philosophy and social criticism

Critica della “meritocrazia” nel cinema contemporaneo

Salvatore Cingari

Dell’egemonia neo-liberista che da trent’anni si è affermata nel senso comune diffuso dell’occidente[i], la parola “meritocrazia” è una delle più significative chiavi concettuali e lessicali[ii]. Il suo utilizzo è ormai dominante anche nel campo “progressista”, nel quadro della riconversione “neo-liberale” dei soggetti politici “post-socialisti”. Il termine viene declinato assieme a quello di “democrazia”, contribuendo alla “sussunzione” del malessere diffuso nella logica dei processi post-democratici[iii], che possono anche per questo leggersi attraverso la categoria gramsciana della “rivoluzione passiva” o, come scriveva Stuart Hall a proposito del populismo autoritario tatcheriano, di “modernizzazione regressiva”[iv]

Del resto il termine meritocrazia viene sempre utilizzato senza connetterlo a dispositivi politico-giuridici di redistribuzione delle risorse, tali da garantire pari opportunità di partenza. In tal modo esso finisce sempre per giustificare la diseguaglianza, per giustificare, cioé, lo stato di fatto. Ma non solo dal discorso pubblico è ormai rimossa la questione delle pari opportunità: è parimenti cancellato ogni riguardo alla sfera dei bisogni, la cui priorità assiologica sui meriti misura la capacità di un sistema politico di andare oltre la mera liberal-democrazia e caratterizza non a caso alcuni aspetti delle costituzioni democratico-sociali affermatesi nel secondo dopoguerra anche nei paesi capitalisti e ora soggette a sempre meno lenta erosione. Questo processo inizia negli anni Ottanta, come raccontano anche i film Valzer con Bashir[v] e The Wrestler[vi] , con un’accelerazione della spettacolarizzazione della microfisica del potere.

Lo stesso John Rawls – un liberal perciò, sebbene teorico dello stato sociale – sosteneva in Theory of justice che chi ha più talenti deve metterli a servizio della società, senza fondare su di essi l’aspirazione a separarsi economicamente e socialmente dagli altri. Il culto odierno dell’eccellenza richiama invece alcuni aspetti del superomismo primonovecentesco, come del resto il “giovanilismo”, funzionale anche per delegittimare il valore democratico del sistema previdenziale: di questo si erano accorti gli autori del film d’animazione Disney del 2000, Dinosauri, che metteva a confronto la visione di Aladar, che voleva portare i compagni ai territori di cova, senza lasciare indietro i più deboli e gli anziani al loro destino, e Kron e Bruton, che invece abbandonavano chi non teneva il passo, come le anziane dinosaure Erma e Baylene. All’occhio critico del cinema contemporaneo non è infatti sfuggita la centralità di questi temi.

 

1. Competizione

Iniziamo quindi un percorso guidato con il film giapponese Battle Royale[vii]. Si tratta di una terrificante distopia ambientata appunto in uno stato asiatico dell’immediato futuro, in cui i processi di frantumazione competitiva (è di qualche anno prima la crisi delle “tigri asiatiche”) provocano una disgregazione sociale di cui i comportamenti antisociali e anomici dei giovani sono la conseguenza più evidente. Il regime ovviamente non va ad agire sulle radici del male, decretando bensì una legge di estrema valenza securitaria: una volta all’anno viene sorteggiata una classe delle scuole superiori, i cui membri vengono portati con la forza in un’isola e costretti ad ammazzarsi l’uno con l’altro, di modo che solo l’ultimo superstite potrà avere salva la vita. Il vincitore vivrà il suo momento di gloria sui media, che provvedono a spettacolarizzare l’evento.

I ragazzi della classe prescelta vengono così narcotizzati e rapiti, risvegliandosi in un incubo: ognuno, sotto il giogo di un dispositivo che esplode se non vengono rispettate le regole, viene dotato di un’arma, che gli viene assegnata grazie al caso. Essa può essere molto letale (“vincente”) o anche innocua (“perdente”), e ciò per “appianare le differenze naturali”, in una satirica rappresentazione della roulette russa di opportunità ambientali e talenti innati. Una delle scene più godibili del film è quella in cui un sorridente e sexi volto femminile spiega ai ragazzi con modi suadenti, complici e divertiti, in una videocassetta, le regole del gioco sanguinario e la loro quasi certa prospettiva di morte atroce. Il protagonista, Nannahara Shuyo, sceglie di proteggere la persona amata, Nakagawa Noriko e chiunque abbia bisogno del suo aiuto, riuscendo alla fine, con un alleato, Kawada Yhowgo, a ingannare il sistema e a fuggire dall’isola.

