Autobiografia di un corpo. Dialogo con Daniel Pennac
di Marco Dotti
«Il corpo parla, ma che cosa dice?». È questa la domanda che si pone, in un periodo tragico della propria vita, il protagonista dell’ ultimo romanzo, scritto in forma di di diario, di Daniel Pennac, Storia di un corpo (traduzione Yasmina Melaouah, Feltrinelli, Milano 2012).
Giriamo all’autore la domanda: che cosa dice non solo al protagonista del libro, ma anche all’autore e, infine, a noi, questo grande escluso che è il corpo?
Daniel Pennac: Il corpo è una presenza immediata è soggetto e al tempo stesso oggetto. Il corpo ci costituisce, è da sempre con noi, ma spesso ce ne dimentichiamo. Ci sono però delle aperture improvvise che ci mostrano quanto è da sempre evidente: siamo un corpo. Il diario è allora la forma semplice di una meticolosa, precisa annotazione delle sorprese che il corpo fa al narratore e di conseguenza a noi tutti. Il nostro corpo si esprime sempre attraverso la sorpresa a cui sottopone il “proprietario”. Dobbiamo accogliere queste sorprese, essere capaci di farle nostre, senza farci troppo sconvolgere. Perché le sorprese del corpo, del nostro corpo possono essere molto dure, ma anche molto felici. Il corpo ci domina dall’inizio alla fine, anche se ci illudiamo di dominarlo. Per questo, era già Spinoza a affermarlo, noi diciamo “ho” un corpo quando in realtà dovremmo dire “sono” un corpo.
Crede davvero che il corpo ci possa sorprendere? In fondo, non viviamo un’epoca di estrema mercificazione e spettacolarizzazione del corpo?
Daniel Pennac: Direi che il corpo ci sorprende in un doppio senso. Sorprende, perché nel suo contemporaneo il corpo quasi viene a coincidere con la sua esposizione. Il corpo è esposto a tutti i livelli, dall’immagine medica al cinema pornografico, dalla rivista di moda alla pubblicità, dalla body art fino alle radiografie a cui esponiamo i corpi delle madri. Mai il corpo si è trovato più esposto di oggi. Eppure… Eppure, come ho nel mio piccolo constatato dalle reazioni entusiastiche o sdegnate alla lettura del mio libro, il rapporto personale che ciascuno intrattiene col proprio corpo rimane un tabù. Il corpo si può esporre, ma rimane difficile parlare del corpo. Da un lato viviamo nell’oscenità “pubblica” permanente e esponenziale del corpo, dall’altra c’è una chiusura quando si tratta di raccontare o di parlare degli aspetti più naturali e intimi del nostro rapporto con questo corpo. La malattia, il dolore, l’amore, la vita, vengono espulsi da noi per sovraesposizione, quasi volessimo esorcizzarli. Ebbene, nonostante questo esorcismo, nonostante le infinite esposizioni a cui è soggetto, il corpo continua a farci delle sorprese, dall’inizio alla fine. Il corpo è sorprendente proprio per questa sua capacità di sorprenderci e coglierci in fragrante, sia nel male, sia nel bene.. Anche quando crediamo di conoscere tutto del nostro corpo, il nostro corpo riesce a sottrarsi a ogni aspettativa, apparendo per quello che è: solo, semplicemente un corpo. Il nostro corpo. Trovo straordinaria questa capacità di resistenza del corpo, questa sua innata vocazione che ci richiama alla presenza, alla materia, alla carne delle cose e, infine, al loro spirito.
Potremmo dire che in questa selva di immagini fantasmatiche del corpo – un corpo medico, un corpo scientifico, un corpo fatto di paure – talvolta a sorprenderci è l’incontro reale, concreto con il nostro corpo, specialmente nei momenti della sua caduta. Lei quando si è “incontrato” per la prima volta?
Daniel Pennac: Non glielo saprei dire, è una cosa che succede. Capita infatti che noi ci incontriamo per caso. Ad esempio quando passiamo per strada e, davanti a una vetrina, scorgiamo la nostra immagine riflessa. “Chi è?” ci chiediamo. E subito dobbiamo constatare, magari con un po’ di sgomento, “sono io”. Non c’è però una prima volta dell’incontro, c’è piuttosto una moltitudine di prime volte che nelle loro vicende elementari si possono declinare nelle forme della malattia o nell’amore. Malattia e amore richiedono cura di sé e dell’altro. Ci incontriamo, tutte le volte che incontriamo realmente l’altro. E questo accade ogni qualvolta in nostro corpo ci fa delle sorprese. Nella malattia abbiamo un incontro particolare con noi stessi. Succede anche al protagonista del Diario: il suo corpo gli diviene estraneo per il tempo necessario affinché familiarizzi con quell’altro da sé che è la malattia. Nell’amore, invece, ci incontriamo nello sguardo dell’altro entriamo nella sua narrazione. Lo specchio è lo sguardo di un altro, è un incontro.
