philosophy and social criticism

Il signore del caos

"Signore del caos"

di Tommaso Barbetta

Nota su: Il signore del caos. Sono Sion, a cura di Dario Tomasi e Franco Picollo, edizione Caratterimobili, Bari 2013.

Famiglie spezzate, dai legami instabili, personaggi in cerca d’identità,  significanti in cerca di significato. Nei film di Sono  “più che essere, l’individuo è spinto a fingere” spiega Dario Tomasi in uno dei vari saggi all’interno del libro.[1] L’esempio più evidente si può trarre da Noriko’s Dinner Table  (Noriko no Shokutaku, 2005), opera di particolare importanza nella produzione del regista, dove i membri di un’organizzazione su richiesta di sconosciuti, in cambio di danaro, vestono i panni di padri, madri, figli e parenti, di persone che non hanno mai conosciuto e che forse non sono mai nemmeno esistite. Padri, madri, figli a noleggio. Si tratta di assumere un’identità e di esercitare il ruolo all’interno di una famiglia virtuale.

E’ un gioco.  Ogni membro è perfettamente consapevole del carattere metalinguistico del gioco stesso. Tutti sanno che quella che si sta attuando è una messa in scena, un simulacro. Il problema non è quel gioco, le cui regole impongono delle identità perfettamente scolpite. Il problema è il non gioco. Il problema delle protagoniste di Noriko e di molti film di Sono Sion è che, in un modo o nell’altro, hanno raggiunto la consapevolezza che fuori, al di là della siepe, c’è il nulla. Fuori dal gioco non ci può essere che un altro gioco. Finito un gioco non può che iniziarne un altro. E naturalmente gli spettatori (o meglio, coloro che incarnano l’identità di spettatori) si trovano spiazzati di fronte a questo ossimoro, di fronte all’affermazione della negazione: al di fuori di questo film/gioco non c’è la realtà, fuori dal film/gioco c’è solo il gioco. Un Sono Sion-Baudrillard che ci mostra come la realtà sia solo simulacro.

In questo senso il cinema di Sono Sion pare un grido contro l’assoluto. Noi possiamo vivere, non possiamo essere se non nella finzione. Viviamo in giochi linguistici e siamo vittima di essi. Esempio straordinario è la scena che ritrae una delle ragazze appartenenti al circolo, all’organizzazione sopracitata, farsi uccidere simulando il ruolo di una moglie infedele. Viene uccisa nel gioco, nella finzione. Viene uccisa dalla finzione. Muore per proteggere la sua forma, perché l’armonia sia rispettata. La stessa ragazza nella scena precedente ci spiega che nel gioco è necessaria la presenza di una varietà di ruoli: “non ci può essere solo champagne”, perché esso venga versato “è necessario il che a qualcuno sia affidato il ruolo di bicchiere”. “Perché si possa vivere felicemente è essenziale che vengano interpretati questi ruoli”.