Chi dava gli ordini e dirigeva il gioco era un ex insegnante dei ragazzi, delegittimato in aula dal loro comportamento offensivo e in famiglia dall’indifferenza anaffettiva e sprezzante della figlia. La madre di Nannahara se ne era andata alcuni anni prima e il padre,  disoccupato, si era suicidato, introiettando così dentro se stesso la protesta (non merito di vivere, sono un fallito) e lasciando al figlio un messaggio in cui lo incitava a farsi valere nella lotta per la vita: “dacci dentro”, la stessa ingiunzione con cui l’insegnante incita Nannahara a dargli il colpo di grazia in una delle scene finali. In realtà quindi gli adulti – è questo un messaggio del film – ricevono dagli adolescenti lo stesso flusso di violenza e disordine in cui essi stessi li fanno crescere, basato sulla competizione sfrenata che maschera un’animalesca lotta per la vita, venduta dai mezzi di informazione come luminoso carburante esistenziale, di cui la Battle Royale non è che la rappresentazione allucinata. Nannahara, ricercato con la sua compagna per concorso in omicido (con inversione della realtà sancita dalla legge), si pone l’obiettivo di diventare un “bravo adulto”, sviluppando un senso di responsabilità verso l’altro che i suoi genitori non avevano mostrato. I sentimenti di altruismo e fratellanza diventano gli antidoti al male della competizione, come anche la fuoriuscita collettiva dai problemi (bisogna lasciare l’isola “tutti assieme”). Pur preparandosi alla lotta estrema, Nannahara avverte nel finale che le “armi” vanno usate sempre con “titubanza”. L’ “odio” porta infatti conseguenze ed è della stessa natura dei sentimenti necessari ad uccidere gli altri nella gara spietata del mercato capitalistico, che non risparmia più nessuno dopo la fine dell’età dell’innocenza.

Ma se in Battle Royale l’idea di primeggiare viene evocata nel suo livello profondo di struggle for life, in Little miss sunshine[viii] essa è riportata alla realistica rappresentazione di una famiglia americana media nell’epoca di Bush junior e di Donald Rumsfield e degli effetti sul ceto medio della lotta di classe delle élites. La famiglia decide di mettersi in viaggio perché Olive, di sette anni, pur essendo grassottella e acqua e sapone, è stata selezionata per il concorso di bellezza Piccola miss California. La prima scena, significativamente, vede Olive di fronte allo schermo televisivo, avanti e indietro col telecomando, a rivedere le scene di gioia di Miss America alla notizia della proclamazione, in una presa diretta dei moderni processi di soggettivazione. Il padre della bimba, Richard, incoraggiato da un agente, ha investito i risparmi familiari per finanziare un progetto, I nove passi, una sorta di manuale per avere successo pensando positivo.  Richard è il classico soggetto che, pur subendo le conseguenze dell’incipiente crisi, crede ai valori che la sta provocando, puntando sul marketing che “farà alzare le quotazioni” del suo prodotto. Ma come Richard stesso saprà durante il viaggio, il libro non verrà comprato da nessun editore, non perché giudicato scadente, ma perché l’autore è uno sconosciuto: dunque privo di sufficiente capitale umano.

Il fratello della bimba, Dwayne, già adolescente, non parla da mesi volontariamente, perchè ha deciso di resistere finché non raggiunge il suo obiettivo, e cioé accedere all’accademia per pilota di aerei e ciò per dimostrare la propria “forza di volontà”. Considera i suoi familiari dei “falliti”, porta una maglietta con il ritratto di Nietzsche, di cui sta leggendo Così parlò Zarathustra: ma in realtà la sua sembra una sorta di sublimazione spiritualistica degli stessi valori del padre a cui pure si ribella. Nietzsche – dobbiamo ricordare – è uno dei maggiori punti di riferimento della Fine della storia di Francis Fukuyama (1992), una sorta di “classico” dell’egemonia neo-liberista, che lungi dall’esaurirsi nell’idea della “democrazia” come capolinea della storia, come vuole la vulgata dominante, mette in discussione – anche tocquevillianamente – la democrazia stessa come sistema capace di rendere felici gli uomini, a cui, oltre all’isotimia, sarebbe a suo avviso necessaria anche la megalotimia per non far ristagnare le energie vitali.

Ma tornando al film dobbiamo parlare di un altro personaggio: Frank, lo zio dei ragazzi, il fratello della madre, reduce da un tentato suicidio. Docente di letteratura francese, esperto di Proust, era rimasto prostrato per il fatto che il giovane compagno lo avesse lasciato per un collega, altro studioso proustiano, che, in aggiunta, aveva vinto un prestigioso premio che lo faceva considerare il principale studioso dello scrittore francese. A seguito di questi eventi, Frank era stato anche licenziato. Richard non vuole che si parli a tavola dell’omosessualità e del tentato suicidio – espressione massima della negatività e del fallimento – e nemmeno che Frank si soffermi a spiegare l’origine francese del nome di un tipo di gelato – “deviazione” troppo interiorizzante per lo streben competitivo a cui l’uomo vuole che i figli si ispirino -. Anche le scuse non vanno mai presentate, perchè segno di “debolezza”.