Oggi, però, le biotecnologie e la chirurgia estetica, tanto per fare degli esempi, dilatano o alterano o addirittura pervertono la sorpresa che il corpo ci può fare. Non solo vorremmo monitorare il nostro corpo minuto dopo minuto, ma addirittura programmarlo o ringiovanirlo a piacimento…
Daniel Pennac: Va detto che in una società come la nostra, non ci sono frontiere al consumo, quindi non ci sono limiti alla modifica del corpo. Rimango sempre sconvolto quando vedo una donna o un uomo cedere all’ansia del “rifarsi” il corpo, abbandonandolo nelle mani del chirurgo plastico. Se guardiamo i giornali, se accendiamo una televisione, se ci fermiamo per strada, ovunque ci si trovi si nota la pervasività di una sorta di tipo umano mondiale. Stesse labbra, stessi zigomi, stesso contorno occhi, stessa pelle tirata. Eppure – ed è questo un paradosso su cui dovremmo soffermarci – questa indifferenziazione nasce dalla volontà di distinguersi. Il corpo viene trasformato in una tabula rasa dalla quale si illude di raschiare via i segni del tempo. Strana illusione moderna. Perché se il tempo passa, non potremmo sempre comunque bambini? Ma per sentirci bambini – e questo appartiene al genuino sapere del corpo – dobbiamo conservare la curiosità per il mondo che nessuna chirurgia plastica riuscirà mai a ricucire, una volta scacciata da noi.
Il protagonista della Storia di un corpo annota le proprie vicende dall’adolescenza alla morte, dall’umiliazione infantile all’accettazione della propria vicenda mortale, ma senza malizia, senza rancore, senza ostentazione….
Daniel Pennac: Il diario può effettivamente essere un modo per esorcizzare le proprie paure, preservandole dalla spettacolarizzazione. Quando il protagonista del libro prende la decisione di scrive il suo diario, si trova in una situazione critica. Ha dodici anni, fa parte degli scout e, per un incidente, rimane legato a un albero nella foresta. Ha paura, molta paura, letteralmente se la fa addosso. È a partire da questa paura e dalla che ha un risvolto fisico preciso che prende la decisione di scrivere un diario. Quando insegnavo a scuola, ho visto spesso i miei studenti preda di questa paura. Quando devono rispondere a una domanda rimangono muti. Muti per il timore di deludere e di deludersi, passando per imbecilli. Alla fine, questa paura li porta in taluni casi a diventare violenti. Ma è una paura che anche io ho provato da bambino. Ho cercato di guarirmi da questa paura, perché solo così potevo insegnare loro come uscire dalla loro situazione. La paura è primariamente ciò che orienta i nostri comportamenti. Dinanzi alla paura occorre una postura etica, quella postura che chiamiamo coraggio.
Il protagonista si confronta con la malattia, con la sofferenza e con la morte eppure non perde mai la sua postura. Come se la scrittura lo aiutasse in questo…
Daniel Pennac: La scrittura lo mette in comunicazione con tutto ciò che la paura vorrebbe nascondere. La scrittura è il suo coraggio. Non è la malattia infatti a spaventarci, ma la paura della malattia. Non è la morte, ma la paura della morte che convertiamo in ossessione ipertecnica dell’immortalità. Non è la vecchiaia, questo ritorno all’infanzia, a spaventarci, ma lo sgomento di ritrovarci, di colpo, senza un orizzonte che credevamo infinito. Il corpo ci rivela che il falso orizzonte della società dei consumi può darci solo una falsa illusione di immortalità. Al botulino e al silicone, dovremmo contrapporre le ossa. Le ossa hanno un che di vitale, contrariamente a quanto ci vorrebbero far credere. All’età di 86 anni, 9 mesi e 23 giorni, il protagonista del mio libro annota che è un paradosso pensare che lo scheletro sia il simbolo della morte, quando invece le nostre ossa sono all’origine della vita. In una pagina del suo diario scrive «il cervello che cogita, il cuore che pompa, i polmoni che ventilano, lo stomaco che scioglie, il fegato e i reni che filtrano, i testicoli che progettano passano per semplici accessori a paragone delle nostre ossa. La vita vera e propria, il sangue, i globuli, il vivente, scaturisce dal midollo delle ossa!». È proprio così: la vita ha uno scheletro forte, duraturo. Da lì dobbiamo ricominciare.