Cosa faceva Benji? Arendt e Benjamin
Francesco Paolella
Dopo il suicidio nel 1940 di Walter Benjamin, Hannah Arendt lavorò con passione per anni e anni per far conoscere la figura e le opere dell’amico scomparso (“Benji”). In un certo qual modo, si tratta – così come appare dalle lettere e dagli altri documenti contenuti ne L’angelo della storia, appena edito da Giuntina – di una specie di vendetta, o almeno di una riparazione, contro il destino ingrato toccato a Benjamin. Al di là di risentimenti e polemiche, Arendt si impegnò per far conoscere il grande pensatore tedesco al di là della cerchia troppo ristretta delle conoscenze che quest’ultimo aveva avuto in vita.
Nei primi mesi del 1968, Arendt pubblicò un lungo, bellissimo e persino emozionante saggio su Benjamin, la cui esistenza appare come quella di un uomo colpito “dall’insidia delle cose” (p. 60), colpito da traversie di ogni tipo (i rapporti familiari, la difficilissima “carriera” accademica e professionale), ma anche da una speciale “inettitudine” ad affrontare gli aspetti più pratici della vita. Debolezza e genialità insieme. Una esistenza isolata, quella di Benjamin, e toccata sempre più dalla precarietà economica. Benjamin non ebbe mai veri “colpi di fortuna”; d’altra parte non riuscì (né volle) coltivare una posizione nel mondo spietato della “cultura ufficiale”. Alla fine lasciò tanti testi inediti, e ne lasciò di importantissimi.
Alla base del suo sguardo da flâneur sul mondo, da uomo radicalmente démodé e votato per così dire al fallimento, Arendt ha visto lo stupore del poeta. Ma Benjamin non era un poeta, come non era per lei nemmeno un filosofo. Chi era Benjamin? Cosa faceva? Come si potrebbe classificarlo?
“Potrei dire che era molto erudito, ma non era affatto un dotto; si occupava principalmente di testi e della loro interpretazione, ma non era un filologo; era affascinato non dalla religione, bensì dalla teologia e dall’esegesi teologica che presuppone pur sempre l’inviolabilità e sacralità del testo, ma non era un teologo e non era neanche particolarmente interessato alla Bibbia; era uno scrittore, ma la sua massima aspirazione era di comporre un testo formato esclusivamente da citazioni. Ha tradotto in tedesco Proust e Baudelaire, ma non era un traduttore; ha fatto innumerevoli recensioni di libri e scritto una serie di saggi divenuti poi dei classici su scrittori a lui contemporanei o già morti, ma non era un critico letterario; scrisse un libro sul dramma barocco tedesco e morì mentre stava lavorando a una poderosa opera sulla Francia del XIX secolo, ma non era uno storico e nemmeno uno storico della letteratura” (p. 240-241).
La fama di Benjamin iniziò a crescere soltanto dopo la sua morte. In vita, egli doveva vedere nella sua opera un fallimento insanabile. Era una specie di “libero pensatore”, o, meglio, uno studioso indipendente; era soprattutto un homme des lettres, a cui non interessavano particolarmente incarichi e cattedre; ed era un critico a cui piaceva scrivere aforismi. Figlio di una ricca famiglia, si ritrovò – senza sapersi mai adattare – a fare i conti con la povertà; ma l’unica forma di sussistenza poteva, nonostante tutto, derivare per lui da una rendita mensile garantita. La sua vita era libera, ma perennemente a rischio e, per questo, così anomala.
Benjamin era un free-lance che doveva vivere dei suoi scritti, ma che pubblicava poco (anche per coincidenze sfortunate, senza dubbio). Il suo patrimonio era formato dalla sua biblioteca (da vero bibliomane) e dal suo archivio di citazioni e riferimenti. Sono davvero suggestive e profonde le parole che Arendt dedica al Benjamin collezionista e alle pagine che lui stesso dedicò al collezionismo. Per lui i libri erano davvero dei feticci, e di ogni singolo esemplare, ciò che contava, era l’unicità:
“A ben guardare, tuttavia, in questa bizzarria del collezionista si possono trovare allora alcune particolarità davvero degne di nota. Innanzitutto, c’è il gesto – così caratteristico per questa nostra epoca – con il quale il collezionista non solo si ritira dalla sfera pubblica del momento, ma ritirandosi a vita privata porta con sé – e, come dice lui, trae in salvo – nella sua proprietà privata anche quelle cose che una volta appartenevano alla sfera pubblica. […] Inoltre, nella passione per il passato che il collezionista nutre in maniera disinteressata per puro amore del passato affiora già un tratto alquanto curioso, che mostra come proprio la tradizione passi in secondo piano con questo “erede” e i valori tradizionali non siano affatto ben conservati da lui, come a prima vista potrebbe sembrare” (p. 109-110).
Nel collezionista c’è un atteggiamento simile a quello del rivoluzionario: entrambe le figure mirano a compiere una redenzione – nella collezione, l’oggetto perde la sua utilità (“la schiavitù di essere utili”) per acquisire una nuova identità.
Sono anche importanti anche le pagine dedicate da Arendt ai rapporti (massimamente instabili) di Benjamin con le diverse ideologie a cui fu vicino o contiguo: il sionismo e il marxismo. Di entrambi a Benjamin interessava soprattutto il lato negativo, distruttivo. “Benjamin sarà stato forse il marxista più sui generis prodotto da un movimento cui non mancarono figure singolari” (p. 71). Egli fu un uomo inclassificabile e, a lungo, sulla soglia di una catastrofe che poi lo travolse. Le parole forse più toccanti sono quelle della ricostruzione che Arendt fa della fuga e del suicidio di Benjamin, contenute in una lettera a Gershom Scholem del 1941. Per molto tempo (e forse mai), Arendt non riuscì a fare i conti con la morte dell’amico: soltanto più di 25 anni dopo il suicidio di “Benji”, è nato il suo saggio Walter Benjamin.
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