philosophy and social criticism

Altissima povertà

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Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Neri Pozza, Milano 2011.

Non fu mai stanco, Francesco. Non possedeva, il Santo, una di quelle anime «in cui la gioia muore a poco a poco», mentre l’entusiasmo rapido si accende e rapidissimo si spegne, tramutando la frenesia nel suo naturale contrappasso, l’accidia e la rassegnazione. Nel 1903, Rainer Maria Rilke chiudeva così la terza parte del suo Libro d’ore, ravvivando l’immagine di un uomo mai solo e mai pago di camminare «lungo prati d’erba, affidando l’anima a ogni stelo, quasi gli fosse fratello». Se vogliamo avvicinarci alle virtù di una vita in comune, scriveva già nelle sue Istituzioni Giovanni Cassiano, monaco del V secolo, dobbiamo «lasciarci guidare da maestri autorevoli» i quali, «anziché vagheggiarla con vane discussioni, l’hanno realmente raggiunta e ne hanno fatto esperienza». Chi, più di San Francesco, è figlio di questa esperienza?  L’esperienza della vita comune, precisava Cassiano con parole che hanno segnato la tradizione monastica e spirituale di Occidente e Oriente (Cassiano è santo sia per la Cattolica sia per la Chiesa ortodossa), è inscritta nel progetto cenobitico da cui la «vita buona» trae nome: koinos bios. La pratica e la regola di questa vita comune, inscritte in una altrettanto «comune, altissima povertà» in ispirito, saranno tra i più alti insegnamenti di Francesco. Insegnamenti radicati non in un monastero – che designa, secondo Cassiano, solo il luogo fisico, l’abitazione anche di un monaco solo -, ma nel mondo, ossia in un cenobio, che è precisamente una premoderna communitas che molto avrebbe da insegnare (exempla), anche nella nostra tarda e languente postmodernità. Cenobio è comunione (in greco koinos), forma di vita  (bios).

Ecco, allora, che in questa vita comune, ci ricorda Giorgio Agamben, non c’è solitudine, ma regola, fatto che Francesco non si stancherà mai di testimoniare, ribadendo che nella dialettica tra «regola e vita» non è in gioco alcuna precettistica, ma un cammino non rassegnato, una sequela di atti e gesti che va dalla vita alle forme e dalle forme alla vita. Non si tratta, dunque, di applicare una norma alla vita, ma di vivere secondo quella norma (vita retta). È la vita che, nel suo “farsi”, “si fa” forma e norma e, lontana da ogni alienazione, giunge a coincidere con quella pienezza dell’esperienza che la rende semplicemente se stessa.

Quattro anni dopo aver pubblicato il suo Stundenbuch, in una lettera  indirizzata alla moglie Clara, allieva di Auguste Rodin, Rilke ritrovava lo spirito di Francesco in un predicatore di nome Vincent Van Gogh, un visionario capace di «raccontare alla gente il Vangelo». Alla gente, ossia a donne e uomini che, come gli steli del Libro d’ore, «non chiedono né latino, né greco al loro predicatore». Predicando, Van Gogh imparò da quegli uomini il silenzio, la fatica, la regola. L’esempio della loro vita comune gli regalò il segno capace di attestare che la «povertà sa tramutarsi in ricchezza, se una luce la rischiara da dentro», anche nei giorni e nei luoghi più bui.

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ISSN:2037-0857