Il quadro familiare presenta quindi ben quattro soggetti animati dal sogno del successo e dell’eccellenza. Olive vuol vincere il concorso, Richard vuol pubblicare il libro sul successo, Frank vuol essere considerato il più grande studioso di Proust e Dwayne vuol fare il pilota di aerei ed esser padrone assoluto della propria volontà. Tutti sogni destinati allo scacco, dato che anche Dwayne, durante il viaggio, scopre di essere daltonico e di non poter guidare gli aerei. Il viaggio diventa però una sorta di purificazione, in cui ognuno prende le distanze dal proprio alienante sogno di successo e riscopre i  rapporti affettivi, di cui era stata depositaria da sempre la madre della bimba, Sheryl, fin dall’inizio portatrice di apertura all’altro e autentico senso non narcisistico di libertà. Un sesto personaggio è il nonno di Olive e Dwayne, padre di Richard, reduce della seconda guerra mondiale, che non costituisce una particolare alternativa di valori per i nipoti, essendo comunque dedito principalmente ai piaceri primari del cibo, della pornografia e delle droghe, ma che comunque, a differenza dei più giovani parenti, è privo di sovrastrutture ideologiche. Egli consola il figlio, dopo la notizia del fallimento del suo progetto editoriale, dicendogli che comunque si era messo in proprio e aveva rischiato.

E alla nipote che piange perchè aveva paura di perdere e di essere, appunto, una “perdente” e di venire per questo odiata dal padre, la consola dicendo che perde solo chi non si mette in gioco (in una versione più profonda del sogno americano in cui l’importante è la libertà e l’autonomia, non il materialmente vincere o perdere grazie ad esse). Una delle parti più godibili del film è quella in cui il nonno, che si occupa di preparare il numero della bimba, la ammaestra ad una danza erotica e maliziosa, con tanto di spogliarello. Il nonno muore d’infarto durante il viaggio, ma la famiglia, per non perdere il concorso di bellezza. evita le procedure burocratiche e si porta con sé illegalmente il corpo, in un’estrema rimozione della morte ma anche in un estremo recupero del senso della vita, che avviene proprio rompendo la gabbia d’acciaio dei valori dominanti.

All’ospedale, dove spira il vecchio, il dottore e l’addetta alle pratiche burocratiche nascondono un fondo di brutale indirìfferenza dietro una maschera accattivante e pubblicitaria: Richard decide allora di infrangere la legge non lasciando nelle loro mani il corpo del padre (la polemica con il sistema sanitario americano era peraltro innescata fin dall’inizio del film: lo psichiatra avrebbe voluto trattenere Frank più a lungo in osservazione, ma la mancanza di copertura assicurativa lo impediva). Arrivati a rotta di collo all’hotel dove si svolge la gara – dopo aver violato più volte il codice della strada -, la responsabile rifiuta l’iscrizione di Olive per quattro minuti di ritardo e si giustifica dicendo che “non si possono fare favoritismi”. La lotta al “favoritismo” diventa così l’alibi per non considerare il caso umano al di fuori dei limiti della regola. Sarà poi un impiegato che, di fronte a Richard che si inginocchia (a sua volta riumanizzandosi), decide di riaprire il computer, convincendo la responsabile (“se lei ha tempo da perdere…”) e ripromettendosi di non lavorare più in quel posto l’anno successivo (“questi son tutti malati”).

La family si trova di fronte ad uno scenario agghiacciante: piccole miss agghindate come oggetti sessuali, pronte ad esibirsi da animali ammaestrati. Se Frank e Dwayne scoprono in quei frangenti un’affine sensibilità nel denunciare un sistema di vita che dalla scuola all’università al lavoro è tutto un immenso concorso di bellezza e alla valorizzazione della sofferenza come dimensione di conoscenza, Richard acquisisce la consapevolezza del carattere mercificante della manifestazione, immedesimandosi nel rischio a cui si espone la figlia e irrompendo (ancora una volta contro le regole) nei camerini, per bloccare il numero. Ora sono tutti d’accordo che la bimba non può essere valutata da “queste merde”. Ma Olive si esibisce lo stesso nel numero imparato dal nonno, che suscita qualche entusiasmo ma soprattutto indignato scandalo nella direzione che, ipocritamente, dopo aver innalzato un sistema basato sul commercio dei corpi e dei sogni infantili, vorrebbe impedire che ne venga scoperchiato il rimando fondamentale al mercato consumistico del sesso, su cui tanta parte della società dello spettacolo è (repressivamente) basata.

