Andare, camminare, lavorare
di Francesco Paolella
Nota su: Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo (a cura di), Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Roma-Bari, 2013.
Una volta era al contempo più facile e più difficile scrivere del lavoro e dei luoghi di lavoro.
Oggi le fabbriche, le officine, i laboratori, gli studi, insomma i luoghi deputati al lavoro produttivo e (quasi mai) creativo, comunque tecnologico, sembrano ridotti a depositi di polvere, castelli per pochi fantasmi.
Una forma, definitiva, di alienazione operaia.
Le periferie industriali delle città fanno pensare al vuoto, al passato che non può tornare. I capannoni, già devastati e cadenti, si svuotano di cose e di uomini, sono condannati a rimanere in vendita e diventano al massimo dei rifugi.
Una volta erano le strade dei paesi e delle città a essere vuote durante i giorni feriali: vi si trovavano solo vecchi, ragazzi, pochi disoccupati.
Ora invece interi quartieri industriali si stanno desertificando, e non si può immaginarne una vita diversa.
Che effetto fa allora leggere proprio oggi le testimonianze di narratori e poeti sull’Italia che camminava e lavorava. Questa antologia parla di fatica, sfruttamento, conflitti, immaginazione, migrazioni, grandi mutamenti rapidi – cose che oggi non sono più visibili.
Al di là delle cifre sul reddito pro-capite e sui tassi di occupazione, sembra veramente di essere ormai scivolati nel dopo la fine del mondo. Sembra di vivere, soprattutto, la desolazione degli orfani. Simao orfani del lavoro, di una idea “pesante” di lavoro.
Sicuramente la letteratura, la cultura, le ultime generazioni di “intellettuali” hanno abbandonato per lungo tempo, e colpevolmente, l’industria, la realtà del lavoro. Alla tradizionale, “naturale”, diffidenza degli “umanisti” verso la tecnologia, si è poi aggiunto un nuovo (ma ormai antico) disimpegno. Le imprese non hanno più bisogno di scrittori, non fanno più uscire riviste e idee. Con la fine del sedicente “miracolo italiano”, gli imprenditori, quelli rimasti, non hanno più avuto cura del proprio ruolo nella società, della propria stessa identità. Il “fare soldi, per fare soldi, per fare soldi” – un tempo motore di quel nostro miracolo – ha finito per mangiarsi tutto, per neutralizzare il lavoro.
Da ultimo, la “Grande crisi” che segna i nostri tempi ha dato un’ulteriore spallata all’idea di lavoro, attività sempre più ambita e al contempo sempre più svalutata.
Basta pensare a questo ribaltamento: in quaranta anni siamo passati dal Vogliamo tutto (1971) degli operai-massa di Nanni Balestrini al più triste “vogliamo continuare a lavorare”, oppure all’altra versione “avremmo voluto lavorare”, di oggi.
Una volta gli scrittori e i poeti visitavano le fabbriche (notevoli quelle qui riprodotte di Caproni e di Gadda) e ne descrivevano la potenza e la monumentalità, come se fossero cattedrali o musei. In seguito, tanti intellettuali hanno insistito troppo nell’illusione secondo cui il tempo delle vechcie fabbriche enormi, rumorose e puzzolenti fosse ormai alle spalle; e secondo cui potessimo vivere di conoscenze, immaginazione e servizi: una economia soft, immateriale, flessibile, e finalmente più umana.
A leggere oggi Ottieri e Volponi, ci si accorge anche che siamo forse defitivamente oltre una contraddizione, quella fra la fabbrica-inferno e la fabbrica-paradiso. Nno possiamo più restare in bilico fra questi due poli. Da una parte, il “paradigma infernale”, di sicuro dominante in tanta letteratura più o meno apertamente ideologica: le officine, le catene, i laboratori (ma anche per altri versi gli uffici) come luoghi di pena, di morte, di tristezza. Sporcizia, sudore, nevrosi, fumo, fretta. Ci è rimasto il topos della vita operaia appunto come vita difficile, ingrata, alienata. La fabbrica come l’ergastolo.
Dall’altra parte, la fabbrica come luogo di possibile emancipazione, di liberazione anche, di riscatto. Soggetti deboli, marginali (pensiamo solamente al Donnarumma all’assalto di Ottieri) che avrebbero potuto fare qualcosa, diventare qualcosa, se non qualcuno. Da cui l’orgoglio di saper fare qualcosa (La chiave a stella di Primo Levi rimane esemplare in questo senso). Era la convivenza paradossale nel cuore di chi lavorava, come scriveva Fortini:
E così conosciamo
che cos’è male e bene
l’ombra e la luce e tutti
i contrari viventi
al suono dei roventi
martelli d’officina
tra polvere e disordine
noi cuori in agonia
e in profonda allegria.
Bene, oggi questa antitesi non sembra più possibile. Né orgoglio, né conflitto; né rivendicazione, né identità. Lavorare è una attività muta, acritica, puramente strumentale. E forse non è un caso che il sindacato, a sua volta, abbia smarrito il proprio ruolo, la propria voce: non sa più cosa dire e in nome di chi.
L’intellettuale arruolato nell’industria, per la sua propaganda, una volta visto come strana figura di “chierico”, oggi non serve più. E comunque non è più una figura problematica. Manca la crisi di coscienza che troviamo ne La vita agra. Ci saranno domande come questa: fino a che punto compromettersi? Fino a che punto è possibile ingannarmi e ingannare?
Siamo condannati a essere persuasori occulti?
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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013
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