Colori senza sguardo, colori senza nome
Ilde Mattioni
Come i numeri, anche i colori sono oggettivamente e soggettivamente infiniti. Ce lo ricorda Manlio Brusatin che nel suo libro Colore senza nome [1] ribadisce il fatto che esistano persino «colori mai visti» o dai nomi impronunciabili» che ci interrogano sulla possibilità stessa della visione. Il colore senza nome, forse, semplicemente, altro non è che un colore della mente, ovvero un colore che non riusciamo a vedere, perché sempre qualche altro colore «si sovrappone al nostro sguardo».
Relativamente ai «colori della mente», e alla loro ambivalente, se non del tutto ambigua, percezione, nel 1868, ovvero due anni dopo la pubblicazione della terza parte della sua monumentale Ottica fisiologica – complessivamente dedicata alla percezione della luce, dello spazio e dei colori posta in rapporto con i movimenti oculari, oltre che allo studio della curvatura della cornea, analizzata attraverso uno straordinario strumento di sua costruzione, l’oftalmometro – il fisico tedesco Hermann von Helmoltz aveva cercato di portare all’attenzione della comunità scientifica la presenza, in certo qual modo imbarazzante, di numerose imperfezioni dell’occhio. La posizione di Helmoltz si rivelava in chiaro contrasto con il modello di comprensione ottica, forse più semplice e affascinante, proposto proprio in quegli anni, dallo spagnolo Santiago Ramón y Cajal. Secondo la concezione “fotografica” di Cajal, la precisione del processo visivo era determinata, in primo luogo, dalla condizione necessaria, ma forse del tutto insufficiente, della presunta perfezione dell’apparato ottico e, in secondo luogo, dalla egualmente supposta «capacità della retina di generare e trasmettere» un’immagine neurale, fedele e ad alta risoluzione. Un modello affascinante, secondo il quale le cellule nervose della retina opererebbero come tanti punti sensibili e impressionabili di una pellicola fotografica a grana molto sottile.
A questa posizione, Helmoltz rispose non solo con esperimenti che miravano a svelare l’esistenza di imperfezioni costitutive dell’occhio, ma anche dimostrando, come ricorda Marco Piccolino nel suo ricchissimo Lo zuffolo e la cicala [2], l’importanza strutturale di quelle imprecisioni per un adeguato, e metodologicamente fondato, studio delle dinamiche percettive. A questo proposito, quasi ironizzando sull’imperfettibilità dell’occhio, lo stesso Helmoltz dichiarava che «non sarebbe esagerato affermare che, se un ottico volesse vendermi uno strumento con tutti questi difetti io mi sentirei giustificato nel biasimare la trascuratezza del suo lavoro restituendogli, protestando, l’oggetto stesso».
Fin da allora, dunque, a differenza di quelli artificiali – microscopi, telescopi e via discorrendo – l’occhio umano appariva, a una osservazione scientifica rigorosa, come un sistema ottico abbastanza rozzo. Nonostante il fatto che, nella seconda metà del Diciannovesimo secolo, l’aspettativa e la tendenza generale rimanessero legate a una concezione dell’occhio umano inteso come apparato fisiologico perfetto, funzionante grazie a un sistema fotografico interno efficiente e di certo migliore rispetto a tutti gli altri strumenti costruiti dall’uomo, si stava già registrando una serie di “imperfezioni”ottiche, soprattutto nel campo dell’aberrazione cromatica, che avrebbero ben presto contribuito a mettere in crisi la visione, comunque di grande impatto divulgativo, derivata dal modello di Cajal. Molte di queste aberrazioni erano e sono semplici conseguenze della comuni leggi di rifrazione, ma anche della non perfetta trasparenza dei mezzi diottrici dell’occhio. Condizione fisiologica, per così dire “naturale” dell’occhio, l’imperfezione può però tramutarsi in patologia, come succede nel caso della diminuzione della trasparenza del cristallino, una disfunzione che comunemente conosciamo con il nome di “cataratta”. Il caso è però particolarmente critico se, a soffrirne, è un pittore e se il pittore, nella fattispecie, si chiama Claude Monet. Abituato a dipingere e a lavorare col colore, in un «atelier all’aria aperta» (en plein air), Monet poterà su di sé, come una ferita tanto intima, quando materiale, gli effetti negativi dell’eccessiva esposizione alla luce del sole, quello stesso sole che, come scriveva Nerval in una sua poesia, agli uomini «non è concesso guardare» senza veder apparire – figura stessa dell’impossibilità di ogni visione onnicomprensiva – «una macchia nera nell’occhio».
Proprio una circostanza, relativa alle disavventure percettive di Monet, riportata in un dialogo fra Balthus e il neurbiologo Semir Zeki – scopritore della visione cromatica del cervello -, offre lo spunto a Manlio Brusatin per introdurre un tema, quello del «colore cieco», che è forse tra gli spunti più affascinanti del suo lavoro. Pare che Monet – almeno così riporta Masson e in ogni caso, seppur non verificato, il fatto appare forse poco verosimile, ma di certo aderente al problema – in un periodo particolarmente critico della sua vita, collocabile all’incirca nel corso della Prima guerra mondiale, avesse espresso la volontà di distruggere tutte le sue opere, dichiarando: «vorrei essere nato cieco e ritrovare la vista proprio oggi, così potrei dipingere forme pure». Contestualmente a questa ricerca impossibile di “forme pure”, non mediate da modelli, o comunque frutto di pure impressioni della mente, Monet manifestò la propria intenzione di «distruggere tutte le mie opere». L’intenzione fu a tal punto risoluta che, a quanto pare, Georges Clemenceau si vide costretto a interrompere un’importante riunione di governo per correre dall’amico e impedirglielo. Clemenceau, ricorda Brusatin, si è occupato «di tutto Monet, addirittura dei suoi occhi», convincendolo, nel 1923, a sottoporsi a una serie di interventi per la rimozione della cataratta dall’occhio destro. Questa storia, prosegue Brusatin, se «confrontata all’oggi diventa incredibile e unica, nella sua verità paradossale, di una politica che va di persona verso l’arte e quasi muore con lei».
Nonostante la premura dell’amico, gli interventi chirurgici non tranquillizzarono il pittore, sempre più convinto di avere ormai una visione con una predominanza assoluta del colore giallo. In realtà, Monet era ormai vittima di una aberrazione cromatica che aveva ridefinito con le modalità percettive del suo occhio, lo stesso potenziale della sua pittura. Egli vedeva «giallo ciò che è verde e il resto più o meno blu». Questi erano ormai i suoi colori e l’universo stesso dei riflessi cromatici «rosa sull’acqua verde» dei suoi stagni, apparivano ormai tutt’uno con una visione del colore continuamente costretta a transitare attraverso la sua cecità. «Profeta accecato», Monet si colloca, osserva Brusatin, in un punto critico dell’arte contemporanea. Il passaggio dai Pagliai alle Ninfee diventa quindi «il poema frantumato e sepolto dell’arte contemporanea, una rifondazione attraverso il colore, un colore mai visto prima», che fa ormai tutt’uno con la pittura, grazie alla «provvidenziale cecità di Monet». Un colore cieco, un bianco tendente all’oscuro, se si considera, per riprendere ancora Masson, che proprio il nero «un bel giorno, non fece più parte della tavolozza, ma andò audacemente anche oltre, fino ad essere innalzato al rango stesso di luce».
Note
[1] Manlio Brusatin, Colore senza nome, Marsilio, Padova 2006.
[2] Marco Piccolino,Lo zuffolo e la cicala. Divagazioni galileiane su storia e scienza, Bollati-Boringhieri, Torino 2005.
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