2. Elitarismo

Il tema della “meritocrazia” è anche al centro del film The skulls – I teschi[ix], questa volta in modo esplicitamente didascalico. Il protagonista è Luc Mac Namara, un ragazzo di estrazione proletaria, ex ladruncolo ma ora brillante allievo in un college, che però deve lavorare nella mensa per mantenersi e sa bene che per pagarsi gli studi dovrà caricarsi di un debito ingente, che gli farà passare una vita di ristrettezze fino alle soglie della pensione. Nel corso di una lezione Luc risponde al quesito di un docente su se gli Stati Uniti siano una società di “classe” o “meritocratica”. In realtà – risponde l’allievo nella sorpesa generale (segno della solidificazione del mainstream) –  i due concetti non sono in antitesi, bensì  in stretta connessione: infatti “il merito viene premiato con la ricchezza” e “la ricchezza crea la classe”. Dopo di che si dipana un thriller incentrato sulla società segreta dei Teschi, la più potente d’America, di cui, si dice all’inizio, avevano fatto parte ben tre presidenti degli Stati Uniti. Queste società segrete – si dice sempre nell’introduzione al film – mirano a “plasmare i leader del futuro”: sono cioé i canali di costruzione elitaria della classe dirigente. La confraternita vuole reclutare Luc, eccellente anche nello sport, oltre che negli studi. Gli viene prospettata una vita da sogno, con emolumenti e benefit già dagli anni dell’università e un aiuto a vita da parte dei confratelli. Il rito d’iniziazione avviene in una sala neo-gotica in cui a grandi lettere è scritto “war”, perché, viene spiegato a Luc, è la guerra l’essenza della realtà: e ciò piacerebbe a Fukuyama che, dovendo (a malincuore) rinunciare agli eventi bellici, auspicava un rilancio della spinta megalotimica nell’agone mercatistico, come antidoto alla stagnazione nell’apatia isotimica della democrazia, già paventata da Tocqueville.

Luc certo è stato scelto per i suoi talenti, ma i suoi nuovi confratelli nella maggior parte dei casi, hanno avuto il solo “merito” di essere figli di altri confratelli. Ancora una volta si tratta della struttura elitaria della visione elitista del potere: comanda una minoranza via via arricchita, assieme a poche eccellenze provenienti dai piedi della piramide. Luc ha una amica speciale, Cloe, con cui sta nascendo un rapporto sentimentale e a cui esita a confessare i propri sentimenti, essendo lei di famiglia molto ricca; e un amico di comuni ideali, William, con cui costituiscono un trio affiatato. William vuol fare giornalismo d’inchiesta e contesta l’iniquità dei privilegi delle società segrete. Ovviamente la scelta dell’amico di entrare nei Teschi rompe l’equilibrio fra loro, finché l’aspirante giornalista non muore ucciso dal preside della facoltà, ovviamente appartenente ai teschi, che maschera l’accaduto con un finto suicidio. Luc prende quindi coscienza della rete criminosa di ricatti e giochi di potere che caratterizza la società segreta, capace di condizionare le istituzioni e le forze dell’ordine e, con l’aiuto di Cloe e una banda di ex compagni di liceo rimasti ai piedi della piramide sociale, riesce a trovare le prove dell’omicido. Preso di mira dai vertici della confraternita, dopo un drammatico finale, si tira fuori dai guai, rifiutando un’estrema offerta di rimanere nei Teschi in una posizione di potere, dicendo di no a un futuro di ricchezza e rievocando quanto amava dire il suo amico William e cioé che se “una cosa è per pochi non può essere buona”.

Il film è del 2000. Chiaro quindi il rimando all’era clintoniana, che lungi dall’ arginare il dilagare dei valori reaganiani, ne favoriva l’affermazione al pari di quanto stava avvenendo nell’Inghilterra del New Labour rispetto al tatcherismo. Al di là della critica alla società americana, è la più generale riflessione su come la meritocrazia giustifichi la trasmissione del privilegio, di come essa sia il connotato di una società di classe e non di una società giusta, che qui mette conto di fermare.

Questa problematica era in realtà anche alla base del giallo-horror francese I fiumi di porpora[x], dello stesso anno dei Teschi. Mathieu Kassovitz, il regista del film, aveva cinque anni prima esordito brillantemente con L’odio[xi], in cui lanciava un monito alla fortificazione occidentale impegnata a innalzare muri e definire confini: prima o poi il conflitto con i nuovi esclusi dalla cittadinanza, i migranti delle banlieues, sarebbe esploso senza possibilità di ritorno. Qui i confini della cittadinanza sono riproiettati in quelli di una comunità accademica endogamica, l’Università di eccellenza di Guernon, nelle Alpi francesi. Da tre anni la prima università di Francia e con un alto quoziente d’intelligenza medio: è quanto vanta il vice-rettore al commissario Pierre Niemans, interpretato da Jan Reno.

