Libro, cerimonia e crisi
Marco Dotti
1. I santi hanno bisogno di un passato, i peccatori di futuro. Solo le figlie di Jörgen Hofmeester, Ibi e Tirza, sembrano fare eccezione a questa regola, almeno nelle fantasticherie del padre. Pur non essendo peccatrici – pensava infatti Hofmeester, protagonista del Maestro di cerimonie [1] dello scrittore di lingua nederlandese Arnon Grunberg – le due ragazze provavano la pressante necessità di assicurarsi a tutti i costi un avvenire. Anche per questo, non appena saputo dalla moglie della sua prima e inattesa paternità Hofmeester si era precipitato da un agente per stipulare un’assicurazione sulla vita. Come se la gioia per la figlia prossima a nascere non potesse esprimersi altrimenti che con una polizza e il futuro collimasse in tutto e per tutto con l’idealizzato privilegio di una vita onesta, affettivamente serena, economicamente tranquilla e garantita a pieno solo dalla trance gelida delle forme.
Hofmeester è un uomo all’apparenza sereno, in realtà segnato da una profonda inquietudine. Un’inquietudine che deriva dai suoi continui eccessi di normalità, da un «senso di responsabilità profondo, che permea ogni cosa», dalla ricerca del benessere anche a discapito della felicità – di questo lo accusa la primogenita Ibi – e da quel delirio lucido che nasce dalla troppa adesione, unico eccesso che si concede, alla monotonia di un vivere scandito soltanto da mezze passioni, da mezze misure, da mezze tensioni e dal denaro come unica panacea in grado di ridurre al loro grado zero le conflittualità interne ed esterne al nucleo famigliare. Quando dopo due decenni di onorata carriera la casa editrice presso la quale presta servizio lo ricompensa con un paio di calzini, lui non può far altro che pensare che quei calzini gli piacciono perché si possono mettere e levare, a intervalli regolari e precisi, come in un rituale. Ma per Hofmeester la vita stessa è un rituale. Tutto, nell’esistenza di questo perfetto rappresentante dell’inebetita classe agiata olandese, segue la scansione di un patetico rito profano: l’educazione, il lavoro, il pensiero per le imposte o l’affitto da riscuotere e le preoccupazioni per le rimostranze degli inquilini; ma anche l’amore e l’odio che nascono dentro la famiglia sono sentimenti declinati secondo un codice molto rigido, marcato unicamente dall’abitudine. Nel cerchio affettivo tracciato dal rituale e dall’abitudine, infatti, Jörgen Hofmeester si muove come un vero maestro, per questo la sua preoccupazione è di tenere ferme le cose, ossessionato che le cose gli sfuggano di mano. Il suo nome, d’altronde, in nederlandese significa proprio «maestro di cerimonie», anche se le cerimonie per lui si riducono al preparare pasti in cucina, all’accompagnare la figlia minorenne a scuola, seguendone lo sviluppo e l’educazione, e tutt’al più a qualche rimpianto per il bel tempo volato via in un lampo.
Ogni sentimento, in questo cerchio, si stinge, le mezzetinte dominano e ricoprono anche quello che, nei tre anni trascorsi da quando la moglie lo ha improvvisamente lasciato, è diventato il suo principale orizzonte di vita: l’attesa. Attenzione: Hofmeester non attende catastrofi, non spera che il mondo prima o poi cessi di ruotare e inverta la rotta seguendo il vento di un desiderio o l’impeto di chissà quale rivoluzione, aspetta semplicemente che la moglie faccia ritorno, che la figlia cresca, si realizzi e abbia successo secondo il rituale prestabilito e tutto vada come deve andare, anche il sushi e il sashimi che prepara con tanta cura affinché siano ben disposti in tavola e se ne servano i ragazzi che Tirza si porta in casa, pur che non facciano troppo rumore. «Sono avventure di una notte», si giustifica la secondogenita, la sua preferita, ma lui non dà troppo peso alle parole e alle cose, vive in uno stato di ipnosi leggera ma costante e non vede peccati, pensa solo al futuro. Segnato dalle sue idee fisse e dalle sue ossessioni, il nostro maestro di cerimonie si accorge che, cerimonia dopo cerimonia, la realtà gli è passata accanto. Ma se ne accorge troppo tardi.
