L’inferno della memoria. Prima nota su António Lobo Antunes
di Marco Dotti
In più di un romanzo e di un’intervista, lo psichiatra e scrittore lusitano António Lobo Antunes ha raccontato i «traumi» derivanti(gli) da una memoria troppo piena. Una memoria da elefante, come recita il titolo del suo primo racconto, Memória de Elefante appunto, edito nel ’79. Ma è nei successivi Os Cus de Judas,[1] O esplendor de Portugal[2] e Boa tarde as coisas aqui en baixo,[3] giusto per limitarci a titoli tradotti in Italia, che António Lobo Antunes ributta con durezza in gioco la complessa e mostruosa messa in scena della memoria. Messa in scena che presiede ai suoi meccanismi narrativi e ai loro tempi sfasati.
«Mio padre mi costringeva a imparere Virgilio e Dante a memoria, così sviluppai una memoria prodigiosa, ma le cose non se ne andavano, restavano lì, saturavano tutto. La mia tragedia è che ricordo tutto. Tutto», così si confessava lo scrittore.
«Memoria da elefante» era, precisamente, il nomignolo con cui lo chiamava sua madre, stupita per la sua prodigiosa elasticità mnemonica. Una madre, però, al centro dei frequenti incubi descritti nello Splendore del Portogallo, incubi che si mischiano alla doppia esperienza angolana – come figlio di coloni, come volontario dell’esercito in seguito – e alla sovrapposizione o il contrappunto con i pensieri di sua madre. Ogni frammento, nella casa di risonanza intasatissima della sua memoria, cozza contro altri elementi. Serve a poco il tentativo dello scrittore di allargare il campo del ricordo a quello «comune», «collettivo», «civile» di un’intera generazione, prima (In culo al mondo), e di un’intera nazione, poi (Lo splendore del Portogallo, titolo ripreso dai primi versi dell’inno nazionale).
Spesso è la madre a parlare, dando il via al moto perpetuo di parole che rimbombano come un’eco continua nella memoria dello scrittore: «C’è qualcosa di terribile in me. A volte, di notte, il mormorio del girasole mi sveglia e sento il ventre aumentare nel buio della stanza per ciò che non è un figlio, non è un gonfiore, non è un tumore, non è una malattia, è una specie di urlo che uscirà non dalla bocca ma da tutto il corpo e si diffonderà nei campi come l’ululato dei cani, e allora trattengo il respiro, mi afferro con forza alla testiera del letto e i mille steli del silenzio fluttuano lentamente negli specchi, aspettando il chiarore spaventoso del mattino. In quei momenti penso di essere morta, circondata da capanne e cotone, mia madre è morta, mio marito è morto, i loro posti sono spariti da tavola e adesso vivo in un luogo fatto di stanze e stanze vuote dove al crepuscolo accendo le lampade per ingannare l’assenza. Quand’ero piccola, prima che tornassimo in Angola, assistetti al linciaggio del matto del villaggio a Nisa. I ragazzini ne avevano paura, i cani si allontanavano fuggendo se per caso passava, rubava mandarini, uova, farina, si piazzava sull’altare maggiore insultando la Vergine, un giorno apri la pancia di un vitello dal collo ai genitali, l’animale entrò nello spiazzo inciampando nelle budella, i contadini del podere acchiapparono il matto». Il racconto, improvvisamente, è spezzato dal ricordo dello scrittore, allora bambino, sottoposto alla sua prima visita psichiatrica «io lí dopo la visita mentre Rui si vestiva con l’aiuto dell’infermiera. – Cos’ha il bambino dottore? – Un problema ereditario al cervello cara signora correnti elettriche disordinate il suo comportamento si può modificare». Infine riprende: «a spintoni lo portarono nell’aia, cominciarono a picchiarlo con le zappe e i bastoni e lui non si difendeva né protestava, un vagabondo che sorrideva accentuando il sorriso a ogni colpo, mi icodo di un ulivo gobbuto, del sole, uomini che alzavano i rastrelli, il matto, sempre sorridendo, estrasse il pettine per ravvivarsi i capelli…».[4]
Se l’inferno consiste nel non dimenticare nulla e nel non dimenticarlo mai, allora nei propri lavori António Lobo Antunes ha fornito una delle più allucinanti descrizioni di questo luogo di damnatio memoriae rovesciata. Non si tratta di porsi alla ricerca o all’ascolto del tempo perduto, perché il tempo perduto è da sempre là, presente e conficcato nella testa, come un chiodo che devasta il futuro e sovraeccita l’organismo. «Così difficile spiegarsi», si legge in un inciso di Buonasera alle cose di quaggiù «chi mi aiuta a raccontare»?