I membri della comunità sono legati da antiche tradizioni e tendono a sposarsi tra loro: ciò ha prodotto malattie congenite che hanno indotto i docenti a scambiare i loro figli con quelli dei montanari, suscitando anche teorie eugenetiche di incrocio virtuoso fra doti fisiche e mentali. E’ significativo che l’immaginario nazista degli studenti d’eccellenza sia parallelo a quello dei giovani proletari naziskin con cui si scontra, anche ideologicamente, il (fumatore di canne) tenente Max Kerkerian (Vincent Cassel), quasi a segnare un corto circuito egemonico che impedisce alla soggettivazione subalterna di acquisire autonomia. Il vice-rettore è peraltro figlio del rettore: “ci teniamo alla tradizione”, si giustifica quest’ultimo col commissario. In questa università anche i posti in biblioteca sono preordinati e resi immutabili. Prevale peraltro fra gli studenti la spinta a primeggiare per “salire sul podio”. La catena di orribili omicidi in cui i due protagonisti si imbattono troverà spiegazione nella vendetta di due bambine coinvolte venti anni prima in uno scambio. Qui insomma l’elitarismo della comunità e il culto dell’eccellenza muovono da una pretesa di superiorità che giustifica il più vieto familismo (come nei Teschi)[xii]. Si cerca quindi di redimere il naufragio patologico con un nuovo mito di perfezione, che tuttavia si afferma attraverso un crimine collettivo di tipo classista, che non può che generare un ritorno orribile di violenza. Kassovitz, fra L’odio e Fiumi di porpora compie lo stesso percorso del sudafricano Neill Blomkamp da Distrikt 9[xiii] a Elysium[xiv]: dalla rappresentazione dell’esclusione etnica a quella della discriminazione sociale e di classe (che l’include).

La “teodicea” meritocratica infatti, giustifica non solo le diseguaglianze fra i singoli soggetti di una società, ma anche fra gruppi sociali. Se un paese o una minoranza etnica si trova in stato di disagio, se lo è “meritato”, ad esempio per una scarsa cultura del lavoro. In tal modo è possibile affrontare il problema della povertà come se essa fosse una colpa: Punire i poveri[xv] recita uno dei più importanti testi sul securitarismo. Di questo ci parla La notte del giudizio[xvi], thriller distopico in cui si immagina che il dilagare di violenza e disagio sociale negli USA, come in Battle Royal, vengano combattuti con una legge che rende legali, per una notte all’anno, violenze di ogni tipo, fino all’omicidio. Criminologi e psichiatri spiegano che in tal modo l’aggressività (ritenuta) naturale nell’uomo trovi sfogo alleggerendo così la pressione criminale per il resto dell’anno. La legge “funziona”, ma la ragione sta nel fatto che in quelle notti la gente comune e abbiente si arma andando a caccia dei “poveri”, che non possono dotarsi, come gli altri, di sofisticati dispositivi di sicurezza. Protagonista è una famiglia arricchitasi di recente proprio con l’industria della sicurezza, prosperata assieme a quella delle armi.

La sera prima della notte del giudizio il padre festeggia con i figli e la moglie un nuovo mega-bonus ottenuto con le vendite. Come tutti i wasp benestanti marito e moglie credono religiosamente all’utilità sociale della “notte dello sfogo” e ai “nuovi padri fondatori” che l’hanno istituita. In certo modo similmente al Richard di Little Miss sunshine, la loro umanità è momentaneamente sepolta sotto uno strato di ideologia sacralizzata (la “notte dello sfogo” è del resto continuamente legittimata dai media, con la voce suadente di conduttrici televisive, come in Battle Royal per l’omonima legge). Saranno i due figli a risvegliarli, contagiandoli nella pietà per un afroamericano senza dimora e braccato, che chiedeva aiuto dicendo, fra l’altrp, “non me lo merito di morire”. Anche il pater-familias, intimando all’ “ospite ingrato” di uscire dalla casa dove lo aveva introdotto il figlio minore, gli dice: “noi non meritiamo di morire” e cioé di rischiare la rappresaglia minacciata dai cacciatori che ormai assediavano la loro casa. E a lui risponde la vittima designata: “ e perché io lo merito”?

 

 3. Comunicazione

Si trattava di anni – quelli di Fiumi di porpora e dei Teschi– in cui le diseguaglianze avevano  iniziato a riaprirsi drammaticamente in Europa e in America, sebbene ancora il processo di finanziarizzazione non avesse mostrato tutto il suo carattere illusorio per il benessere dei ceti medi, attratti dall’idea di un cambiamento di condizione possibile per tutti (come si vede bene nel recente The wolf of wall street[xvii]). La new economy, resa scintillante e “democratica” dai nuovi mezzi di comunicazione digitali, sembrava poter delineare un mondo in cui dal nulla ognuno poteva crearsi una fortuna con il proprio merito.  Flessibilità faceva rima con opportunità. Nella Silicon Valley veniva rinnovata la leggenda di Re Mida. Ma non si trattava di ricchezza diffusa a tutta la società (nonostante che fino all’inizio della Grande crisi il credito facile lo avesse potuto far pensare), bensì di destini individuali che al massimo proiettano sull’intera specie un nuovo sogno di perfezione[xviii].