cover sion sonoQuando questo non avviene, il meccanismo si inceppa. È proprio in questo momento che prendiamo coscienza del carattere ludico della realtà. Le famiglie in crisi dei film di Sono Sion sono spesso la rappresentazione di questa macchina inceppata, della falla che permette ai protagonisti di vedere l’abisso.  Quella del cinema di Sono “è una famiglia che non esiste come nucleo armonico e che i genitori riconoscono solo nella forma rappresentata”, spiega Claudia Bertè[2]. La famiglia diventa pura forma, da difendere, se necessario con la morte, come per la madre di Noriko, personaggio che, come scritto da Bertè, “vive il proprio ruolo in un mondo fatto di dipinti che ritraggono una famiglia felice che in realtà non esiste” e che alla fuga delle due figlie riesce a rispondere solamente con il suicidio. Non si tratta di una scelta molto diversa da quella dell’anziana coppia interpretata da Natsuyagi Isao e da Ōtani Naoko in Land of Hope (Kibō no Kuni, 2012) che, di fronte all’emergenza nucleare, sceglierà il suicidio pur di non trasferirsi, pur di non allontanarsi dal luogo dove ha vissuto per tanti anni. Perché quello è il contesto che dà loro significato. Abbiamo senso solo all’interno di un contesto, solo se connessi a qualcuno, solo se connessi a qualcosa. E allora è meglio morire e dar fuoco alla propria casa pur di non uscire dal gioco. È la difesa della pura forma. Il suicidio dei protagonisti non è una forma di protesta, non vuole richiamare l’attenzione mediatica. È un suicidio silenzioso, nel mezzo di una terra abbandonata. Sembrerebbe essere la realizzazione dello snobismo descritto da Kojève nella Introduzione alla lettura di Hegel: “ogni Giapponese è, in linea di principio e per puro snobismo, capace di mettere in atto un suicidio perfettamente gratuito[3]. Si tratta naturalmente di una teoria che, per quanto essenzialista ed orientalista può fornire alcuni punti su cui riflettere. Non è naturalmente vero che ogni Giapponese sarebbe in grado di mettere in atto un suicidio gratuito, in difesa della pura forma. Certamente Sono Sion ne è altrettanto consapevole. Tuttavia in film come Suicide Club (Jisatsu Sākuru, 2002), dove decine di ragazzi si tolgono la vita apparentemente senza nessuna ragione, possiamo leggere qualcosa di molto vicino alle teorie di Kojève. A differenza dell’autore francese Sono Sion non parla solo del Giappone e non intende descrivere un fenomeno tipicamente giapponese. Del resto, un regista tanto critico nei confronti del concetto di identità, come potrebbe rappresentare qualcosa come “tipicamente giapponese”?

Nella ricerca di una verità che non esiste ai protagonisti di Suicide Club sono posti una serie di grandi quesiti: “qual è il tuo legame con te stesso?”, “sei connesso a te stesso?”, quesiti che potrebbero essere parafrasati con “rivesti tu un senso e dunque esisti in quanto individuo?”, una domanda a cui sembrerebbe non esserci risposta.

E’ in questa situazione di incertezza esistenziale che i personaggi dei film di Sono, una volta evasi dalla prigione famigliare, vengono attratti da organizzazioni religiose o settarie. Come mette in luce Matteo Boscarol, in un’attenta analisi delle rappresentazioni religiose all’interno della filmografia del regista, “la macchina religiosa/settaria è, nei film di Sono, quasi sempre il simbolo di un apparato di cattura, di un ingranaggio che ingloba, di una rete che, pur promettendo un’indeterminata quanto confusa liberazione, finisce per ingabbiare o suicidare il singolo”[4]. La liberazione è la falsa promessa di questi organismi che sono in grado di attribuire ai personaggi un’identità completamente nuova, proponendosi come l’unica possibile alternativa al nulla. Si tratta di gruppi che aspirano a essere comunità operose, che aspirano alla realizzazione di una essenza intrinseca dell’uomo. Essenza che purtroppo però è irrealizzabile.

Se non si può uscire da questa catena infinita di giochi linguistici, quello che ci resta allora è giocare. Creare narrazioni, rivestire ruoli. Che cos’è dunque Love Exposure (Ai no Mukidashi, 2008) se non un lungo gioco (ben 4 ore) in cui i protagonisti attraversando vari generi cinematografici, abbracciano nuove identità a seconda del contesto? E che cos’è Io sono Sono Sion (Ore ha Sono Sion Da, 1985), se non l’esperimento di un ragazzo che gioca ad essere un film.

Un regista importante, su cui ci sarebbe molto, moltissimo altro da dire. Il signore del Caos. Sono Sion è una delle primissime monografie dedicate al cineasta (tant’è che è stata subito pubblicata una traduzione in lingua giapponese), ed in quanto tale funge da apripista, tracciando delle linee guida per un’analisi del discorso Sono Sion. Un discorso molto vasto e molto complesso. C’è solo da sperare che in futuro altri lavori simili continuino su questa strada.



[1] Tomasi D., Piccolo F. (a cura di), Il signore del Caos. Sono Sion, Caratterimobili, Altamura (Ba) 2013.

[2]   Ivi, p. 30.

[3]   Kojève A., Introduction à la lecture de Hegel ,  Gallimard, Paris 1979.

[4]  Tomasi D., Piccolo F. (2013), p. 44.

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tysm literary review, Vol 6, No. 8,  September 2013

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