Biopolitiche e antropologia della crisi
Aldo Bonomi
Per cercare di rappresentare quelli che a mio parere sono gli effetti più radicali, e in prospettiva più duraturi, della crisi economica generata dal complesso mondo delle intermediazioni finanziarie globali, occorre guardare non tanto e non solo alla punta della piramide degli indici di borsa o dei grandi riassetti societari e manageriali ma piuttosto alla dimensione del bios delle persone. Non paia anomalo, da questo punto di vista, ricorrere alle categorie di un filosofo per ragionare su fenomeni concreti come gli effetti sulle persone del diffuso peggioramento delle performance del sistema economica.
Credo infatti che gli scritti di Michel Foucault sulla biopolitica offrano un’efficace chiave di lettura dei processi in corso. Con il termine di biopolitica il filosofo francese di Sorvegliare e punire alludeva alle modalità attraverso le quali il potere si insinua con processi microfisici non solo nei rapporti sociali ma anche nel bios. I corpi e le menti dei soggetti portano su di sé i segni della disciplina prodotta dai codici del potere politico, economico e sociale. Ovviamente Foucault, morto nel 1984, ha sviluppato la sua riflessione sulla normazione del bios all’epoca dei grandi luoghi concentrazionari del carcere, del manicomio, della grande fabbrica fordista, il tutto dentro il codice dello stato nazionale novecentesco. Il fordismo, da questo punto di vista, non è stata solo macchina produttiva (taylorismo), ma anche macchina di disciplina del consumo di massa, mentre lo Stato nazionale produceva quei beni collettivi, tipicamente lo Stato sociale, atti a produrre inclusione sociale, disciplinando i cittadini allo scambio tra libertà e uguaglianza. Dall’altra il mercato diventava strumento di regolazione dello sviluppo tra produzione di massa e consumo di massa, in cui la cosiddetta cultura del risparmio costituiva quel dispositivo fondamentale di alimentazione del ciclo economico. Un meccanismo di socializzazione alla simbologia del denaro che si inscriveva in quel processo richiamato già da Simmel ne La filosofia del denaro come “calcolo astratto che invade l’area dell’interazione sociale” e che Braudel ne la dinamica del capitalismo descriveva come vera essenza del capitalismo, distinguendolo in ciò dall’economia di mercato in senso stretto. Nella fase fordista, e tipicamente nel contesto nostrano, il risparmio diventa un comportamento sociale (quasi un imperativo morale nell’Italia del dopoguerra) fortemente approvato dal codice del sistema disciplinatorio che incentiva le persone a “dilazionare nel futuro” la soddisfazione del desiderio di consumo, cercando contestualmente di condizionare la scelta della tipologia di consumi, preferibilmente durevoli, di cui la casa e l’automobile diventano simboli tipici. Non ha caso lo Stato sostiene direttamente o indirettamente proprio queste due settori produttivi.
A partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, ma se vogliamo a partire dalla crisi petrolifera del 1973, le cose mutano in modo radicale decretando l’inizio della fine del ciclo di accumulazione fordista e il lento tramonto della sua egemonia culturale. Rispetto all’impianto interpretativo foucaultiano siamo di fronte ad un salto del codice disciplinare di sistema. In estrema sintesi i processi di liberalizzazione, di crisi del welfare state e progressiva globalizzazione rompono l’apparato biopolitico concentrazionario assumendo una logica di controllo apparentemente più “leggera”, ma radicalmente più efficace. L’apparato produttivo si ristruttura in reti flessibili di imprese o, ancor più emblematicamente, in isole produttive “autoriflessive”, secondo il metodo disciplinatorio nipponico Kaizen (letteralmente “cambiamento in meglio”) sperimentato inizialmente alla Toyota. Che si tratti di produzione flessibile o toyotismo la scommessa è quella di svuotare i caratteri di alienazione del lavoro, cui aveva portato l’organizzazione fordista, e riunificare produttore e prodotto stimolando la massima partecipazione possibile alla determinazione delle regole vigenti all’interno e all’esterno delle mura, in funzione di fini produttivi condivisi.
Comincia da qui, con il passaggio dal primato della catena del valore a quello della ragnatela del valore, quell’attenzione alle “latenze” cui già faceva riferimento Veblen nella sua sociologia dei consumi quando intravedeva la propensione delle merci ad incorporare simboli di status che agiscono in profondità sulla psicologia umana. E’ infatti sul fronte dei consumi che si realizza nel fine secolo una rivoluzione silenziosa dagli effetti antropologici forse ancor più profondi di quella legata al ciclo produttivo postfordista. La centralità paradigmatica assunta dall’utente-cliente si traduce in un nuovo codice biopolitico che punta a fare della persona un soggetto incessantemente desiderante in un contesto socialmente destrutturato, che scambia libertà e opportunità con rischio, insicurezza e spaesamento.