Anche in I fiumi di porpora al commissario Pierre Niemans veniva riferito da un collega che all’Università di Guernon si selezionavano “i nuovi Bill Gates”. David Fincher, in The social Network[xix], ha a questo proposito tratteggiato la figura di Mark Zuckerberg proprio mettendo in evidenza principalmente come la sua ascesa personale sia avvenuta sulla base della spregiudicata rimozione di ogni sentimento umano, oltre che di una continua manipolazione della realtà e degli altri, in una risentita rivolta “acquisitiva” del nerd: vendetta contro i canoisti ch’egli supponeva riscuotessero simpatie dalla sua ex; e vendetta contro il suo migliore amico (anche se in realtà Mark dichiara già dall’inizo di “non avere amici”), che era entrato in un club esclusivo.  La condizione del nerd, peraltro, inadeguato a relazionarsi agli altri per un complesso di inferiorità, viene come generalizzata nel prototipo del consumatore passivo che frequenta compulsivamente i social network. Non c’è autenticità ed emancipazione nell’esteriorizzazione in rete la propria intimità, ma soltanto sfogo immediato e sterile degli aspetti più narcisistici del proprio io.

Non sono tanto i soldi ad animare lo streben  di Mark, ma la rivalsa verso una società che non gli dà il riconoscimento sperato. Tuttavia, sempre per utilizzare il linguaggio di Fukuyama, non è l’isotomia  a muovere l’ascesa personale di Mark, ma la megalotimìa. Egli rompe l’abitudine alla vittoria e al privilegio degli aitanti figli di papà di Harvard, ma mirando comunque ad acquisire la loro stessa esclusività, in nome di un superiore tasso intellettivo e creativo. Nella prima scena il giovane Zuckerberg tedia la sua ragazza parlandogli di statistiche secondo cui in Cina ci sono più soggetti con Q.I da geni che abitanti negli Stati Uniti. Le sue alte votazioni gli fanno sperare di entrare in un club esclusivo, di quelli stessi descritti nei Teschi. La ragazza lo lascia proprio per la sua ossessione di entrare in un club che gli consenta di portarla a “eventi” e “feste” e farle conoscere persone che “altrimenti non conoscerebbe mai”. Mark, del resto, guarda Erika dall’alto, perché è del Boston College. Come nei Teschi, qui si parla dei club anche come luoghi di mercificazione del corpo femminile e del sesso.

La Silicon Valley rappresentata da Fincher riproduce la stessa atmosfera  del delirio alcolico e tossico evocato in The wolf of wall street. Ciò anche a dimostrazione di quanto possa essere contraddittorio, come spesso si fa nei salotti italiani, indignarsi per le derive “pornocratiche” di qualche recente ambiente di governo europeo e contemporaneamente guardare come ad un modello alla ”meritocrazia” americana e al suo sistema universitario d’eccellenza. “Portare le galline sempre con me, questa è l’università”, dice con amarezza Edoardo, brillantissimo laureando in Scienze economiche ad Harvard, pensando ad una delle penitenze iniziatiche per entrare nei club esclusivi. Alla fine di Quarto potere[xx] di Orson Wells il protagonista ripensa alla slitta di quand’era bambino mentre per sempre sta lasciando una vita alienata dalla corsa al successo (“Rosa Bella”): qui invece Zuckerberg finisce per ripensare a Erika e ad aspettare davanti allo schermo del computer una risposta alla richiesta d’amicizia a lei inviata su facebook (dato che nella vita reale lei non lo riteneva più degno neppure di quel tipo di relazione).

Il tema dell’impatto dei nuovi mezzi di comunicazione sulla vita delle persone in un regime proprietario di tipo privatistico e consumistico – fino alla distopia neo-liberista e post-democratica – è del resto l’oggetto del serial tv inglese Black mirror[xxi]. Almeno due puntate trattano il tema della “meritocrazia”.

È indicativo come la Wikipedia, con tipica rimozione del mainstream, parli di testi incentrati sull’impatto dei mezzi di comunicazione digitali, senza far riferimento alla radicale critica politica del presente. Allo stesso modo è significativo che la traduzione italiana del titolo dell’episodio su cui ci stiamo per soffermare è Quindici milioni di celebrità, mentre l’originale è Fifteen million merits[xxii]: a occultarne, cioè, l’impopolare carica anti-meritocratica. In questo episodio dunque l’umanità è divisa fra una maggioranza di schiavi costretti in un chiuso panottico a produrre l’energia del sistema azionando una cyclette e consumando immagini proiettate in schermi avvolgenti totalitariamente tutto il sistema di vita; e una minoranza di soggetti che vivono all’aperto, in una rideclinazione della divisione castuale della Macchina del tempo di H.G.Wells, in quanto parte dello star system. Gli schiavi lavorando acquisiscono “meriti” e cioé punteggi con cui poi possono acquistare beni virtuali che vanno ad arricchire la vita del loro avatar digitale. Uno degli schiavi, il protagonista, che aveva ereditato molti “meriti” da un fratello morto, decide di investirli per iscrivere la sua amata ad x factor per valorizzare la sua bravura nel canto. Lei invece viene reclutata per fare la pornostar. Lui metabolizza l’atroce sofferenza nel cercare di conquistare il palcoscenico e poter così gridare la sua protesta minacciando di uccidersi con un pezzo di vetro puntato alla gola, ma alla fine il potere spettacolare lo inghiotte come sabbia mobile: viene infatti “liberato” per gestire uno show in cui ripete ogni volta il suo gesto di rivolta.