António Lobo Antunes ha più volte dichiarato di considerare la scrittura una malattia e la lettura come una forma, non si sa quanto grave, ma per certo necessaria di contagio. Con la memoria sempre ferma e inchiodata ai ferri chirurgici e agli arti spezzati dei militari in Angola – vero trauma del Portogallo, non solo individuale dello scrittore – le parole appaiono superflue. Superflue ma inevitabili, come un’emoraggia che refluisca direttamente dal sistema limbico bucato. «Sprovviste del senso che mi ero abituato a dare loro, prive di peso, di significato, di colore, man mano che lavoravo sul moncherino martoriato di un arto o reintroducevo in una pancia gli intestini fuoriusciti, mai le proteste mi sono sembrate così vane, mai gli esili giacobini di Parigi mi sono parsi così stupidi».[5]
L’Angola è dunque per António Lobo Antunes una sorta di estensione in metastasi della sua memoria lancinante, un arto in cancrena da cui escono brandelli di ricordi cpme da un cranio bucato uscirebbe liquido cerebrale, senza sosta alcuna. «Quando arrivai in Africa e vidi la terra d’Angola non rossa come mi avevano detto ma gialla … capii che ero solo», scrive in Buonasera alle cose di quaggiù. Le immagini della guerra si accavallano ai ricatti della solitudine, e le visioni dell’Africa (l’Africa ch, persino nell’immaginario turistico, «non si dimentica») si accompagnano al suo «suono da ultima porta», oltre la quale si spalanca «il nulla». «L’odore così forte dell’Angola», l’Africa «in ogni sua parte uguale», gli steli di girasole e l’assordante rumore dei campi di cotone che di notte gridano la propria rabbia – come si legge in un passaggio in cui l’autore riscrive uno degli inserti lirici più riusciti dello Splendore del Portogallo – l’«odore di manioca» o «le ferite delle piantagioni che da secoli, dall’inizio della guerra, si lamentavano senza posa», delineano anche lo spazio di una mancanza, la città da cui tutti partono, ma a cui nessuno dei tre farà ritorno: Lisbona.
Città lontana, popolata da una borghesia rabbiosa e feroce sempre pronta a costruirsi colonie interiori, vista da «quaggiù» – l’inferno in terra a cui allude il titolo del libro – appare ancor più inebetita dalla solitudine di quanto non lo fosse durante l’ostentata «età dell’oro» del Portogallo «occidentale e cattolico», e anche per questo orgogliosamente razzista, di Salazar. Nel 1961, in seguito ai primi moti di rivolta in Mozambico e soprattutto Angola, dove alle aggressioni ai coloni si unirono continui e violenti assalti alle prigioni di Luanda, il dittatore dell’Estado Novo aveva risposto inviando truppe di militari di leva allo sbaraglio. António Lobo Antunes era fra quei soldati e, fra il 1970 e il 1973, prese parte come tenente medico all’ultima fase della guerra coloniale. Ai suoi occhi, ora, anche l’Angola sembra qualcosa «che non c’è» mai stata, ma ha pur sempre la consistenza «e l’orrore di un sogno, di un vecchio panico che ritornava». «Non c’era quasi Luanda, non c’era l’Angola, non c’era l’Africa». Tutto è un incubo senza fine immerso nell’ambiguo «calderone di ricordi sulla cui superficie fermentano bollicine di volti, episodi sbiaditi» che appaiono «nella mente, non nella mente, proprio qui davanti» in un continuo dilatarsi e sdrucirsi dei bordi della realtà che lo scrittore è costretto a «rammendare con parole».
«Bonsoir les choses d’ici bas», buonasere alla cose di quaggiù:[6] pare sia stato questo il congedo dal mondo di Valéry Larbaud, vissuto per più di venti anni in completa afasia. A Lobo Antunes, che ne ha tratto il titolo del suo lavoro, non debbono essere certo sfuggite altre parole del poeta francese: «Al fondo di me, al centro di me, qualcosa di infinitamente arido, qualcosa che somiglia al punto morto della retina, privo di eco, ma che vede e sente». È proprio attorno a questo punto cieco che in António Lobo Antunes l’ossessione per una memoria troppo piena, per la «memoria da elefante», diventa scrittura e la scrittura contagio. A dispetto dell’infinita aridità degli sguardi. A dispetto dell’infinita aridità dei ricordi
[da il manifesto, 28 marzo 2007]
[1] In culo al mondo, traduzione di Maria Jose de Lancastre, con la collaborazione di Antonio Tabucchi, Einaudi, Torino 2000.
[2] Lo splendore del Portogallo , traduzione di Rita Desti, Einaudi, Torino 2002.
[3] Buonasera alle cose di quaggiù , traduzione di Vittoria Martinetto, Feltrinelli,Milano 2007.
[4] Lo splendore del Portogallo ,cit., pp. 19-20.
[5] In culo al mondo , p. 44.
[6] Per Michel Tournier, la frase di Larbaud suona: «Buongiono alle cose della vita» (cfr. M.Tournier, Diario aperto, traduzione di Tommaso Gurrieri, Barbès, Firenze 2008, p. 68).
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tysm literary review, Vol 2, No. 4 – april 2013
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