2. Fermiamoci qui e fissiamo l’obiettivo sulla professione di Hofmester, senza badare troppo alla sua psicologia e ai suoi tormenti. Hofmeester è un ex consulente editoriale, specializzato in letteratura del Caucaso. È stato posto in prepensionamento dai suoi superiori per manifesta incapacità di «scoprire nuovi talenti» e “cosruire“ libri di qualche successo. Proprio come professionista (poco «professionale», si direbbe) dell’editoria ci interessiamo alla figura di Hofmeester: anche se Grunberg intaglia e descrive le sue vicende interamente in negativo, quella figura e queste vicende possono rivelarci qualcosa di positivamente interessante sul suo (ma non solo suo) lavoro. In realtà, la definizione di consulente per Hofmeester suonerebbe impropria, se non la decidessimo di ricontestualizzarla nell’ambiente dell’editoria italiana: un ambiente tendenzialmente più piccolo e ristretto, delimitato non solo da un’area linguistica tutto sommato poco estesa fuori dai confini nazionali, ma caratterizzato anche da un basso numero di lettori abituali e da un forte tendenza alla non rigida divisione del lavoro.In Italia è difficile (se non nei grandi gruppi editoriali, la cui struttura aziendale è a se stante), trovare una «figura» simile a quella del personaggio di Grunberg, soprattutto all’interno di un’organizzazione prevalentemente strutturata sulle piccole, medie dimensioni come quella dell’editoria libraria.
Grunberg, nella sua casa editrice, svolge un lavoro che è un misto di talent scout (scoperta di nuovi talenti o di libri da tradurre), agente letterario, consulente e lettore professionale. In ogni caso, la definizione che più sembra attinente al suo caso è quella di editor, un termine entrato di recente nel vocabolario dell’editoria libraria.
Primo punto. abbiamo delimitato – quasi senza accorgercene – il campo della nostradisciplina: il libro. Abbiamo infatti parlato di editoria libraria. Non che ne esista – a stretto rigore di logica – un’altra, ma con il termine editoria si tende oggi a definire una pluralità di settori (e relativi soggetti) che, generalmente, hanno a che vedere più con l’ambito della comunicazione, che con quello del libro e della stampa tradizionalmente intesi. Editore, per una concezione allargata, è anche il proprietario di una televisione, di una radio, di un giornale, di una serie di portali web, purché la sua attività sia comunque caratterizzata, sul piano dinamico, da un elemento di impresa e il contenuto di questa attività sia la trasmissione (tradizionalmente su carta, oggi anche sul web, su onde radio, su frequenze un tempo analogiche, ma sempre più satellitari e digitali) di contenuti. Qui, però, assumiamo il termine nella sua accezione ristretta, intimamente legata al lavoro sui libri, con i libri, nei libri
Secondo punto. Seguiamo Jörgen Hofmeester unicamente nel suo rapporto con i libri. Che cosa sappiamo di lui, relativamente a questo rapporto? Sappiamo ad esempio che, negli anni settanta, «era considerato uno promessa, un editor che si sarebbe fatto strada fino a diventare dirigente. Uno che bisognava prendere in considerazione».[2] Che cosa (gli) è successo? Grunberg ci dice solo che «non si è mosso dal suo ufficio sull’Herengracht, con vista su un albero, concentrato sulla narrativa straniera e qualche volta anche sull’albero, fino a quando non si era svegliato e non era stato costretto ad ammettere che nessuno oramai lo prendeva più in considerazione. Lo faceva solo lui stesso. L’inferno non erano gli altri. Era lui. L’inferno era radicato in lui. Ancorato, nascosto e invisibile, ma ben vivo e caldo. Bollette». Poche pagine e Grunberg ci spiega di quale inferno stia parlando: Hofmeester soffre di capogiri e «il capogiro è il sintomo di un pensiero indesiderato. Pensieri che non sarebbero dovuti esserci, ma che non si lasciano scacciare, questo è l’inferno».
… segue
NOTE
[1] Arnon Grunberg, Il maestro di cerimonie, traduzione di Franco Paris, Feltrinelli, Milano 2009.
[2] Arnon Grunberg, Il maestro di cerimonie, cit., p. 144.