 

4. Valutazione

I “meriti” ricordano i “crediti” e cioè la moneta con cui lo studente, ridotto a “cliente”, si guadagna oggi la laurea in un’università sempre più dominata da criteri mercatistici. In questo quadro entra in gioco la “valutazione” come dispositivo di controllo sociale che sorveglia e punisce[xxiii] i soggetti, rendendoli subalterni alle gerarchie sociali e alle loro agenzie post-democraticamente autolegittimate (l’ANVUR come le agenzie di rating o il FMI). Un’altra puntata di Black mirror, Ricordi pericolosi (The entire history of you)[xxiv] parla proprio di questo. Si immagina cioè che in un futuro immediato le persone si possano innestare dei microchip dietro la testa, divenendo in grado così di registare tutto quanto visto nella giornata e di conservarlo in appositi files. Quasi tutti diventano dipendenti da questo nuovo dispositivo tecnologico, che consente di auto-controllare continuamente la propria vita. Il neo-liberismo contemporaneo del resto agisce biopoliticamente proprio inducendo un continuo processo di autovalutazione. La puntata inizia appunto con un colloquio di lavoro in cui un avvocato è sottoposto a giudizio da una commissione di spregiudicati valutatori. Nelle ore successive lo stato di ansia per l’esito è accresciuto dal continuo ripercorrimento del colloquio stesso, che a una festa da amici viene per gioco proposto di proiettare pubblicamente per tutti in uno schermo. Uno degli ospiti definisce l’idea: “valutazione della valutazione”.

L’ossessione per la valutazione è del resto l’esito dei processi di privatizzazione che dagli USA post-reaganiani stanno ormai dilagando anche in Europa. School of rock, la divertente commedia con Jack Black[xxv], può anche essere letta come una satira della società sotto Bush junior. Dewey è un ormai maturo aspirante rocker, che vive a scrocco a casa di un amico, Ned, che invece ha rinunciato ai sogni musicali per fare il supplente a scuola.

Dewey viene cacciato dalla sua band perchè ha un comportamento eccessivo per il più civilizzato marketing contemporaneo (troppi “a solo” di chitarra, salti sulla folla etc..) e la fidanzata di Ned, che lavora nell’ufficio del sindaco, rivendica il contributo all’affitto considerandolo un “buono a nulla” che non produce. Dewey, per fare un po’ di soldi, si finge Ned, assumendo un incarico di supplente nella più qualificata scuola privata dello Stato, reclutando i suoi alunni in una fantastica rock-band e facendo loro superare le insicurezze adolescenziali legate anche ai miti repressivi di una bellezza codificata e di una competizione individualistica. E’ chiara la critica dell’ossessione americana per il curriculum, che inizia già all’asilo. Dewey è contro i “demeriti” e i voti ed è contro i “test”, contrapponendo a questi il dispiegamento libero della personalità. Egli parla ai discenti di un “potente” che domina il mondo e normalizza persino la forza originariamente eversiva del rock.

La preside della scuola si apre interiormente con Dewey (che peraltro la scandalizza cantandole canzoni in cui si lamentano le sofferenze sociali prodotte dal modello economico turbocapitalistico, mentre ufficialmente si decantano progressivi “good times”), confidandogli il suo disagio: ella è sottoposta alla pressione dei genitori che pagano rette salatissime. Non si ha il “diritto di sbagliare” in una scuola in cui tutto è oggetto di una valutazione mirata a vendere un prodotto. Una delle scene più divertenti è proprio quando la preside deve dire ai genitori della classe che i loro bambini sono scomparsi (fuggiti per andare a fare uno show con Dewey): il suo annuncio è soave e lievemente eccitato, come interpretasse una pubblicità (un po’ come il video in cui in Battle Royale viene spiegato agli studenti come fare ad ammazzarsi fra loro o come nei notiziari della Notte del giudizio, in cui si illustra il rinnovato successo della legge a suon di cadaveri). La fidanzata di Ned scopre il trucco e chiama la polizia, mentre i genitori si scagliano contro Dewey, temendo che fosse un pedofilo, in una penetrante satira dell’ordine disciplinare post-11 settembre: la sua metallica atmosfera viene rotta dal grande show finale della nuova band, mirato non a vincere una competizione, ma a smuovere gli animi di chi partecipa all’evento. Anche qui, come in Little miss sunshine sembra quasi che il capitalismo contemporaneo e il modello di Stato che lo rappresenta, finiscano anche per fuoriuscire dai termini dell’originario sogno americano, basato sul trascendentalistico esprimere se stessi, dato che il new order riporta più ad Hobbes e  al Panottico che a Rousseau e a Emerson.

