
[18] Tim Snelson, ‘From grade B thrillers to deluxe chillers’: prestige horror, female audiences, and allegories of spectatorship in The Spiral Staircase (1946), in «New Review of Film and Television Studies», vol. 7, n. 2, June 2009, p 173-188.
[19] Thomas Schatz, Hollywood Genres, New York, McGraw & Hill, 1981, p. 5.
[20] Robin Wood, Hollywood from Vietnam to Reagan, Columbia, University Press, New York, 1986, p. 54.
[21] Veronica Pravadelli, La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, Venezia, Marsilio, 2007, p. 242-251.
[22] David Bordwell, Kristin Thompson, Cinema come arte: teoria e prassi del film, Milano, Il Castoro, 2003, p. 149.
[23] Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997, p. 23.
[24] Steve Neale, Genre and Hollywood, London, Routledge, 2000, p. 336.
[25] Roger Ebert, Roger Ebert’s Movie Home Companion, Kansas City, Andrews & McMeel, 1991, p. 426.
[26] Jim Collins, Genericity in the Nineties: Eclectic Irony and the New Sincerity, in Jim Collins, Hilary Radner (ed.), Film theory goes to the movies, London, Routledge, 1993, p. 248.
[27] Laura Mulvey, Le ambiguità dello sguardo, in «Lapis», n. 7, marzo 1990, p. 40.
[28] Russell Merritt, Melodrama: Postmortem for a phantom genre, in «Wide Angle», n. 5, 1983, p. 25.
[29] Steve Neale, Melo Talk: On the Meaning and Use of the Term “Melodrama” in the American Trade Press, in «The Velvet Light Trap», n. 32, autumn 1993, p. 66-89.
[30] Ben Singer, Melodrama and Modernity: Early Sensational Cinema and Its Contexts, New York, Columbia University Press, 2001, p. 54.
[31] Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Pratiche, Parma, 1985, p. 68.
[32] Barbara Klinger, “Cinema/Ideology/Criticism” Revisited: The Progressive Genre, in Barry Keith Grant (ed.), The Film Genre Reader III, cit., p. 75-89.
[33] Thomas Elsaesser, Storie di rumore e furore. Osservazioni sul melodramma familiare, in Pezzotta A. (a cura di), Forme del melodramma, Bulzoni, Roma, 1992, p. 22.
[34] Karen Hollinger, In the Company of Women: Contemporary Female Friendship Films, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1998, p. 2.
[35] Molly Haskell, From Revenge to Rape: The Treatment of Women in the Movies, Penguin, New York, 1974.
[36] Andrea S. Walsh, Women’s Film and Female Experience, 1940-1950, New York, Praeger, 1984, p. 36.
[37] Mary Anne Doane, The Desire to Desire: The Woman’s Film of the 1940s, Bloomington, University of Indiana Press, 1987.
[38] Molly Haskell, Girls on Film: Why Chick Flicks Have Greater Emotional Integrity thanMen’s Movies, in «The Guardian», 28 March 2003.
[39] Christine Gledhill, The Melodramatic Field: An Investigation, in Christine Gledhill (ed.), Home Is Where the Heart Is: Studies in Melodrama and the Woman’s Film, London, Bfi, p. 5-39.
[40] Linda Williams, Melodrama revised, in Browne Nick (ed.), Refiguring American film genres: history and theory, Berkeley, University of California Press, 1998, p. 73.
[41] Thomas Elsaesser, Modalità del sentire o visione del mondo? Una rivisitazione del melodramma familiare e dell’immaginazione melodrammatica, in Elena Dagrada (a cura di), Il melodramma, Roma, Bulzoni, 2007, p. 41.
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tysm literary review, Vol 6, No. 8, September 2013
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