Da questo processo ipermoderno scaturiscono le due varianti antropologiche: nuda vita e vita nuda, cioè appunto quella dimensione antropologica in cui i processi produttivi e sociali mettono al lavoro il bios, nelle sue componenti intellettive, affettive e fisiche. Da una parte (nuda vita) l’esistenza intellettuale dell’uomo è sussunta dentro i processi produttivi come dimensione performativa della conoscenza. Dall’altra la vita è nuda quando si trova in balìa di un potere che appare pervasivo e anonimo rispetto al quale non ha più capacità di resistenza, ma solo capacità di sopravvivenza individuale. La prima viene esaltata nel ciclo della net economy quando il nuovo paradigma tecnologico dell’informazione pone al centro del processo di accumulazione la persona con le capacità autoriflessive che coinvolgono la sua identità, la sua esplorazione creativa del mondo, la sua capacità di modificare simboli in con un contesto sempre più orientato alla comunicazione totale di significati, oggetti e identità, in cui il corpo diventa una macchina per comunicare. Il tutto in un contesto di crescente simultaneità sistemica, in cui le persone, per dirla con Castells, “funzionano come unità di tempo reale su scala planteria”. La seconda assume il codice biopolitico dell’esclusione e della necessità di sopravvivenza che spingono il bios, come macchina della sopravvivenza, ad infrangere le regole di convivenza della società opulenta, dove si percepisce sempre più la distanza in ragione della prossimità. Ed è, mi pare, dentro queste due condizioni antropologiche che è da inquadrare il dispiegarsi del ciclo di finanziarizzazione della vita quotidiana che ha portato alla crisi attuale.
L’essenza della crisi è il fallimento dell’illusione che fosse possibile creare inclusione individualistica per tutti, dando ad ognuno l’opportunità di diventare individuo proprietario, magari anche ai cosiddetti ninja della vita nuda, attirati dalle suburbia americane a sottoscrivere mutui subprime. Questo fine, scaturito nei circuiti della nuda vita al lavoro, ovvero da qualche esponente sopraffino del general intellect globale che pensava di avere scoperto la pietra filosofale dell’era moderna in un algoritmo finanziario (quello dei derivati), si è trasformato attraverso la potenza connettiva della nostra epoca in una bolla spaventosa, molto più esplosiva di quella che aveva accompagnato la nascita della net economy. La grande abbondanza di liquidità circolante, al di là di non poche situazioni di evidente malafede, ha permesso di mettere a disposizione strumenti e prodotti finanziari destinati a sostenere la macchina desiderante degli individui con l’erogazione di mutui insostenibili e credito al consumo esasperato. Oggi, che ci accingiamo a fare i conti con gli effetti di questa economia del desiderio senza limite, condita dall’illusione di inclusione sociale per tutti a mezzo esclusivo del mercato, ecco la tentazione biopolitica di ritornare alla geometrica disciplina euclidea dello Stato-nazione, dell’economia “reale”, del primato dei regolatori e dei banchieri centrali, l’esaltazione degli standard etici e la persecuzione dei capri espiatori di turno. Potrà sembrare strano che un “territorialista” come me inviti alla prudenza di giudizio, ma mi pare, in questi primi mesi di crisi, vadano consolidandosi almeno tre visioni accomunate da tendenze in diversa misura regressive: la retorica della decrescita, quella del rinserramento negli spazi nazionali, quella di un rinnovato declinismo italico. Naturalmente tali visioni contengono elementi pregnanti di critica al modello anglosassone di primazia di una finanza che appare totalmente al di fuori del controllo democratico, tuttavia credo che non si debba dimenticare un elemento che attiene proprio alla dimensione biopolitica. I cicli ravvicinati della net economy, della finanziarizzazione della vita quotidiana e anche la prossima Big thing della green economy sulla quale, credo, ripartirà il ciclo economico, si muovono su una concezione biopolitica autoriflessiva capace di apprendere dagli errori anche sul piano dei costi sociali , pur che non siano derubricati a semplici effetti collaterali, e dei limiti di sistema.
Dal mio punto di vista credo quindi sarebbe opportuno, e non uso a caso questo termine, guardare avanti, cercando di cogliere fino in fondo le ambivalenze della crisi. Da una parte, infatti, vi sono vari segnali (crisi dell’auto, crisi energetica, elezione di Obama, etc.) che inducono a ritenere ragionevole prevedere che la “next Big thing” sulla quale si sta puntando per rilanciare una nuova fase di accumulazione capitalistica sarà la green economy . Si tratta di una forma del capitalismo che tenterà di superare, incorporandola, la dialettica tra crescita e decrescita, tra limite e sviluppo. Tuttavia oggi non abbiamo ancora imboccato una strada precisa: siamo tentati dalla regressione e dal declinismo, siamo affascinati dalle teorie della decrescita che presuppongono che dopo questa crisi “nulla sarà come prima”, guardiamo con prudente fiducia all’ipotesi della green economy, purché questa non sia dominata da logiche di puro individualismo proprietario ma sappia dare il giusto peso al valore di legame, sappia cioè immaginare la comunità che viene.
La crisi è infatti anche un’opportunità per ragionare sul futuro. Da parte mia credo che la globalizzazione sia un destino che non dobbiamo (e non possiamo) disconoscere e che paura e rinserramento non possono fare altro che preludere ad una biopolitica regressiva di cui non dobbiamo avere nostalgia.