Cioran, un fallito di successo
Francesco Paolella
Gabriel Liiceanu, Emil Cioran. Itinerari di una vita, Mimesis, 2018
Può essere che la figura di Emil Cioran sia divenuta addirittura “di moda” (una moda marginale e snob, ovviamente) in questi ultimi anni, ma ciò non toglie che le parole dello scrittore rumeno non smettano di essere una potente provocazione: l’ossessione della morte, la mostruosità dell’uomo, lo scetticismo riaffermato contro ogni tentazione di fede e di speranza… sono queste le sostanze che instancabilmente Cioran ha riaffermato. Lui per primo era consapevole della “banalità” – ovvero: della non originalità – del suo pensiero, ma ciò che conta davvero in questi casi non è la teoria, non sono i sistemi filosofici con tutti i vari commentari accademici; ciò che conta è l’esperienza diretta e bruciante della negatività, del vuoto, del fallimento.
Ecco, senza dubbio possiamo dire che Cioran sia stato un fallito di successo: come uomo e come scrittore ha inseguito e “tutelato” la propria marginalità e la propria povertà (anzitutto materiale), rifuggendo la fama e rifiutando i premi letterari. Ma ancor di più, Cioran ha rifiutato ostinatamente – appunto per difendere la libertà che gli veniva dalla propria lucidità – di lasciarsi consolare (e ingabbiare) dalle sicurezze della vita: meglio essere un parassita che un impiegato! Meglio essere tutta la vita uno studente, sprecando in un certo senso il proprio talento, che lasciarsi soffocare… Cioran ha vissuto alla giornata, scappando da ogni sistemazione: e questa nuova biografia a lui dedicata, appena pubblicata da Mimesis, ci permette di penetrare nelle radici di questo esilio perenne.
Forse è stata l’insonnia – esperienza terribile durata diversi anni – ad aver rivelato a Cioran quanto la coscienza potesse essere un eccesso e una malattia, malattia contro la quale soltanto la scrittura ha potuto essere una terapia. Cioran ha voluto essere uno straniero: trasferendosi a Parigi e decidendo di abbandonare la propria lingua madre, ma anche facendosi nemico del proprio stesso mondo, quello dell’industria culturale. Se guadagnare era per lui qualcosa in fin dei conti disonorevole – in una commistione di megalomania e volontà di sottomissione – anche credere (in dio come nell’uomo) rappresentava una umiliazione insopportabile. Il blasfemo Cioran, così affascinato dalla vita dei santi e dei mistici, ha cercato nell’idea del suicidio – non predicandolo però – un rimedio possibile alla condizione umana. Soltanto l’idea di potersi uccidere poteva rendere a lui per primo la vita sopportabile. E così tanti suoi lettori hanno beneficiato e beneficiano della sua lucidità così inquietante, da vero “specialista” della morte. Cioran ha saputo fissare sulla carta la fatica di vivere, la condizione che colpisce in particolare alcuni uomini di sentire sempre il peso della vita gettato su di sé. L’ossessione per la morte non è stata vissuta da Cioran come un filosofo – lui che ha studiato filosofia e l’ha pure, ma per poco, insegnata. Egli si è votato piuttosto a una ricerca puramente personale, alla ricerca infinita di sé: anche per questo gli sono sempre interessate le figure di “marginali di genio”, di falliti e disadattati che – un po’ come fanno gli alcolizzati – sanno vedere la vita come essa è realmente, crudelmente, e crudelmente sanno commentarla.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
issn: 2037-0857
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