All’opposto, anche come un omaggio al lavoro “pubblico” può essere visto il recente bellissimo film di Uberto Pasolini, Still life[xxvi]. Il protagonista, infatti, lavora per il comune di Londra, eseguendo un compito apparentemente lugubre: rintracciare i parenti dei morti soli e abbandonati, chiedendo loro di partecipare alle esequie. In realtà egli svolge con grande passione questo ufficio, rievocando la vita di questi morti per poter rintracciarne i cari, ma in realtà anche per onorarla e dargli un senso anche per i vivi, ad essi riconnettendola. Il suo rispetto per le persone travalica l’utilitarismo delle relazioni quotidiane e acquista il valore gratuito di un servizio fatto agli altri anche dopo la morte e alla comunità ancora presente, in una sorta di “biopolitica positiva” o “tanatopolitica positiva”.

Questo anti-eroe urbano dei nostri tempi viene licenziato da un dirigente che applica al personale del Comune criteri privatistici, valutandolo troppo lento nella sua scrupolosità e quindi da tagliare insieme agli altri “rami secchi”. Ma lui tiene a svolgere e finire il lavoro rimasto a metà anche dopo essere stato licenziato, con deontologia opposta a quella dello stereotipo ad arte agitato dai media contro il lavoratori pubblici, per legittimare lo smantellamento dello stato sociale e le privatizzazioni.

Note

[i]              Cfr. D.Harvey, Breve storia del neo-liberismo, Il saggiatore, Milano, 2007.

[ii]             Cfr. S.Cingari, L’equivoco meritocratico e il valore del lavoro pubblico, in “Il ponte”, aprile 2010, pp.37-46 e Per un’analisi critica del concetto di «meritocrazia» come «ideologia» neo-liberista in “South-East European Journal of political Science, vol.1, n.1, 2013 (on line).

[iii]            C.Crouch, Post-democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.

[iv]            S.Hall, Gramsci e noi, in G.Vacca, P.Capuzzo e G.Schirru (a cura di), Studi gramsciani nel mondo. Gli studi culturali, Bologna, Il Mulino, 1998, p.71.

[v]             Ari Folman, Israele, Germania, Francia, 2008.

[vi]            Darren Aronofsky, USA-Francia, 2008.

[vii]           Kinji Fukasaku, Giappone, 2000.

[viii]          Jonathan Dayton e Valerie Faris, USA, 2006.

[ix]            Rob Cohen, USA-Canada, 2000.

[x]             Mathieu Kassovitz, Francia, 2000.

[xi]            Francia, 1995.

[xii]           Sul nesso fra meritocrazia e privilegi familistici cfr. C.Albanese, Il feticcio della meritocrazia, Roma, Il Manifesto libri, 2013, pp.54, 58-59 e 91.

[xiii]          USA, 2009.

[xiv]          USA, 2013.

[xv]           Loic Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale (2006), Roma, Deriveapprodi, 2006.

[xvi]          James DeMonaco, USA, 2013.

[xvii]         Martin Scorsese, USA, 2013.

[xviii]        Si veda, su ciò, Collettivo Ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Ledizioni, 2012.

[xix]          USA, 2010.

[xx]           USA, 1941.

[xxi]          Mi sono soffermato su tutte le sei puntate del serial in “Black mirror” o della biopolitica postdemocratica, in “Iconocrazia. Potere delle immagini / immagini del potere”, n.4 (on line).

[xxii]         Euros Lyn, 2011.

[xxiii]        V.Pinto, Valutare e punire, Napoli, Cronopio, 2012.

[xxiv]        Brian Welsh, 2011.

[xxv]         Richard Linklater, USA, 2003.

[xxvi]        Regno Unito, Italia, 2013.

Filmografia

L’odio, La haine, Mathieu Kassovitz, 1995

Dinosauri, Dinosaur, Eric Leighton – Ralf Zondag, 2000

The skulls (I teschi), The Skulls, Rob Cohen, 2000

 Battle Royale, Kinji Fukasaku, 2000

I fiumi di porpora, Les riviéres pourpres, Mathieu Kassovitz, 2000

School of rock, Richard Linklater, 2003

Little miss sunshine, Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006

Valzer con Bashir,  Ari Folman,  2008

The werstler, Darren Aronofsky, 2008

District 9, Neill Blomkamp, 2009

The social network, David Fincher, 2010

Quindici milioni di celebrità, Fifteen million merits (Black Mirror – Season 1), Euro Lyn, 2011

Ricordi pericolosi, The entire history of you (Black Mirror – Season 1), Brian Welsh, 2011

La notte del giudizio, The purge, James DeMonaco, 2013

Still life, Uberto Pasolini, 2013

Elysium, Neill Blomkamp, 2013

 The wolf of wall street, Martin Scorsese, 2013

Il presente saggio è stato pubblicato per la prima volta nel numero speciale del “Ponte”, curato da Mario Pezzella, dedicato al cinema che si è occupato dei temi legati alla crisi finanziaria, intitolato Gli spettri del capitale. Cinema e pensiero critico, in “Il ponte”, Novembre-Dicembre 2014, nn.11-12, pp.99-112.

tysm literary review

vol. 16, issue 21

january 2015

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