philosophy and social criticism

Corrono voci

M. D.

Hugo Claus, Corrono voci, traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo, Feltrinelli, Milano 2006.

«Bisogna essere molto prudenti con le voci. Fanno presto a trasformarsi in verità, una specie di verità». Lo sanno bene gli abitanti di Alegem, paesino immaginario e apparentemente tranquillo delle Fiandre occidentali nel quale Hugo Claus ha scelto di ambientare De Geruchten, uno dei suoi romanzi più forti, quanto a impatto politico, e meglio riusciti, quanto a stile. Pubblicato ad Amsterdam nel 1996, tredici anni dopo il successo internazionale de La sofferenza del Belgio, del quale rappresenta una sorta di contrappunto tematico, il libro appare ora nella collana “I narratori” di Feltrinelli, con il titolo Corrono voci nella traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo.

Nato a Bruges nel 1929, con oltre centocinquanta pubblicazioni Claus è non solo uno scrittore e un poeta straordinariamente prolifico ma anche, indubitabilmente, una delle figure più anarchiche, radicali e politicamente scomode e scorrette della letteratura di area fiamminga. Traduttore da oltre sette lingue, compagno di strada di Christian Dotremont, Asgern Johrn e Pierre Alechinsky nel gruppo Cobra, autore di un numero imprecisato di sceneggiature – la prima è del 1957, per Naar de zee di Fons Rademakers – nonché direttore in proprio di film culto come Het Sacrament o De Verlossing, anche in Corrono voci Claus si serve di riferimenti, mai troppo impliciti in verità, ad alcuni luoghi comuni cinematografici (la fotografia di Blow-up o lo smarrimento dell’identità in Professione: reporter di Antonioni) e di una tecnica che, in qualche modo, risulta fortemente debitrice della sua pratica di regia e scrittura di scena.

Appoggiandosi su una base realista ma, al tempo stesso, come sua consuetudine, trasgredendola facendo ricorso a continui e repentini salti di tempo, luogo e registro di narrazione, Claus descrive l’infelice ritorno a casa di René Catrijsse, un giovane mercenario fuggito coi suoi compagni dal Congo di Patrick Lumumba, quando il lavoro sporco – formalmente rivolto alla protezione dei belgi intenzionati a rimpatriare dopo la dichiarazione d’indipendenza dell’ex colonia, il 30 giugno del 1960 – non serviva, non conveniva o forse non rendeva più e l’appoggio agli irregolari da parte del governo di Bruxelles si stava allentando. Ufficialmente ricercato come disertore, ma sorvegliato e protetto dalla figura ambigua del «capo», un folle drogato capace tanto di sterminare per un’inezia decine di indigeni, intonando il grido dei crociati «Dieu le veut!», quanto di mantenere oscuri rapporti con uomini delle istituzioni democratiche, Catrijsse ritorna a casa dopo tre anni di silenzio, lontano dalle brume di Alegem. Ad accoglierlo, la solita vita di provincia, gli occhi indiscreti e maliziosi dei compaesani, un padre sgomento, una madre che si illude di capirlo e le voci che danno il titolo al romanzo. «Corre voce che i soldati bianchi combattano tra di loro, uno contro l’altro, che laggiù non fate fuori solo i negri, ma che quando siete ubriachi vi sparate tra di voi», gli domanda la donna intuendo che quel figlio taciturno, oggetto di continue attenzioni morbose da parte degli avventori del negozio di famiglia, devastato nel fisico e nell’anima da un misterioso morbo contratto in Africa, altrettanto subdolo, ma forse meno letale «della cloaca della guerra», è ormai diventato un uomo privo di scrupoli morali, capace di sgozzare il pollo rubato a un vicino o il primo passante incontrato per strada con la medesima indifferenza. «Hai ucciso tanti negri col coltello?», chiede premuroso il fratello, aggiungendo che, comunque, ancora poche settimane e verrà «il Giorno dei defunti, il giorno in cui le anime di tutti i morti, neri, bianchi, gialli o rossi trattengono il fiato», prima che tutto si risistemi.

Come Louis Seynaeve, il bambino protagonista de La sofferenza del Belgio, che sognava di ammazzare le suore dell’istituto a cui il padre fascista lo aveva affidato, servendosi dell’arma del nemico, in quel caso «un taglia carte congolese», Catrijsse – il cui nome proprio René, «il rinato», suona a tutti come un maldestro presagio – con la sua fierezza malata, vive una doppia vita notturna, incontrandosi nei boschi con un compagno d’armi, trafficando diamanti e opponendo il proprio silenzio alle «voci» che, a poco a poco, lo indicano come il responsabile di una misteriosa epidemia che sta sconvolgendo il paese. Il silenzio di quel corpo, più della «peste delle Fiandre» che sembra portare con sé, riapre le ferite mai chiuse del colonialismo (quando erano i neri ad essere accusati, oltre che di cannibalismo, di «appestare la corte di re Leopoldo») e del collaborazionismo mentre col numero dei morti per l’infezione riaffiorano i fantasmi della pedofilia, della violenza familiare, della guerra civile e di una non meno prosaica speculazione edilizia (con il classico sindaco che moltiplica i lotti di terreno edificabili che Gesù alle nozze di Cana non ha fatto niente al confronto»). Le macchie che coprono René Catrijsse, la sua tosse, i suoi incontri sospetti con altri contrattisti inducono presto la comunità a interrogarsi sulla sua strana figura e sull’anomalo passato di sua madre, forse la vera responsabile di tutto, perché «venduta al nemico» e amante di un ufficiale nazionalsocialista.

Una storia scomoda, sembra suggerire Claus, soprattutto per quella parte del Belgio che non visse certo con sfavore i giorni dell’occupazione, sperando che dietro la svastica sventolassero finalmente gli emblemi dell’indipendentismo fiammingo.

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